ARGENTINA. QUEL CHE LA NOTTE RACCONTA AL GIORNO
21.11.2023 - 11.02.2024
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A cura di Andrés Duprat e Diego Sileo

 

La mostra propone una selezione di opere realizzate da più di venti artisti argentini di diverse generazioni negli ultimi cinquant'anni. Attraverso sculture, installazioni, fotografie, video e performance, il progetto curatoriale si sviluppa su tre assi - ironia, letteralità e citazione - che presentano differenti modalità di approccio alla rappresentazione di una cultura spesso caratterizzata, in passato così come oggi, da forme di violenza. Situazioni e attitudini che superano le congiunture e si installano in una domanda sul futuro e su quali sono le battaglie sociali da combattere, in Argentina e nel resto del mondo. Un percorso eterogeneo che cerca anche di raccontare e di far emergere le tante sfumature e le molteplici forme di espressione di un paese che per anni è stato la meta principale delle grandi migrazioni europee.

 

 

Il titolo, omaggio all’omonimo romanzo dello scrittore argentino di origini italiane Héctor Bianciotti, rimanda alla dicotomia tra l’inquietante e il luminoso evocata anche nelle opere in mostra, metafora di una storia che il giorno non conosce e che la notte deve raccontare.

 

Artisti in mostra: Eduardo Basualdo, Mariana Bellotto, Adriana Bustos, Matias Duville, Leandro Erlich, León Ferrari, Lucio Fontana, Ana Gallardo, Alberto Greco, Jorge Macchi, Liliana Maresca, Marta Minujín, Miguel Rothschild, Adrián Villar Rojas, Cristina Piffer, Liliana Porter, Nicolás Robbio, Graciela Sacco, Alessandra Sanguinetti, Tomás Saraceno, Mariela Scafati, Juan Sorrentino.

 

Immagine: Mariana Bellotto & GPS, MUNDO DE MIERDA, 2023. Performance. Courtesy l’artista. Foto Camacho & Dreyer

 

Con il patrocinio di

ORARI D’APERTURA
10–19:30
Giovedì ore 10–22:30
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Il PAC continua la sua esplorazione dei continenti attraverso la scena contemporanea con la mostra ARGENTINA. Quel che la notte racconta al giorno, una selezione di opere realizzate da più di venti artisti argentini di diverse generazioni negli ultimi cinquant’anni.

 

Attraverso sculture, installazioni, fotografie, video e performance, il progetto curatoriale si sviluppa su tre assi – ironia, letteralità e citazione – che presentano differenti modalità di approccio alla rappresentazione di una cultura spesso caratterizzata, in passato così come oggi, da forme di violenza. Un percorso eterogeneo che cerca di raccontare e di far emergere le tante sfumature e le molteplici forme di espressione di un paese che per anni è stato la meta principale delle grandi migrazioni europee.

 

In mostra alcune opere concepite site-specific per il PAC, altre realizzate in Argentina, sia in periodi di silenzio forzato – come forme alternative di denuncia – sia in momenti di effervescenza per il ritorno alla democrazia.    

 

Il titolo, omaggio all’omonimo romanzo dello scrittore argentino di origini italiane Héctor Bianciotti, rimanda alla dicotomia tra l’inquietante e il luminoso evocata anche nelle opere in mostra, metafora di una storia che il giorno non conosce e che la notte deve raccontare.

LEANDRO ERLICH

La ricerca di Leandro Erlich è volta alla risignificazione degli spazi quotidiani, giocando con la percezione degli osservatori. Per il PAC Erlich rielabora El cartel (Il cartello), realizzata nel 2019 in occasione della sua esposizione antologica Liminal, curata da Dan Cameron e tenutasi al MALBA, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires. Nella nuova versione site-specific creata per la mostra milanese, l’artista interviene sulla facciata del PAC affiggendo un grande cartello immobiliare che annuncia la vendita dello storico padiglione milanese di proprietà della Pubblica Amministrazione. Si legge che l’immobile sarà liberato solo a partire dal marzo 2024, in riferimento alla data della fine dell’esposizione: la realtà viene messa in discussione, cancellando il limite tra reale e finzione, proprio come in tutta la produzione dell’artista.

L’azione è provocatoria e parte da una falla che non può durare a lungo nel tempo ma, come sottolinea l’artista stesso, “questo microstato di confusione realizza qualcosa che potenzialmente può farci vedere una realtà” e attivare una riflessione critica sul dibattito sempre aperto della valorizzazione e della promozione della cultura pubblica. Come scriveva Dan Cameron in occasione della precedente versione dell’opera, “Erlich ha fatto in modo che un’importante istituzione museale venisse vista come una sorta di fantasma di se stessa: qualcosa che potrebbe trovarsi qui un giorno e sparire il giorno dopo, senza, tuttavia, dare segno di pericolo immediato”.

MATÍAS DUVILLE

Nella ricerca artistica di Matías Duville il paesaggio prende corpo grazie a disegni, installazioni, oggetti e video e le sue opere esprimono modalità differenti di avvicinamento a un territorio, reale o immaginario. Duville realizza site-specific per il cortile interno del PAC una nuova versione dell’installazione Precipitar una especie (Precipitare una specie), prodotta in occasione della sua personale alla galleria BARRO di Buenos Aires nel 2014. Il titolo ha un doppio significato: l’idea scientifica di coagulare una sorta di specie aliena con mezzi chimici e quella di dare vita a un nuovo essere.

Chimica, scienza e natura si mescolano nel suo lavoro. L’artista manipola un lungo tubo d’acciaio con il quale disegna una linea nello spazio; un tubo immenso, a tratti arrugginito, vincolato a due grosse pietre che ne modificano il tracciato. Dagli estremi di questa linea tubolare, che crea un’installazione di dimensioni tali da sovrastare l’ambiente e lo spettatore, escono un cactus e un pino, che evocano paesaggi diversi ma che l’artista fa convivere, diminuendo la distanza e dando l’idea che appartengano allo stesso universo naturale. Nell’installazione emerge una tensione tra i materiali che la compongono, giocata sul doppio: a elementi duri se ne contrappongono altri morbidi, a elementi naturali altri artificiali.

LEÓN FERRARI

Nel corso della sua carriera, León Ferrari torna più volte su temi come la religione, il potere, l’intolleranza e la violenza, per riflettere sulla matrice culturale occidentale e cristiana.

Nel 1965 Ferrari presentò l’opera La civilización occidental y cristiana (La civiltà occidentale e cristiana) al Premio Di Tella a Buenos Aires: un Cristo crocifisso montato sulla replica in legno di un aereo da guerra nordamericano, che denunciava la violenza dell’Occidente. Inaugurando la sua produzione più politica, scaturita dalla guerra del Vietnam, e aprendo una lunga discussione sulla religione intesa come origine della violenza, l’artista dichiara: “Credo che la nostra civiltà stia raggiungendo il più avanzato grado di barbarie mai registrato”.

L’opera fu inviata al premio con altre tre casse, ma alcuni giorni prima dell’inaugurazione, il direttore dell’Istituto Di Tella ne chiese il ritiro, dichiarando che offendeva la sensibilità religiosa. Davanti a un simile atto di censura, Ferrari prese la decisione politica di esporre solamente le casse: “Mi trovai davanti a un bivio: o prendere la strada delle arti plastiche che suggeriva, o meglio esigeva, di ritirare tutto e denunciare la censura, oppure imboccare quella della politica e seguire la mia idea iniziale di esporre proprio lì qualcosa sul Vietnam”.

L’esposizione dell’opera di León Ferrari al PAC di Milano è possibile grazie alla Fundación Augusto y León Ferrari Arte y Acervo (FALFAA) e al Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS). Per maggiori informazioni visita: www. cels.org.ar

LILIANA PORTER

Untitled (Porter and Camnitezer with drawing) [Senza titolo (Porter e Camnitzer con disegno)] e Untitled (triangle) [Senza titolo (triangolo)] sono due autoritratti di Liliana Porter che indagano il modo in cui rappresentiamo noi stessi. Porter interviene sull’immagine e traccia una linea che individua una porzione di corpo. Inizia tracciandola sulla sua mano ed estendendola su un pezzo di carta, poi registra fotograficamente il risultato e realizza una fotoincisione sulla quale, una volta stampata, traccia la linea con una matita.

Al PAC l’artista espone La Barrendera (La Spazzina): la grande installazione in mostra è una parte dell’opera monumentale To Sweep (Spazzare), 2023, realizzata in occasione della sua retrospettiva a Les Abattoirs, Toulouse. All’interno di un paesaggio composto da paralumi rotti e oggetti danneggiati, Porter attira la nostra attenzione su una piccola figura femminile che sta spazzando. La scena ha quasi un’aria onirica e rimanda a chi svolge un lavoro utile ma spesso risulta invisibile ai più, come questa minuscola spazzina che appare assorbita dal mettere ordine al caos: metafora del tempo e della memoria che ci trascina e ci affoga. Elementi antagonisti dialogano nello stesso spazio e interagiscono nella sua opera in senso estetico, narrativo, storico, critico, temporale e umoristico; oggetti rotti come reminiscenze che evocano il carattere non lineare del tempo e l’essenza anarchica.

LUCIO FONTANA

La ricerca di Lucio Fontana, artista italo-argentino e precursore dell’action art e dell’arte concettuale, è caratterizzata dalla preminenza del gesto, della materia e dell’incorporazione dello spazio nella tela.

Tornato in Argentina nel 1939, Fontana vi resterà fino al 1946, lavorando soprattutto a Buenos Aires. Nell’ultimo anno della sua permanenza a Buenos Aires elabora con un gruppo di allievi della Scuola di Altamira il Manifiesto Blanco, espressione delle ricerche da lui condotte in quegli anni verso inedite forme di linguaggio. Dall’Argentina porta con sé un blocco di disegni, tra i quali i tre in mostra, che rendono esplicito il procedimento dell’automatizzazione atta a concentrare e scaricare di teatralità e di tensione psicologica il gesto, così da mettere in evidenza una capacità combinatoria, una decisa rottura di fissità di schemi figurativi e un gusto per la leggera inventiva e l’estro spaziale. Si osserva anche come una certa inflessione plastica, qualche chiaroscuro con indicazione di volumi accennati e una sollecitazione verso modi organici e a tratti vagamente surrealisti alludano a forme di spazio scultoreo e di spessore corposo.

 

In Concetto Spaziale, Attese, 1959, la superficie piatta e dipinta di nero subisce sei fendenti (tagli) di varie dimensioni distribuiti sulla tela. Nel taglio, la tela si ritrae e appare uno spazio tra la superficie della tela e un “retro non specifico”. Fontana agisce sulla superficie monocromatica producendo tagli per introdurre nell’opera uno spazio tanto reale quanto indefinito. Questo gesto radicale mette in crisi lo spazio della rappresentazione e la bidimensionalità della tela, avviando il percorso verso la smaterializzazione dell’opera. Fin dall’inizio nel retro dei “tagli” Fontana ha posto l’intitolazione “Attesa” (se unici) o “Attese” (se molteplici), specificandone tuttavia anche la natura di “Concetto spaziale”. “Attesa” in un senso piuttosto ampio e volutamente pluriallusivo, andando verosimilmente da un’ipotesi di condizione avveniristica a un’intenzione contemplativa quasi metafisica. Nel nuovo ciclo di “tagli” (1958-1968) Enrico Crispolti sottolinea come cominci ad affermarsi il loro deciso e caratterizzante monocromatismo, e insieme una volontà di ordinarvi il taglio o i tagli quali strutture primarie ed elementari, gestualmente molto calibrate.

MARIELA SCAFATI

Mariela Scafati, pittrice e serigrafa queer, unisce nella sua produzione artistica creatività, attivismo collettivo e affettività. Insieme a Marina de Caro, Daiana Rose, Guillermina Mongan e Victoria Musotto fonda il gruppo Cromoattivismo, nel quale porta avanti una riflessione sul colore e sul legame biunivoco tra questo e la sua connotazione politica.
Riferendosi al suo lavoro come a un dipinto piuttosto che a un’installazione, Scafati realizza site-specific per il PAC un quadro composto da più dipinti monocromi legati con corde e sospesi nello spazio. Una pittura espansa che si dispiega nell’ambiente, composta da tele dipinte con l’acrilico, distinte da leggere variazioni di colore tra una e l’altra. L’artista utilizza il rosa come espressione della violenza contro le donne e la comunità LGBT, in riferimento al triangolo rosa che contraddistingueva gli omosessuali nei campi di sterminio. Scafati gioca con i limiti della pittura, mettendoli in discussione per stabilire nuove relazioni. Nella sua pittura pulsa qualcosa di “vitale”, come “corpi legati, immobili”[1].
Gli elementi che compongono l’opera sono tutti visibili, frutto della decisione dell’artista di ripensare e mettere in discussione lo spazio espositivo, superando la frontalità come unico punto di vista possibile.

[1]“Mariela Scafati: comienza”, Artishock, 6 gennaio 2023. Visitato il 10 ottobre 2023 su https://artishockrevista.com/2023/01/06/mariela-scafati-comienza/

ALESSANDRA SANGUINETTI

La serie En el sexto día (Il sesto giorno) ha per protagonisti la campagna argentina e i suoi animali, che vi compaiono morti o prossimi alla morte. Alessandra Sanguinetti ritrae il rapporto tra uomini e animali, un legame forte e al contempo violento, al fine di comunicare un messaggio: “Togliere la vita a un altro essere vivente non è un fatto naturale né quotidiano”. In ogni scatto, la scena viene isolata dal contesto per intensificare la situazione; le immagini, al di là dell’aspetto cruento, mantengono una loro poesia, che consente di riflettere su una situazione presentata come normale. Sanguinetti esprime in questo suo lavoro il fascino che prova verso la natura contraddittoria di “questa combinazione di amore che proviamo nei confronti degli animali e di violenza con cui li trattiamo”.

L’atto di ritrarre gli animali consente all’artista di dar loro “una nuova vita”. Sanguinetti indugia sulla bellezza dell’ambiente, in contrasto con le crudeltà che vi vengono commesse: “Ho sempre visto la natura come piena di vita e di morte. […] Nella quotidianità vita e morte convivono. Tutti gli animali in natura hanno due possibili destini davanti a sé: prevaricare su quelli che stanno per morire, o ingrassare fino a trasformarsi in cibo”.

MARIANA BELLOTTO

Mariana Bellotto è una regista, coreografa e performer che concepisce l’interdisciplinarietà e la sperimentazione come fondamento della sua arte. In un mondo che sta virando verso il distopico, l’artista include altre persone nella sua ricerca, pensa ai corpi come a un mezzo critico e politico. Attraverso performance, invenzioni performative, video-performance e audiovisivi affronta temi come il consumo, l’impatto delle azioni dell’uomo sulla natura, la tecnologia, la violenza.

L’artista espone al PAC la video-performance Trilogía Pandémica (Trilogia Pandemica). Il video inizia con le immagini documentarie di un serpente che compie la muta, immagini che alludono alla trasformazione dei corpi in tempi post-pandemici. In un secondo momento, in Tecnopiel, i performer occupano uno spazio indefinito per un preciso intervallo di tempo. Un uomo circondato dalla tecnologia in disuso annuncia che attraverserà un portale diventando un essere post-pandemico, un ibrido: appaiono dunque esseri umani all’interno di sacchi trasparenti, come se fossero plastiche umane, rifiuti tecnologici. In Coda-Trash, lo schermo di un computer mostra l’accumulo di rifiuti digitali, la riproduzione e lo scarto di immagini, la registrazione di un incontro, il tasto “canc” e il cestino come protagonisti.

ADRIÁN VILLAR ROJAS

Villar Rojas, avvalendosi di tutti i media e tutte le discipline, affronta il tema dell’estinzione della specie umana, dell’incertezza dell’ambiente, della natura fugace.

Untitled VI (Senza titolo VI) appartiene alla serie “Rinascimento”, iniziata nel 2015. Villar Rojas compone una natura morta in un frigorifero domestico esposto con la porta aperta, collocando alcuni alimenti nel freezer dietro un supporto trasparente. Questo ci permette di osservare le mutazioni che il materiale subisce nel tempo: la composizione con il passare dei giorni inizia a formare i cristalli di ghiaccio variando le forme degli elementi presenti. Oltre all’azione del freddo, ci sono fattori esterni che concorrono a causare ulteriori cambiamenti, come l’alterazione della fornitura elettrica o l’obsolescenza dell’elettrodomestico stesso. Il riferimento è alla precarietà della vita e al percorso irreversibile verso il degrado, nonché alla dipendenza dai dispositivi elettronici.

La composizione al di là del vetro ricorda le nature morte del Rinascimento, a cui fa riferimento anche il titolo della serie, un genere pittorico che l’artista rielabora lavorando con alimenti veri – carne, verdura, frutta, pesce, ecc. – che distribuisce, in modo meticoloso ed equilibrato, nel piccolo congelatore, dove la luce è protagonista fondamentale della composizione.

JORGE MACCHI

Jorge Macchi elabora, con linguaggi e media diversi come il disegno, la pittura, il video, la fotografia, l’installazione e la musica, proposte poetiche che sfidano la percezione dello spettatore. L’artista seleziona oggetti banali che preleva da contesti quotidiani e li colloca in luoghi a loro estranei, un’operazione semplice che disturba i sensi e genera una sensazione di straniamento che apre a molteplici significati. Oltre alla decontestualizzazione e all’annullamento della funzione, l’artista lavora sull’idea della ripetizione per provocare nuove letture.

 

Nel 2013 Macchi realizza Beehive (Alveare), un’installazione composta da ventidue ventilatori da soffitto uniti tra loro, una situazione che ne elimina la funzionalità impedendo loro di ruotare e che, con la distribuzione proposta, richiama le celle dell’alveare. L’installazione si caratterizza per i ventilatori collocati sul soffitto della sala e un suono ripetuto insistentemente. La ripetizione dell’oggetto e la disposizione geometrica delle strutture creano un ritmo, una sorta di “musicalità” che percorre l’opera. Nello stesso anno Macchi realizza Fan (Ventilatore), un’installazione che recupera lo stesso oggetto, ma in questo caso è in funzione un solo ventilatore.

NICOLAS ROBBIO

Il disegno, fondamentale nell’opera di Nicolás Robbio, smette di essere una pratica estetica e diventa un mezzo per la costruzione del pensiero.

Al PAC l’artista realizza un’installazione della serie “Estudios de Tensión” (Studi della Tensione), iniziata nel 2010. Utilizzando un sistema di cavi, punti e piombini, Robbio tende a sovvertire la percezione dello spettatore e dimostra l’impossibilità di separare il concreto dall’astratto e l’oggettivo dal soggettivo. Una freccia punta verso l’alto, una forza ascensionale ideale, alla quale l’artista contrappone due pesi, che spingono verso il basso a causa della forza di gravità – qualcosa di reale.

Bozal (Museruola) è un’installazione composta da una sega e un’ascia, poggiate in verticale sul pavimento. Nuovamente l’artista mette in crisi le percezioni: i due strumenti vengono qui limitati nella loro funzione, come dice lo stesso titolo. Sono ricoperti da un involucro in cartone grezzo che ne impedisce l’utilizzo, sulla scia del ready-made rettificato di stampo duchampiano.

In mostra viene esposto anche il video Los de arriba los de abajo los buenos los malos (L’alto il basso il buono il cattivo), realizzato nel 2011. Qui l’artista si concentra sulle grate di ferro – caratteristica costante degli edifici e delle case in Brasile ed elemento di sicurezza – come espressione di confine e di elemento divisorio che intensifica gli antagonismi.

CRISTINA PIFFER

Con la sua pratica artistica, Cristina Piffer recupera la storia economica e sociale dell’Argentina, attraversata dalla violenza all’epoca del consolidamento dello Stato nazionale, per metterla in discussione. L’artista utilizza la materia organica (carne, viscere, grasso di manzo e sangue disidratato) per alludere ai corpi soppressi dalle narrazioni ufficiali. La materia le permette di affrontare il momento in cui l’Argentina, diventata un produttore di beni agricoli per il mondo, e necessitando di conquistare nuovi territori, ha affrontato la sanguinosa campagna militare iniziata nel 1879, decimando le popolazioni native.

Nell’opera Doscientos pesos fuertes Piffer utilizza polvere di sangue bovino essiccato per imprimere su una lastra di vetro un frammento significativo dell’immagine stampata sulla banconota del peso fuerte, moneta della Repubblica Argentina dal 1826 fino alla riforma monetaria del 1881. La scelta della banconota da duecento pesos non è casuale: l’artista l’ha selezionata per l’immagine raffigurata, un grande gruppo affollato di bovini e pecore al pascolo in campagna. L’opera poggia direttamente sul terreno. Sotto di essa si allarga una grande pozza di sangue secco che allude alla macellazione al mattatoio e, allo stesso tempo, indica le conseguenze sanguinose del modello economico agro-esportatore in via di sviluppo.

ADRIANA BUSTOS

Fotografia, disegno, installazione e videoinstallazione sono i media scelti da Adriana Bustos per le sue opere, una ricerca rivisitata attraverso la prospettiva degli studi postcoloniali, testimonianza di eventi storici o sociali accaduti nel corso dei secoli.
Nella videoinstallazione Ceremonia nacional (Cerimonia nazionale), Bustos mette in relazione i filmati di cerimonie sportive avvenute nel corso del XX secolo in contesti politici autoritari. L’opera, composta da due schermi in forma di dittico, collega e associa da un lato un frammento del documentario Olympia – diretto da Leni Riefenstahl – sugli XI Giochi Olimpici che si tennero a Berlino nel 1936 durante il governo nazionalsocialista di Adolf Hitler, che presiedette il momento inaugurale dei Giochi. Dall’altro lato, Bustos seleziona un frammento della cerimonia di apertura, avvenuta alla presenza del generale Jorge Rafael Videla, dei Mondiali di calcio organizzati nel 1978 in Argentina durante la dittatura militare (1976-1983). La selezione visiva mostra un’analogia tra i modelli propagandistici di entrambi i governi, che utilizzano le medesime modalità formali e comunicative. Con la sua opera, Bustos genera una narrazione non lineare degli eventi selezionati, evidenziando le risorse visive utilizzate dai regimi fascisti più sanguinari.

MIGUEL ROTHSCHILD

La fotografia è alla base del lavoro di Miguel Rothschild, la quale viene alterata – aggiungendo materiali extra-artistici o sottraendone una parte – per aprire nuove possibili letture. La serie Atrapasueños (Acchiappasogni) è composta da una serie di fotografie scattate nella baraccopoli 20 situata nel quartiere di Lugano a Buenos Aires.  Gli scatti sono incorniciati e il vetro che li protegge presenta fragili incisioni o crepe che tracciano le medesime linee intricate dei cavi elettrici che attraversano lo spazio. Sebbene il nome della serie alluda all’oggetto, l’artista mette in relazione i fili dell’acchiappasogni con i mietitori nella mitologia greca che, incaricati di tessere i destini dei mortali, avevano il potere di filare ma anche di troncare le loro vite.

 

Nella serie “Burned” (Bruciato), Rothschild rivisita il sublime del romanticismo tedesco attraverso cieli nebulosi che evocano il potere naturale e spirituale della natura. L’artista trasforma i suoi paesaggi infliggendo piccoli fori bruciati alle fotografie stampate su carta di cotone e gioca con la luce creando una sensazione di ambiguità e conferendo all’opera un’atmosfera di mistero: è difficile individuare da dove provenga la fonte luminosa, se sia all’interno dell’opera o se sia l’effetto della luce esterna sulla superficie.

ANA GALLARDO

L’opera di Ana Gallardo avvia una profonda riflessione su temi come la vecchiaia, la violenza di genere, l’esclusione e la morte.

Le opere esposte oggi al PAC sono state presentate alla mostra Dibujos textuales II (Disegni testuali II) nel 2018 presso la galleria Ruth Benzacar di Buenos Aires. Si tratta di un’installazione monocromatica che avvolge lo spettatore: una serie di grandi fogli di carta disegnati a carboncino rivelano le tracce dei tratti dell’artista, mentre gli strati sovrapposti di nero opaco ne intensificano il carattere funereo. In ognuno dei cinque fogli esposti, Gallardo ha trascritto brevi testimonianze di donne guatemalteche che raccontano le paure e le sofferenze vissute durante l’insurrezione nel Paese. I testi scritti a mano sono collocati in basso – quasi a filo del pavimento – per generare una certa difficoltà di lettura e rendere necessario l’avvicinarsi metaforico dello spettatore a ciò che viene denunciato. La collocazione del testo traccia un’impattante linea testuale che lega tutte le storie, racconti che esprimono la crudeltà sui corpi: “Ci hanno messo le pistole dentro”, “Hanno frugato nel nostro sesso”. Le loro parole emergono dal carboncino e, anche se nascono in un contesto specifico, possono rappresentare la sofferenza di altri.

EDUARDO BASUALDO

Eduardo Basualdo interviene nello spazio – protagonista essenziale della sua ricerca – con installazioni inquietanti.
Per il PAC l’artista ha realizzato l’installazione site-specific Nuestra estrella se agotó (La nostra stella si è esaurita), una massa nera, rocciosa e informe che si dispiega nello spazio espositivo. Davanti alla sua presenza monumentale, il tempo sembra essere sospeso e lo spazio si restringe, provocando una certa tensione nello spettatore e generando ansia, inquietudine e angoscia.

La sua forma amorfa ricorda la terra perturbata, mentre la consistenza rimanda alla superficie irregolare dei meteoriti o delle rocce vulcaniche, frutto della solidificazione del magma: un modo per accennare alle estinzioni del passato o prefigurare catastrofi future. Questa presenza monumentale ci interroga, inducendo così una riflessione sulla nostra stessa distruzione: la massa potrebbe essere stata originata da un’eruzione vulcanica, oppure essere composta da frammenti di meteoriti o di un grande asteroide caduti sulla Terra. Per l’artista, l’idea di un pericolo vicino e inevitabile “rimanda a un luogo di attenzione”[1].

L’opera, enorme ed effimera, pone dunque un simulacro: all’apparente pesantezza della pietra che ci viene mostrata si contrappongono la fragilità e la leggerezza dell’alluminio scelto per la sua costruzione.

 

[1] Julia Villaro, “Eduardo Basualdo. Un peligro pende sobre nuestras cabezas”, in Clarín, 9 febbraio 2018. Visitato il 28 ottobre 2023: https://www.clarin.com/revista-n/arte/eduardo-basualdo-peligro-pende-cabezas_0_ByWvYWtLf.html

TOMÁS SARACENO

In Arachne’s handwoven spider/web map of semi-social athebyne, with one cyrtophora citricola – eight weeks (Mappa del ragno/ragnatela tessuta a mano di Athebyne semisociale), con una Cyrtophora citricola – otto settimane  Saraceno riprende il ragno con la sua ragnatela – simbolo divino e relazionale presente in molti suoi lavori – e lo rielabora attraverso l’antica tecnica di tessitura della randa. L’artista, tra memoria e tradizione, pone al centro della sua ricerca il rispetto delle diversità locali, coinvolgendo 288 artigiani tessili della Quebrada e della Puna di Jujuy per la realizzazione della tessitura/ragnatela che connota l’opera.

In Tomás Saraceno si intrecciano arte, scienza, ingegneria e impegno per l’ambiente. Il 28 gennaio 2020, in Argentina, si alza in volo l’Aerocene Pacha, il primo aeromobile alimentato unicamente dall’aria e dal sole. La scelta del luogo era voluta: “Siamo alle Salinas Grandes perché, quando il pallone sorvola una superficie bianca come questa delle saline, il sole che si riflette a terra . Il progetto ritrae il rapporto tra l’artista, la comunità Aerocene da lui fondata e le comunità indigene di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc. Pacha esprime la posizione ambientalista dell’artista con un particolare riferimento al conflitto locale causato dall’attività di estrazione del litio. Pilotata dall’argentina Leticia Noemi Márquez, la scultura volante ha sorvolato ambienti naturali, portando un messaggio scritto sulla superficie dalle popolazioni locali: “L’acqua e la vita valgono più del litio”.

 

L’altra opera si trova nella seconda parte della galleria, dopo aver percorso la balconata

JUAN SORRENTINO

Attraverso la scultura, le installazioni, i video e le performance il sound artist Juan Sorrentino indaga le relazioni che si stabiliscono tra il suono e i materiali. L’artista crea esperienze sensoriali dove il suono è costantemente messo in discussione.

Sorrentino affronta il tema degli incendi boschivi che hanno devastato l’Italia occupando lo spazio del PAC con un’installazione site-specific. L’artista disegna sfruttando il movimento della materia organica: il carbone rilasciato dai resti dei tronchi bruciati, spostati da motori meccanici, traccia linee e macchie sulle pareti bianche della sala, mentre la polvere prodotta si deposita sul pavimento come traccia dell’azione. L’azione ripetitiva delle macchine produce suoni costanti che possono variare leggermente in base allo sforzo compiuto dai motori. A questi si aggiungono i rumori provocati da leggeri colpi dei tronchi nel loro movimento verso l’alto e verso il basso.
Nella parete opposta, Sorrentino colloca due grandi contenitori per gli altoparlanti, figure geometriche tridimensionali in antitesi tra loro: trasparenti e opache, piene e vuote.
Tutta l’installazione ruota attorno alla relazione tra suono, cinetica, disegno e tempo.

GRACIELA SACCO

Servendosi di media differenti, Graciela Sacco realizza immagini di volti, bocche, occhi e corpi per affrontare tematiche sociali complesse come la fame, i migranti, gli emarginati ecc. Alla domanda se l’arte avesse una missione, l’artista dichiarava di non saperlo, aggiungendo che, in caso affermativo, doveva essere quella di “offrire a qualcuno la possibilità di farsi nuove domande”[1].

Nel 1993 Sacco iniziò Bocanada (Respiro), una serie di primi piani fotografici di bocche aperte. Per realizzarla combinò eliografie, francobolli, installazioni, interventi e interferenze urbane: il panorama di diverse città diventava lo sfondo degli interventi realizzati con le sue “bocche”, che generavano una segnaletica dalla forte carica politica.

La prima città a ospitare la serie fu Rosario: qui Bocanada apparve nello spazio urbano in occasione dello sciopero dei lavoratori di una cucina che preparava pasti per le scuole pubbliche. Le immagini, che sembrano assalire all’improvviso i muri delle città in contesti politici e sociali differenti, rappresentano la fame ma anche il bisogno e l’incapacità di comunicare ed esprimere idee.

Alla XXIII Biennale internazionale d’arte di San Paolo del 1996 Sacco espose casse di fiammiferi con bocche stampate su un lato e sul retro la frase: “Basta una sola scintilla per incendiare la prateria”.

 

[1] Parole di Graciela Sacco in Andrea Giunta, Poscrisis. Arte Argentino después del 2001, Siglo XXI, Buenos Aires 2009, p. 214.

MARTA MINUJÍN

Per celebrare il ritorno alla democrazia nel Paese dopo gli anni della dittatura militare, Marta Minujín nel dicembre 1983 ha installato per cinque giorni nelle strade di Buenos Aires El Partenón de libros (Il Partenone dei libri). L’opera consisteva in una replica in ferro del tempio greco ricoperto con i libri vietati durante la dittatura e donati direttamente dagli editori che li avevano pubblicati. Con l’intenzione di rimettere successivamente in circolazione i volumi, al momento dello smontaggio dell’opera due gru hanno piegato la struttura metallica permettendo così al pubblico di prendere i libri. Nel 2017 a Kassel per documenta 14 Minujín ha riproposto l’opera raccogliendo i volumi “ripubblicati dopo essere stati vietati per anni”[1] e quelli ancora illegali in alcuni paesi. A seguito di un appello aperto alle donazioni, sono stati quasi centomila i libri recuperati dall’artista, solo in Argentina sono state raccolte seimila pubblicazioni a lungo considerate vietate. L’opera è stata installata in Friedrichsplatz, luogo in cui, nel 1933, fu condotta dal governo nazionalsocialista una campagna che culminò nel rogo di migliaia di libri di autori considerati oppositori del regime. Come nel 1983, alla fine di documenta, i libri sono stati regalati ai visitatori, ma questa volta attraverso un invito precedentemente organizzato.

 

[1]Convocatoria. Visitato il 30 settembre 2023: https://www.documenta14.de/en/news/1601/call-for-book-donations

ALBERTO GRECO

Con il tentativo di coniugare arte e vita, Alberto Greco, nel manifesto Dito del arte vivoenova il 24 luglio 1962, dichiarava che il vivo dito “è l’avventura del reale” e che era compito dell’artista insegnare a “vedere non attraverso un quadro ma con il dito”, focalizzandosi su ciò che accade intorno a lui[1].

Dopo il trasferimento a Roma, Greco concepisce e porta in scena con Carmelo Bene e Giuseppe Lenti Cristo 63 al Teatro Laboratorio, pièce sperimentale che parodiava la Passione di Cristo. L’opera, uno spettacolo vivo dito, non aveva una durata prestabilita e contemplava l’imprevisto, la partecipazione del pubblico, l’impiego di attori non professionisti e l’improvvisazione. La prima andò in scena il 4 gennaio 1963 senza un copione né linee guida condivise, una scelta che produsse situazioni inattese e reazioni tra gli attori e nel pubblico. Scene scatologiche, di nudo, e un eccessivo consumo d’alcol provocarono l’intervento della polizia. Così, dopo un breve periodo di detenzione, Greco dovette fuggire dall’Italia con l’accusa di blasfemia.

Descrizioni e ricordi dell’esperimento teatrale appaiono nel Gran manifiesto-rollo del arte vivo-dito, opera realizzata successivamente in Spagna.

 

[1] Alberto Greco, Manifesto DITO del ARTE VIVO, 24 luglio 1962, ore 11:30.

LILIANA MARESCA

La performance fotografica Maresca se entrega todo destino (Maresca si abbandona al destino), realizzata da Liliana Maresca e uscita sul numero 8 del mensile El libertino l’8 ottobre 1993, è una sequenza di 14 scatti in bianco e nero che ritraggono l’artista in pose provocatorie. Sviluppata su una doppia pagina, oltre al numero di telefono della donna, riportava un testo relativo alla sua condizione di artista ed elencava i complici dell’azione: “La scultrice Liliana Maresca ha fatto dono del proprio corpo ad Alex Kuropatwa (fotografia), Sergio De Loof (costumi) e Sergio Avello (trucco) per questo maxi annuncio in cui è disposta a tutto”. Sul margine in alto a destra della pagina compariva anche il nome dei responsabili della produzione: Fabulous Nobodies (agenzia fittizia di Roberto Jacoby e Kiwi Sainz).
Per realizzare e diffondere la sua performance fotografica, Maresca scelse una rivista mensile di racconti erotici, nel tentativo di sfondare le frontiere dell’opera singola, superare i limiti temporali della mostra e ampliare la portata della circolazione e della comunicazione con il pubblico: un atto artistico che esiste solo sulla carta stampata e che le consentì di prendere coscienza dell’impatto dell’opera, che “prosegue con le telefonate” da parte del pubblico.

COLOPHON

Guida a cura di: Cecilia Rabossi

Adattamento testi: Leonardo Savini

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Guida alla mostra