JAPAN. BODY_PERFORM_LIVE
22.11.2022—12.2.2023
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a cura di Shihoko Iida e Diego Sileo

 

Il PAC prosegue la sua esplorazione delle culture internazionali sulle tracce della contemporaneità con una mostra che si propone di introdurci alle diverse espressioni dell’arte contemporanea giapponese degli anni duemila, concentrandosi in particolare sulle tendenze che coinvolgono i corpi degli artisti, sugli elementi della performance, e sulle dinamiche e i movimenti ad essa pertinenti.

 

 

Analizzando criticamente le relazioni tra queste espressioni corporee e la società, l'ambiente e la materialità, nonché la tecnologia, gli artisti invitati racconteranno le loro visioni della vita e della morte, il senso di urgenza sulla politica di identità e come la politica sociale - lo spirito del nostro tempo - si sia rivelato attraverso le pratiche artistiche.

 

Il progetto proverà a contestualizzare le attuali forme d’arte nella genealogia delle avanguardie giapponesi del dopoguerra, o nel recente passato, generando dialoghi multistrato tra le opere in mostra.

 

Artisti

Makoto Aida, Dumb Type, Finger Pointing Worker/Kota Takeuchi, Mari Katayama, Meiro Koizumi, Yuko Mohri, Saburo Muraoka, Yoko Ono, Lieko Shiga, Chiharu Shiota, Kishio Suga, Yui Usui, Ami Yamasaki, Chikako Yamashiro, Fuyuki Yamakawa, Atsuko Tanaka, Kazuo Shiraga.

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Immagine: Chikako Yamashiro, Mud Man, 2016 in cooperation with Aichi Triennale 2016 © Chikako Yamashiro, Courtesy Yumiko Chiba Associates

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Info e orari
Martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 10–19:30
Giovedì 10–22:30
Chiuso lunedì
Ultimo ingresso 1 ora prima della chiusura
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Il PAC prosegue la sua esplorazione delle culture internazionali con una mostra che presenta diverse espressioni dell’arte contemporanea giapponese degli anni Duemila, concentrandosi sulle tendenze che coinvolgono i corpi degli artisti, sugli elementi della performance e sulle dinamiche e i movimenti ad essa pertinenti. La mostra mette in luce la situazione politico sociale del Giappone di oggi attraverso i lavori di diciassette artisti, alcuni per la prima volta a Milano: nove donne, sette uomini e un collettivo nati tra il 1924 e il 1987, fra loro anche alcuni membri dell’Associazione d’Arte Gutai che ha avuto un ruolo storicamente significativo.

Analizzando criticamente le relazioni tra le espressioni del corpo e la società, l’ambiente, la materialità e la tecnologia, le opere in mostra offrono uno spaccato sulla vita e la morte, sul senso di urgenza inerente la politica dell’identità immaginata dagli artisti giapponesi contemporanei, e su come lo spirito politico sociale di un’epoca sia stato rivelato attraverso le pratiche artistiche. Spaziando dalla pittura al disegno, dalla scultura alla fotografia, al video, ai tessuti (ricami), fino all’installazione site-specific e alla video installazione, JAPAN. BODY_PERFORM_LIVE contestualizza le pratiche portate avanti dagli artisti nella genealogia delle avanguardie giapponesi del dopoguerra, o nel recente passato, generando dialoghi a più livelli tra le opere esposte.

↳ SALA 1: SABURO MURAOKA

Muraoka fa parte della prima generazione di artisti del dopoguerra che ha cominciato la carriera dalla metà degli anni Cinquanta. Viene anche chiamato “scultore del ferro” o “scultore di calore” poiché realizza le sue opere utilizzando le tecnologie, le vibrazioni, il calore, l’energia cinetica, per lavorare materiali come il ferro, il sale, lo zolfo, l’ossigeno. Il suo lavoro si è evoluto negli anni Sessanta e Settanta sperimentando un po’ tutti i media, dalla fotografia al video. L’installazione Body Temperature del 2010 viene esposta al PAC per la prima volta dopo la morte di Muraoka, e come diverse sue opere è basata su una sperimentazione fisica trasformata in opera concettuale: la misurazione della temperatura corporea e il mantenimento dei 36,7 °C misurati il 16 luglio 2010 viene portato al pubblico al tatto attraverso un tubo di rame.

Del 2003 è invece il lavoro Thermal Cutting in cui una barra di ferro di 4 cm di diametro viene piegata attraverso una fonte di calore a 1.380 °C (taglio termico) fino a che, nel momento in cui questa viene rimossa, la barra di ferro reagisce con movimenti e assestamenti fino a curvarsi leggermente, un intervento dell’artista che ha necessità di tempo e il cui controllo sul risultato finale non è mai totale. Sul retro della barra di ferro tagliata con il calore, la traccia dei movimenti istantanei delle braccia dell’artista, del calore e della sostanza (miele) è visibile grazie al miele carbonizzato.

↳ SALA 1: ATSUKO TANAKA

Atsuko Tanaka è riconosciuta internazionalmente come una delle artiste di punta del dopoguerra giapponese. Formatasi tra Osaka, Kyoto e Nara, cuore della cultura classica giapponese, già dagli anni universitari entrò in contatto con le figure chiave dei movimenti artistici degli anni Cinquanta: Akira Kanayama, che in seguito sposò, e Kazuo Shiraga uno dei fondatori della Società Zero (Zerokai) gruppo nel quale i membri portavano i propri lavori e valutavano quelli altrui, e Jiro Yoshihara fondatore dell’Associazione Artistica Gutai (Gutai Bijutsu Kyokai), esponente del movimento di arte informale giapponese. Tra le prime sperimentazioni di Tanaka, iniziate nel 1953 durante un lungo periodo di malattia, vi è il collage di diversi materiali di uso quotidiano come giornali, lampadine, scarti di tessuto. Ma, l’opera per cui viene maggiormente ricordata è Electric Dress (1956): un abito composto di cento luci al neon e novanta lampadine ricoperte con una vernice in nove colorazioni, che veniva portato in scena indossato, rendendo protagonista il corpo. I tre dipinti presentati in mostra Work, (due disegni realizzati nel 1957 e un dipinto del 1960) sono realizzati con pennarelli, inchiostro, pittura vinilica e tempera su carta o tela e riprendono su superfici piane gli elementi chiave di Electric Dress: la forma delle lampadine, i fili elettrici che le collegano, la luce e il movimento del corpo.

↳ SALA 1: KAZUO SHIRAGA

Tra gli esponenti dei movimenti artistici del dopoguerra della regione del Kansai, oltre ad Atsuko Tanaka, c’è Kazuo Shiraga, fondatore intorno al 1952-1954 della Società Zero (Zerokai), insieme a Akira Kanayama, Saburo Murakami e altri artisti. Dal 1955 diventa membro dell’Associazione Artistica Gutai (Gutai Bijutsu Kyokai) di cui divenne figura centrale. Nella sua ricerca sperimentò una nuova modalità pittorica chiamata in inglese foot-painting, in cui aggrappandosi a una fune utilizzava i piedi per tracciare segni, scivolando e trascinando il colore su grandi tele stese sul pavimento. Opere di grande potenza, in cui il corpo risulta completamente coinvolto nell’azione del dipingere, come fece in una performance in cui si immerse con tutto il corpo nel colore muovendosi sulla tela per lasciare la sua impronta. L’opera qui esposta Chishinsei Shutsudoko del 1960, realizzata scivolando sul colore a olio, abbondante sulla tela, fa parte di una serie, iniziata nel 1960 e completata nel 2001, dedicata a ciascuno dei famosi 108 eroi cinesi del romanzo Suikoden (Ai margini dell’acqua) a cui tanti artisti giapponesi del mondo fluttuante (ukiyo-e) come Utagawa Kuniyoshi dedicarono stampe policrome sin dall’Ottocento. Chishinsei è il nome giapponese dell’eroe cinese Tong Wei, “Stella che indica il cammino”, noto anche come “Drago che esce dalla grotta” (Shutsudoko).

↳ SALA 1: YOKO ONO

Yoko Ono è una degli artisti di origini giapponesi più nota a livello internazionale non solo per le sue performance iniziate negli anni Sessanta, ma anche come musicista e cantautrice. Nei suoi anni formativi a Tokyo segue un percorso classico che la porta a studiare poesia, musica e filosofia. Nel 1953 si trasferisce a New York, e dal 1955 nel suo appartamento di Manhattan inizia a organizzare performance artistiche sperimentali dando istruzioni con testi poetici e musicali ai partecipanti e coinvolgendoli nell’azione. Nel 1961 entra a far parte del collettivo artistico Fluxus formato da una cinquantina di musicisti, poeti, pittori – tra cui il compositore e artista John Cage fortemente influenzato dal pensiero Zen – che attraverso gesti e improvvisazioni di eventi (happening) e usando materiali della vita quotidiana cercavano di rompere i concetti classici di arte sorprendendo e stimolando il cambiamento. Quando torna in Giappone nel 1962, dopo dieci anni, Ono visita la Pinacoteca Gutai confrontandosi con la pittura d’avanguardia giapponese del momento, ma il suo cammino è diverso: l’artista unisce alla pittura video installazioni, proiezioni, schermi. Nel video della performance Cut Piece del 1964 si vede come abbia chiesto al pubblico di intervenire tagliando con le forbici pezzi del suo abito, mentre senza espressione si inginocchia sul palco.

↳ SALA 2: CHIHARU SHIOTA

Il nome di Chiharu Shiota è divenuto particolarmente noto in Italia dal 2015 per l’installazione The Key in the Hand al Padiglione Giappone della Biennale d’arte di Venezia 2015, in cui ha avvolto l’intero spazio in una intricata rete di filo rosso di lana da cui pendevano centinaia di chiavi sopra il relitto di una piccola imbarcazione. Una riflessione sul tema dell’immigrazione e dei tanti sogni che attraversano il mare, spesso in esso spegnendosi, evocati da tante chiavi arrugginite, simbolo di ciascuna vita. Le sue installazioni spesso abbracciano il visitatore come in un bozzolo ma, allo stesso tempo, fanno anche percepire il valore universale dell’esperienza della vita e della morte attraverso l’uso di fili neri e rossi. Anche in Empty Body, la nuova opera presentata in mostra al PAC, Shiota fa uso di una massa di filo nero e di un abito bianco, oggetto simbolico che evoca la presenza umana seppur assente. Un lavoro pregno di sensibilità femminile che risente della sua formazione con importanti figure di artiste contemporanee che usano il proprio corpo come strumento d’arte, formazione documentata anche dal video Bathroom che racconta l’origine della poetica dell’artista.

↳ SALA 3: DUMB TYPE

Dumb Type è il nome del collettivo artistico giapponese fondato a Kyoto nel 1984 da Teiji Furuhashi (1960–1995) e Shiro Takatani (1963) con altri artisti provenienti da vari dipartimenti dell’Università di arte di Kyoto. Dumb Type è un gruppo influente nell’arte giapponese fin dagli anni Ottanta, conosciuto per le performance tecnologiche e la sperimentazione in tanti campi dell’arte.

I membri del gruppo cambiano, moltiplicandosi o riducendosi a seconda del progetto. Le loro installazioni e performance sono frutto di una creatività democratica, di lunghe notti spese discutendo idee in cui le varie specialità artistiche e scientifiche si integrano. Sono loro i protagonisti del Padiglione Giappone della Biennale d’arte di Venezia 2022 con un’installazione sonora realizzata in collaborazione con il compositore Ryuichi Sakamoto e altri artisti, accompagnata da proiezioni a laser rosse lungo le pareti. L’opera video presentata al PAC è del 2018 e riprende l’installazione LOVE/SEX/DEATH/ MONEY/LIFE creata nel 1994 per una mostra tenutasi a Tokyo dal titolo Of the Human Condition: Hope and Despair at the End of the Century. Le parole chiave scorrono in bianco e nero su una parete a led toccando temi caldi pe il Giappone come la sessualità e l’HIV, che ha segnato la vita di Furuhashi.

↳ SALA 4: LIEKO SHIGA

Lieko Shiga indaga attraverso la fotografia la nostra società, le fragilità umane, il rapporto tra uomo e natura, tra vita e morte. Dopo un’esperienza di studio a Londra, nel 2008 si trasferisce a Kitahama, sulla costa nordorientale del Tohoku che l’11 marzo 2011 viene distrutta dal Grande terremoto e dallo tsunami. Il suo studio viene abbattuto e cinquantaquattro persone del piccolo paese muoiono nel terremoto. Questo evento lascia un grande segno nell’artista, la quale afferma di vivere con molti fantasmi e di esserlo lei stessa, tanto da decidere di rimanere sul posto e realizzare la serie fotografica Rasen kaigan tra il 2008 e il 2012, dedicata a quel territorio e alla sua gente. L’installazione fotografica Human Spring esposta al Museo Metropolitano della fotografia di Tokyo nel 2019 e in parte presentata qui, in forma differente, completa quel lavoro. Lieko torna al paesino dopo sette anni dal terremoto e attraverso scatti fotografici impressionisti, manipolati digitalmente, dai colori forti e stridenti, mostra le ferite ancora vive sugli abitanti riflettendo su come in generale l’ambiente, il ciclo delle stagioni e gli eventi naturali influenzino lo stato psicofisico delle persone dopo l’esperienza dello tsunami. Anche in questo caso, come Kota Takeuchi, l’opera vede l’artista coinvolta in prima persona e fisicamente nell’esperienza che poi testimonia attraverso l’arte.

↳ SALA 5: CHIKAKO YAMASHIRO

Chikako Yamashiro è un’artista video multimediale le cui opere traspirano tutta la potenza spirituale della sua terra natale, Okinawa. Insegna a Tokyo, ma si è formata e tutt’oggi lavora a Naha, città capitale di Okinawa, arcipelago che si estende come propaggine meridionale del Giappone dall’isola di Kyushu fino a Taiwan, noto come Regno di Ryukyu fino al 1879, quando le isole furono annesse al Giappone. Tanto nota per il clima subtropicale e le acque cristalline, per i tifoni stagionali che la attraversano e il mare tanto attraente per i turisti quanto considerato pericoloso dai nativi, Okinawa è una terra conflittuale dove si tocca, da una parte, la pesante presenza militare americana con le basi che occupano gran parte della costa e territori dell’entroterra, e i tanti monumenti ai caduti durante la Seconda guerra mondiale sparsi tra la folta vegetazione, dall’altra un sentimento spirituale fortissimo, animistico secondo cui tutta la natura è divina e l’uomo è solo una piccola parte di essa. L’opera video presentata al PAC da Yamashiro intitolata Mud Man del 2016, girata tra Okinawa e l’isola coreana di Jeju, esprime il sentimento di un popolo ancorato alla natura, ai riti e alle tradizioni tramandate da generazioni utilizzando il linguaggio arcaico dei dialetti locali, che decide di non tradurre ma di lasciare come suono universale dell’espressione umana.

↳ PARTERRE: YUKO MOHRI

Yuko Mohri, artista a metà carriera affermatasi negli anni Duemila, crea le sue opere, soprattutto sculture e installazioni scultoree, giocando con la fisica, costruendole su equilibri sottili dettati dal magnetismo, dalla gravità, dall’aria e dalla luce. Per le sue installazioni utilizza molto anche il suono che mette in relazione continua l’ambiente circostante tramutandolo in opera d’arte. L’ispirazione per l’installazione qui esposta, che è una delle varianti dell’opera Moré Moré (Leaky) realizzate tra i 2017 e il 2022, arriva a Mohri già nel 2009 dalla metropolitana di Tokyo, dove scatta delle fotografie di oggetti quotidiani usati dal personale di servizio per deviare le perdite e le infiltrazioni d’acqua dentro le stazioni. Basandosi sulla esperienza concreta di riutilizzo di oggetti come ombrelli, teli di plastica, bidoni e secchi, tubi, guanti di gomma, spugne e palette, Mohri crea percorsi creativi, quasi degli ingranaggi meccanici, attraverso punti di aggancio a pareti e soffitti su cui si aggrappano fili che sostengono e collegano i vari materiali. Strutture efficaci quanto eleganti e leggere nei pesi e negli equilibri di colore nello spazio che mettono in relazione l’uomo e la sua volontà con il fluire naturale incontrollato dell’ambiente. E In questo suo personale riutilizzo dei materiali il lavoro dell’artista è interessante se guardato accanto a quello di Kishio Suga, esponente del Mono-ha (Scuola delle cose).

↳ PARTERRE: KISHIO SUGA

Kishio Suga è un artista noto a livello internazionale, ben rappresentato in Italia insieme al movimento Mono-ha di cui fa parte, fiorito tra il 1968 e gli anni Settanta, anche per la vicinanza della sua ricerca al concetto italiano di Arte Povera: oltre alle diverse mostre in gallerie, nel 2016 gli è stata dedicata una personale al Pirelli HangarBicocca, mentre nel 1978 rappresentò il Padiglione Giappone alla Biennale d’arte di Venezia. Mono in giapponese significa in generale: “cose, oggetti, materiali”, mentre ha è il suffisso per “scuola”. Letteralmente si traduce “Scuola delle cose” e di fatto gli artisti di questo movimento fanno uso di oggetti e materiali di ogni sorta, dal legno alla pietra al metallo alla carta al cemento fino alla plastica, utilizzandoli in forme grezze e semilavorate, assemblati o riposizionati nello spazio e messi in relazione l’uno con l’altro fino a cambiarne il senso e mettendo in dubbio l’ovvietà di qualsiasi situazione. Niente è dato per scontato e ogni cosa va rivalutata concretamente. L’installazione Jou-en/Edges of Site qui presentata, formata da una corda nera tesa tra le pareti che si rispecchia nel movimento simile della linea nera tracciata sulle strisce di carta poggiate a terra, fa riflettere sui limiti dello spazio e quindi anche sulla relazione tra spazio, luogo, oggetti e persone presenti.

↳ GALLERIA: FINGER POINTING WORKER / KOTA TAKEUCHI

Attraverso opere video e installazioni fotografiche, accompagnate da ricerche d’archivio e interviste sul campo, l’opera di Kota Takeuchi fa riflettere su eventi attuali di grande portata che hanno coinvolto il Giappone, sull’uso della tecnologia in modo distruttivo e su come la distribuzione incontrollata e anonima di immagini sul web possa essere usata attivamente. Prima di un progetto che indagava sulle bombe lanciate dal Giappone verso il continente nordamericano durante le Seconda guerra mondiale usando palloni volanti, Takeuchi ha rivolto la propria attenzione sul disastro di Fukushima con un video che mostra la base nucleare N. 1, la Dai-ichi, dopo l’incidente avvenuto in seguito al Grande terremoto del Giappone orientale e allo tsunami dell’11 marzo 2011. Il titolo dell’opera Pointing at Fukuichi Live Cam (2011) fa riferimento alla registrazione video di una telecamera di sorveglianza fissa installata nel cortile dell’impianto in cui, a sei mesi dall’incidente, il 28 agosto 2011, una figura di operaio in tuta protettiva punta il dito contro la telecamera. Il video fece il giro del mondo, Takeuchi agisce sostituendosi a quell’operaio, come se fosse un suo rappresentante, mostrando il video ripetutamente pur mantenendo l’anonimato dell’uomo, partecipando alla conferenza stampa della Tepco, la compagnia elettrica di Tokyo che gestisce la centrale nucleare, lavorandoci per un periodo e tenendo un blog che parla delle condizioni degli operai nella zona in quarantena.

↳ GALLERIA: MAKOTO AIDA

La voce di Makoto Aida è forse una delle più pungenti e discusse dell’arte contemporanea giapponese poiché le sue opere, che siano pittoriche o fotografiche, performance o installazioni, toccano sempre temi socialmente, economicamente e politicamente attuali in modo ironico, talvolta satirico e dirompente. La sua grande mostra personale al Museo Mori di Tokyo del 2012 Monument for Nothing puntò l’attenzione sull’incidente della centrale nucleare di Fukushima dopo il Grande terremoto nel Giappone orientale del 2011, diverse opere pittoriche fanno riflettere sul rapporto controverso del Giappone con l’America, ma anche sul consumismo estremo della società giapponese leggibile anche nelle tante forme di sfruttamento della donna. Le due opere video qui presentate insieme, del 2005 e del 2014, mostrano Aida impegnato in prima persona come performer. Nel primo caso, nei panni di un tale che si dichiara Bin Laden e si nasconde in Giappone blaterando messaggi in uno stato alterato di ubriachezza; nel secondo, nei panni di un uomo che si dichiara Primo Ministro, e che evidentemente somiglia all’ex Primo Ministro Shinzo Abe, mentre tiene un discorso a un’assemblea internazionale chiedendo la chiusura delle frontiere con gesti teatrali. In entrambe le opere risultano chiari da una parte il forte legame dell’artista con la sua cultura di origine, dall’altra la critica che muove verso l’omogeneità del pensiero giapponese in cui la satira trova poco spazio.

↳ GALLERIA: MEIRO KOIZUMI

Il lavoro di Koizumi si fonda su performance in cui mescola realtà, finzione e teatralità dando vita a installazioni video come quella in mostra o esperienze in VR (realtà virtuale). Da sempre esplora temi legati al nazionalismo e alle ideologie, al singolo individuo rispetto alla nazione, evidenziando come la mente e quindi i comportamenti agiscano e reagiscano al potere e ai traumi come quelli legati ai ricordi di guerra. We Mourn the Dead of the Future, esposta al PAC, è un’opera video a colori del 2019 proiettata su cinque schermi con immagini stranianti, in cui si percepisce la paura e l’annientamento, espressi attraverso una massa di giovani corpi vestiti, stesi a terra, ordinati o ammassati l’uno sopra l’altro, circondati da figure vestite con tute bianche che sembrano impegnate in un sopralluogo sulla scena del delitto. Koizumi la realizza in due giorni di workshop in collaborazione con il Theatre Commons Tokyo e venti giovani giapponesi. Tema del primo giorno è il sacrificio di sé, grazie alla testimonianza di un soldato delle forze di autodifesa giapponese. Il secondo giorno ha chiesto ai ragazzi di inscenare il lutto, una cerimonia avvenuta davanti al pubblico, coinvolto di persona, sotto la pioggia in una ex base militare americana. Koizumi vuole far riflettere sul rapporto tra massa e singolo, tra Stato e cittadino, sul potere e sul controllo esercitati dalla società su ciascuno di noi.

↳ GALLERIA: YUI USUI

Usui è un’artista non ancora così nota all’estero, ma che ha già partecipato a importanti biennali d’arte e mostre collettive in Giappone, che lavora soprattutto con tecniche artigianali legate alla tradizione tessile, come il patchwork, il ricamo, la decorazione su tessuti. Le sue opere sono sia bidimensionali su tessuti lavorati come teli, coperte, fazzoletti, maglie, sia installazioni che occupano lo spazio.
In ogni caso il suo messaggio è chiaro e punta a sollevare l’attenzione su questioni sociali e politiche poco discusse usando un linguaggio considerato tipicamente femminile e minore, scegliendo di allontanarsi dalla pittura maggiormente legata al mondo artistico ufficiale e maschile. Attraverso ricami sottili su garze trasparenti e illuminate porta a galla tutto quel mondo di lavori domestici femminili non riconosciuti e spesso non retribuiti su cui la società fonda gran parte del proprio benessere accettando però silenziosamente una condizione di disuguaglianza di genere. Qui presenta l’installazione in vitro, composta da grandi cerchi di organza finemente ricamati con motivi legati a neonati e genitori, oggetti per neonati e cromosomi estratti in piastre di Petri, tesi in cornici di acrilico che ricordano la forma di una moneta, con riferimento a tecnologie legate alla riproduzione, come la diagnosi prenatale. Una consapevolezza divenutale tanto più forte dopo essere diventata madre.

↳ GALLERIA: MARI KATAYAMA

Mari Katayama, che ha partecipato alla Biennale d’Arte di Venezia 2019, è nota per le sue straordinarie fotografie che la vedono protagonista assoluta. Lo dimostrano le foto qui esposte, scelte tra diverse serie. Gli autoritratti mostrano il suo corpo con genuinità ed eleganza che permettono allo spettatore di legarsi alla realtà. All’età di nove anni le sono stati amputati gli arti inferiori.
Si mostra senza filtri né vergogna, inizialmente utilizzando la sua piccola stanza tatami. Katayama posa come modella in mezzo a scenografie meticolose composte da oggetti da lei creati, tessuti, pizzi, ricami e luce naturale. Appare in lingerie seduta sul letto, a volte casual, a volte sexy, altre volte impegnata in attività quotidiane, in posa con bretelle, calze elastiche e protesi. Le immagini sono inquietanti perché mostrano il corpo “imperfetto” in tutta la sua fragilità, un corpo che di solito si evita di guardare. Ciò che colpisce immediatamente lo spettatore è la bellezza dell’artista e la sua libertà di espressione. Questo costringe a riflettere sul proprio imbarazzo e pregiudizio nei confronti del corpo femminile e della diversità in generale. Altre immagini in mostra sono tratte dalla serie che ritrae la miniera di rame di Ashio, luogo di uno dei primi devastanti disastri ambientali della storia che ha contaminato il fiume Watarase nella prefettura di Gunma, paese natale di Katayama.

↳ BALCONATA: AMI YAMASAKI

Il lavoro artistico di Ami Yamasaki è poliedrico. Definirla vocalista sarebbe riduttivo, dovrebbe essere chiamata artista della voce, poiché alle infinite vibrazioni di suoni che emette con le sue corde vocali associa anche il movimento dell’intero corpo, oltre a performance e installazioni multimediali che sfociano nell’ambito della scienza, della tecnologia e della cinematografia. Yamasaki riesce a emettere suoni ricercatissimi, intimi e misteriosi, rochi, acuti o stridenti, che attraversano e segnano visibilmente l’intero corpo, dal collo al volto alle mani, talvolta in modo appena percettibile, prima di espandersi nell’aria. Attraverso la voce trasmette una potente consapevolezza dell’interazione tra il sé più profondo, avviluppato dal corpo fisico, e tutto ciò che sta fuori di sé.
Il corpo è insieme linea di confine e strumento. Al PAC l’artista presenta un’installazione a parete fatta di piume, ricavate da composizioni tridimensionali di carta strappata e piegata, fino a ricoprire grandi aree dello spazio in forma di ali e onde. Le piume non solo assorbono e modulano suoni ambientali a seconda di quante e come vengono posizionate, ma fanno capire l’importanza dello spazio e della presenza degli altri rispetto alla sua performance. Chi ascolta trasforma continuamente il suono ricevuto e lo rimette nello spazio.

↳ PERFORMANCE: FUYUKI YAMAKAWA

Fuyuki Yamakawa, cresciuto tra Giappone e Gran Bretagna, è un artista che per le sue performance usa la voce e la musica, creando suoni non solo attraverso l’uso di strumenti musicali ma rendendo anche il suo corpo strumento.

Sin da bambino è interessato alle registrazioni dei suoni della natura in cassette audio e video e tramite microfoni e parabole. Per le sue performance sviluppa microfoni che registrano le vibrazioni attraverso le ossa e uno stetoscopio elettronico per amplificare il battito del cuore. Utilizza le dita picchiettate sul cranio, le mani e la voce che si rifà a un tipo di canto noto come khoomei o Tuvano praticato dalla popolazione di Tuva dell’area russa, ma diffuso anche nell’area siberiana e mongola. È un canto basato su suoni armonici emessi tramite la laringe che trae la sua origine dai suoni della natura, come spesso accade in culture locali fortemente legate al territorio.

Yamakawa si avvicina a esso quando il padre, conduttore televisivo, perde la voce a causa di un tumore. Il canto viene utilizzato dall’artista, insieme alle tecnologie, per produrre e trasmettere la voce nelle sue improvvisazioni e far riflettere su quanto l’uso delle tecnologie abbia portato la voce a distanze oltre le possibilità fisiche, spesso inconsapevolmente.

Guida alla mostra