a cura di Diego Sileo
ll PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta la prima retrospettiva europea dopo oltre vent’anni dedicata all’artista Adrian Piper (1948, New York), vincitrice del Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale di Venezia 2015. La mostra ripercorre oltre sessant’anni di carriera, con importanti prestiti internazionali provenienti dai più prestigiosi musei, tra i quali il MoMA e il Guggenheim di New York, il MoMA di San Francisco, l’MCA di Chicago, il MOCA di Los Angeles e la Tate Modern di Londra.
Affermatasi come artista concettuale, minimalista e performer nella scena artistica newyorkese degli ultimi anni Sessanta, Adrian Piper solleva domande spesso scomode sulla politica, sull’identità razziale e di genere, e chiede alle persone di confrontarsi con verità su sé stesse e sulla società in cui vivono. Le opere in mostra fanno emergere in particolar modo l’analisi della “patologia visiva” del razzismo: attraverso installazioni, video, fotografie, dipinti e disegni l’artista porta avanti una ricerca sull’immagine delle persone afroamericane determinata dalla società e dai tanti stereotipi diffusi.
Il fulcro della sua pratica filosofica, artistica e attivista è il concetto di lotta permanente contro il razzismo, la xenofobia, l’ingiustizia sociale e l’odio. In quanto artista donna e filosofa, il lavoro di Piper restituisce anche le sue esperienze relative al sessismo e alla misoginia subiti. In questo senso la sua ricerca ha ispirato intere generazioni di artiste contemporanee.
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Foto:
Adrian Piper, Race Traitor, 2018
Foto: Fotofix
Rennie Collection, Vancouver
© Adrian Piper Research Archive (APRA) Foundation Berlin
Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta la prima retrospettiva europea dopo oltre vent’anni dedicata all’artista Adrian Piper (1948, New York), vincitrice del Leone d’Oro come miglior artista alla Biennale di Venezia 2015. La mostra ripercorre oltre sessant’anni di carriera, con importanti prestiti internazionali provenienti dai più prestigiosi musei, tra i quali il MoMA e il Guggenheim di New York, il MoMA di San Francisco, l’MCA di Chicago, il MOCA di Los Angeles e la Tate Modern di Londra.
Le opere in mostra fanno emergere in particolar modo l’analisi della “patologia visiva” del razzismo: attraverso installazioni, video, fotografie, dipinti e disegni l’artista porta avanti una ricerca sull’immagine delle persone afroamericane determinata dalla società e dai tanti stereotipi diffusi.
Il fulcro della sua pratica filosofica, artistica e attivista è il concetto di lotta permanente contro il razzismo, la xenofobia, l’ingiustizia sociale e l’odio. In quanto artista donna e filosofa, il lavoro di Piper restituisce anche le sue esperienze relative al sessismo e alla misoginia subiti. In questo senso la sua ricerca ha ispirato intere generazioni di artiste contemporanee e chiede alle persone di confrontarsi con verità su sé stesse e sulla società in cui vivono.
I primi lavori che Adrian Piper ha esposto risalgono agli anni Sessanta. Si tratta di disegni e opere pittoriche figurative realizzate in giovanissima età, ancor prima di arrivare alla School of Visual Arts – SVA di New York. Nonostante il ricorrere del termine LSD in alcuni titoli, questi lavori psichedelici non sono stati prodotti sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (esperienza che l’artista ha provato un limitato numero di volte), si tratta bensì di opere che testimoniano il tentativo di guardare oltre la superficie delle cose. Una pratica che Piper ha perseguito sin da subito anche attraverso la frequentazione di letture filosofiche e spirituali vediche, la meditazione e lo yoga. La concentrazione profonda sul soggetto porta a far vibrare le superfici fino a frammentarle come accade per esempio in LSD Self-Portrait from the Inside Out. Il nesso con la controcultura degli anni Sessanta, che l’artista frequentava in quel periodo, è evidente nel trittico dedicato ad Alice in Wonderland. Un esplicito richiamo all’ambiente dell’epoca, nel quale l’opera letteraria di Lewis Carroll era particolarmente apprezzata.
In questi anni la figurazione rimane un elemento riconoscibile nel lavoro dell’artista, che avvia le prime prove di fuoriuscita dalla bidimensionalità del quadro, come in Barbara Epstein with Doll del 1966, dove è la bambola a sconfinare nella terza dimensione. Dell’anno successivo è poi la serie di Barbie Doll Drawings: 35 disegni realizzati a matita e inchiostro giocati sulla composizione di elementi ricorrenti come le parti del corpo.
Drawings about Paper and Writings about Words del 1967 segna l’inizio di una riflessione basata sull’elemento della griglia, sulla variazione, sulla divisibilità e sulla permutazione. È una serie composta da circa quaranta opere su carta, realizzate attraverso il collage e il disegno, in cui, mediante pochi elementi geometrici, l’artista riflette sulla concretezza fisica della pagina e le sue infinite possibilità di suddivisione ed estensione. Attraverso opere come Recessed Square (1967) e Double Recessed (1967), entrambe strutture volumetriche basate su forme geometriche, il suo lavoro esce poi dalla bidimensionalità del foglio. Il contesto in cui nascono queste opere è quello dello svilupparsi dell’arte concettuale e della frequentazione, da parte di Adrian Piper, dell’opera e del pensiero di Sol LeWitt (che scrive i Paragraphs on Conceptual Art proprio nel 1967).
La performance diventa presto (come si vedrà nella project room) un mezzo importante nella ricerca artistica di Piper ed è anticipata da azioni private attraverso cui l’artista registra la propria esistenza. In Concrete Infinity Documentation Piece del 1970, infatti, per più di un mese trascrive ciò che le accade durante la giornata, allegando un suo autoscatto per ogni giorno. A questo lavoro segue Food for the Spirit del 1971, una serie di autoscatti fotografici davanti allo specchio contenenti alcuni dettagli dell’ambiente circostante. Man mano che si avanza le fotografie si fanno più scure, l’ambiente attorno alla figura è sempre meno riconoscibile e dell’artista resta un’immagine sempre più evanescente.
La riflessione sul tempo e lo spazio, ora in relazione all’esistere dell’artista all’interno di queste due dimensioni, continua nella serie delle Hypothesis, cominciata nel 1968 e portata avanti fino al 1970. In queste opere Piper documenta, attraverso scatti fotografici, che poi ricolloca all’interno di uno schema lineare di coordinate spazio-temporali, alcuni momenti del suo essere nel mondo. Per esempio in Hypothesis Situation #10 (*) l’artista, mentre guarda la TV, scatta, in un minuto e a intervalli di tempo irregolari, cinque fotografie alla pubblicità di un medicinale, per poi riordinarle in base agli assi temporali e spaziali del diagramma da lei stessa ideato.
*Prestiti delle opere in collaborazione con Generali Foundation
Con l’installazione Art for the Art World Surface Pattern, del 1976, la consapevolezza politica di Adrian Piper fa il suo ingresso definitivo nella produzione dell’artista. All’interno di un cubo bianco, dall’aspetto minimalista, si trova un ambiente interamente tappezzato di immagini tratte dai giornali che riportano vari tipi di atrocità avvenute nel mondo. Su queste foto l’artista imprime provocatoriamente la scritta “Not a Performance”, mentre un audio trasmette la sua voce che imita la tipica indifferenza dello spettatore del mondo dell’arte verso questi accadimenti.
Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Adrian Piper focalizza la sua attenzione su discriminazioni razziali e di genere, riflettendo in modo sempre più approfondito sui meccanismi storici e culturali che portano alla costruzione di identità socialmente predefinite.
In questa sala si presenta già il tema centrale della mostra attraverso due lavori della fine degli anni Ottanta, momento in cui le consapevolezze dell’artista rispetto alla questione della determinazione razziale sono ormai giunte a maturazione.
In Close to Home l’artista interroga lo spettatore con una serie di quesiti, posti sotto a delle immagini di persone di colore, su eventuali relazioni di varia natura (lavorative, affettive ecc.) con persone afroamericane. Un’opera che mette in imbarazzo il pubblico dell’arte, sentimento rafforzato dalla frase posta più in basso, che recita:
“Ti senti a disagio al pensiero di esporre questo tipo di domande sulla parete del tuo salotto?”, nell’audio poi Piper, ironicamente, si scusa per essere stata indiscreta.
Del 1989 è invece Cornered, un’opera che incita a scavare oltre le convinzioni rispetto alla propria classificazione identitaria. Nel monologo contenuto in quest’opera è Piper stessa, nel monitor di una TV posta tra due certificati di nascita, a parlare dei complessi meccanismi legati alla determinazione razziale e della storia del meticciato. Davanti al video è disposta una platea di sedie ordinatamente allineate a formare un triangolo che richiama alcune opere del primo periodo.
Al periodo iniziale, legato prevalentemente alla ricerca concettuale, appartengono una serie di opere del 1968 come Sixteen Permutations of a Planar Analysis of a Square, in cui l’artista indaga ancora una volta la relazione tra la concretezza di una forma e le infinite possibilità di permutazione. In Concrete Infinity 6 inch Square trascrive tutte le possibili modalità con cui il quadrato può essere visto e letto, mentre Utah-Manhattan Transfer è la sovrapposizione di due mappe, quella di Manhattan e quella di un sito dello Utah attorno a una base militare dove venivano condotti test sulle armi chimiche. Ancora risale al 1968 Here and Now, sessantaquattro fogli in cui l’artista parte dalla griglia, per poi descrivere in ogni foglio la posizione esatta occupata dal riquadro entro cui vi è la descrizione stessa.
Nella terza sala si trova una delle due opere più recenti esposte in mostra: l’installazione ambientale Das Ding-an-sich bin ich del 2018, il cui titolo fa riferimento al noumeno kantiano, una realtà che si trova al di là di ciò che appare ai nostri sensi. In quest’opera si ritrovano condensati gli elementi principali che hanno caratterizzato la ricerca di Piper a partire dagli anni Sessanta fino a oggi. In primo luogo è evidente il riferimento diretto alla filosofia e, dal punto di vista linguistico, ritroviamo le forme geometriche e la struttura della griglia a pavimento, che come già visto ha contrassegnato le prime indagini concettuali. Su di essa sono disposti 8 parallelepipedi a base quadrata con le pareti a specchio, come a voler chiamare in causa il visitatore e renderlo ancora una volta parte dell’opera. Da questi volumi fuoriesce l’audio di voci che parlano in diverse lingue: farsi, arabo, islandese, ebraico, turco, gaelico, hindi o somalo. In opere come questa è più che mai evidente come Adrian Piper sia stata capace di portare, all’interno della riflessione concettuale e dell’estetica minimalista, il discorso politico sulla società e in definitiva sull’essere umano.
La lunga riflessione su se stessa, partita dall’idea di essere una presenza nel mondo e in relazione con esso, è passata per Piper anche dall’analisi del modo in cui la sua esistenza viene percepita all’interno della società. Tra il 1978 e il 1980 realizza la serie dei Political Self-Portraits in cui immagini che la ritraggono sono sovrapposte a lunghi testi nei quali lei stessa traccia lo sviluppo delle proprie convinzioni politiche in conseguenza alla propria esperienza personale. Nel primo ritratto si occupa del tema del genere, nel secondo di quello della razza e nel terzo di quello dell’appartenenza di classe. In particolare in Political Self-Portrait #1 (Sex) l’artista analizza le relazioni di potere che si instaurano anche tra donne, nonostante i risultati ottenuti a quell’epoca grazie al femminismo della seconda ondata. Il suo video Second Wave Feminism: Unfinished Business liberamente accessibile su www.adrianpiper.com/philosophy-second-wave-feminism- video.shtml aggiorna questa analisi al XXI secolo.
Nel 1991 la stampa statunitense si occupò del caso di Anita Hill, una giovane avvocata afroamericana che testimoniò di aver subito molestie sessuali da Clarence Thomas, afroamericano nominato alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Il dibattito mediatico, che ebbe anche risvolti razzisti, arrivò a travisare la posizione della vittima facendone una seduttrice e il caso fu tra gli eventi che innescarono l’avvio della terza ondata del femminismo internazionale. La fotografia di Hill all’età di 8 anni, sovraimpressa a un testo in cui Piper riporta commenti censori, è l’elemento costante nella serie Decide Who You Are, del 1992. Si tratta di una composizione di pannelli, alla cui base ritroviamo ancora la struttura della griglia, in cui a destra c’è sempre Hill mentre a sinistra si trovano un disegno ingrandito delle tre scimmiette (realizzato dall’artista) e un testo variabile riguardante razzismo, sessismo ecc. Tra questi due pannelli laterali sono disposte di volta in volta immagini riprese dai giornali il cui contenuto si riferisce al testo di sinistra.
All’inizio degli anni Novanta inoltre, a livello personale, Adrian Piper affronta la malattia della madre divenuta progressivamente disabile a causa di un enfisema. Nei periodi in cui deve assentarsi da lei nasce un lavoro per certi versi più intimo come I Am Some Body, The Body of My Friends (1992-95), nel quale si scatta delle fotografie insieme ad amici e persone che la fanno stare bene.
Nel 1995, dopo la morte della madre, il MOCA di Los Angeles organizza la mostra 1965–1975: Reconsidering the Object of Art. In quell’occasione l’artista, venuta a conoscenza del fatto che la Philip Morris sarebbe stata tra i finanziatori della mostra, ritira il proprio lavoro offrendone uno nuovo in sostituzione. Si tratta di Ashes to Ashes, un’opera che viene rifiutata e che è dedicata alla memoria della madre, Olive Xavier Smith Piper. Qui Piper mette in evidenza i danni letali che il fumo da sigaretta ha provocato nella vita dei suoi genitori.
Gli autoritratti di Piper dimostrano bene quanto la presa di coscienza dell’essere artista, donna e di colore sia stata importante.
Qui si accentuano di volta in volta tratti visivi che nel senso comune dovrebbero essere indicativi per la definizione di un’identità prestabilita piuttosto che di un’altra. Sulla parete si trova il poster Race Traitor del 2018, nel quale, ricorrendo allo stesso linguaggio visivo utilizzato nei Political Self-Portrait, Piper utilizza il proprio ritratto sovrapponendolo ad alcune frasi con l’intento di ironizzare sulla convinzione secondo cui l’aspetto di una persona possa definirne l’identità.
Nel 1991, invitata da Robert Storr a partecipare alla mostra Dislocations al MoMA, Adrian Piper installa What It’s Like, What It Is #3 (quarta versione dell’opera del 1990, qui installata nella galleria al primo piano). Quest’opera riproduce un ambiente minimalista, che molto ricorda l’architettura museale asettica in cui vengono generalmente esposti degli oggetti a pubblica vista. In un siffatto ambiente, che richiama anche l’arena di epoca romana, con gradinate su cui è possibile disporsi, in mezzo alla sala Piper colloca il video di un afroamericano offerto allo sguardo del pubblico, inscatolato in un parallelepipedo al centro della scena, mentre nega una serie di stereotipi sulla propria identità.
Nella serie Ur-Mutter (1989) l’immagine della coppia madre-figlio africana in condizioni di povertà, che come ricorda l’artista con quella frase “We made you” sta alle origini della società umana in generale (i primi Homo sapiens nacquero infatti nel continente africano) e statunitense in particolare, viene messa in relazione a immagini e testi che richiamano il consumismo americano. In Ur-Mutter #8 la stessa immagine con il testo “Fight or die” è accostata a una pubblicità realizzata da Jeff Koons per la sua mostra e pubblicata su diverse riviste d’arte (tra cui Artforum), nella quale lui stesso si trova davanti a una classe di studenti composta interamente da bambini europeo-americani e asiatici.
Nella serie di opere Pretend del 1990, Piper inchioda lo spettatore davanti alla responsabilità del continuare a ignorare, per ragioni di comodo, situazioni ben note. Così in Pretend #1 vediamo i volti di otto uomini afroamericani, tra cui Martin Luther King Jr. e in Pretend #3 una serie di immagini tratte dalla stampa in cui è mostrato il trattamento, di brutalità e sorveglianza, riservato agli afroamericani. Immagini accompagnate dalla frase “Pretend not to know what you know” (“Fai finta di non sapere ciò che sai”).
Anche in Why Guess?, del 1989, l’artista utilizza immagini riprese dai giornali giocando sull’abitudine a fare supposizioni preconcette, ogni immagine è infatti presentata due volte: la prima da sola e la seconda accompagnata dal testo “Why guess? We are willing to explain” (“Perché indovinare? Siamo disposti a spiegare”).
Black Box / White Box (*) del 1992 è una delle opere degli anni Novanta in cui l’artista amplia la scala dimensionale, riaffermando con forza i contenuti della propria ricerca. Questa installazione composta da due strutture cubiche, nero e bianco,
crea due ambienti all’interno dei quali la riflessione parte dal caso di Rodney King, afroamericano noto alle cronache dell’epoca per essere stato vittima di un violento pestaggio da parte della polizia di Los Angeles.
*Prestito dell’opera in collaborazione con Generali Foundation
È con la performance del 1975 Some Reflected Surfaces che si afferma l’importanza della danza all’interno della ricerca artistica di Adrian Piper, nel contesto del graduate student lounge dell’Harvard Philosophy Deparment. In questa occasione, tra l’altro, racconta di quando lavorava come ballerina disco a New York negli anni Sessanta per mantenersi. Qui fa la sua apparizione una versione transgender dell’alter ego maschile dell’artista (The Mythic Being, nato nel 1973).
A partire dal 1973 Adrian Piper, indossando baffi, parrucca e occhiali da sole, dà vita al proprio alter ego maschile: The Mythic Being. L’obiettivo è quello di esplorare le possibilità dell’esperienza di qualcuno con la sua stessa storia genetica, quella di riconosciuta discendenza africana, ma con un genere e un aspetto esteriore diversi dal suo. Così, attraverso fotografie, testi e performance, inizia a unire questo personaggio a episodi della propria storia personale. The Mythic Being fa la sua pubblica comparsa ufficiale sul The Village Voice, nella pagina delle inserzioni pubblicitarie. Per diciassette edizioni viene pubblicata una sua foto con una nuvoletta di pensiero nella quale l’artista trascrive di volta in volta testi tratti dal suo diario di adolescente. Queste frasi, diverse ogni mese, vengono poi recitate a memoria dall’alter ego che le ripete ad alta voce come mantra anche in situazioni pubbliche.
A seguito di questa prima comparsa, The Mythic Being diviene una presenza ricorrente nell’opera di Adrian Piper fino al 1976. Nella serie di dieci fotografie dal titolo I / You (Her) vediamo l’immagine dell’artista, con la sua amica del liceo Elizabeth Sackler, trasformarsi gradualmente in quella del suo alter ego, mentre nei fumetti si legge un monologo riferito a un innominato traditore. Qui The Mythic Being diventa un’entità autonoma e indipendente rispetto a Piper. In seguito lo vediamo ballare all’interno di un appartamento e addirittura, nel 1975, ha la pretesa di essere tutto ciò che odiamo e di cui abbiamo paura.
Tra il 1986 e il 1989 Adrian Piper realizza la serie dei Vanilla Nightmares. In queste opere l’artista interviene disegnando con matita e carboncino su alcune pagine estratte dal New York Times. Si tratta di rappresentazioni figurative che interagiscono con articoli e pubblicità, palesando le fantasie e le paure latenti della società americana nei confronti degli afroamericani. In Vannilla Nightmares #3 per esempio nella pagina del quotidiano sono pubblicati: un articolo sulla situazione in Sudafrica seguito, immediatamente sotto, da una pubblicità di abbigliamento in stile Street Safari. Piper in questo caso interviene aggiungendo nella fotografia principale il disegno di un uomo dalla pelle scura di discendenza africana dai tratti somatici pronunciati che afferra la modella alle spalle. Ancora, per esempio, in Vanilla Nightmares #19 su una doppia pagina, che riporta da una parte una pubblicità di abbigliamento intimo con modelle afroamericane e dall’altra l’elegante raffigurazione al tratto di una modella europeo americana, Piper interviene co un disegno piuttosto scioccante che si riferisce al mito, radicato nella storia della schiavitù americana, dell’accessibilità sessuale e della bestialità della donna afroamericana. Il contrasto tra il disegno della scena brutale rappresentata dall’artista e l’illustrazione sul giornale suggerisce inoltre una riflessione sulle relazioni tra donne europeo-americane e afroamericane e sui limiti dell’universalismo femminista.
What It’s Like, What It Is #1 del 1990 è la prima versione dell’opera già incontrata a piano terra. In questo caso però all’interno di un ambiente totalmente nero il visitatore sembra diventare l’oggetto dell’osservazione altrui. Attraverso delle finestre fittizie, è la minoranza ad osservare da fuori ciò che si trova all’interno dello spazio espositivo – ovvero gli spettatori, mentre ascoltano la voce singhiozzante di una giovane donna afroamericana che racconta la sua esperienza di discriminazione razziale sul posto di lavoro.
Everything è invece una serie iniziata nel 2003 (e ancora in corso) nel periodo in cui la vita negli Stati Uniti ha iniziato a essere sempre più difficoltosa per Adrian Piper. L’artista sostiene di aver sentito l’esigenza di metabolizzare la perdita delle proprie illusioni rispetto alla società in cui viveva. Nelle prime opere della serie, qui esposte, Piper interviene su immagini di diversa natura cancellandone una parte e sovrascrivendo sul vuoto “Everything will be taken away”, un gesto evocativo che richiama il concetto di transitorietà.
Safe 1-4 è un’altra installazione ambientale dello stesso anno. Qui il visitatore si trova accerchiato da immagini che mostrano la presenza delle persone di colore nella società, mentre un audio combina commenti di disappunto rispetto a un’opera come questa, in grado di mettere fortemente a disagio chi vi accede, con un’aria
da una cantata di Bach.
Nella terza stanza della galleria sono invece esposte le animazioni digitali che fanno parte di The Pac-Man Trilogy (2005–2008), video in cui l’estetica di stampo minimalista ricorda i primi videogiochi ma che parlano delle dinamiche di divisione sociale.
La mostra si conclude con Aspects of the Liberal Dilemma (del 1978) installazione ambientale, che risale al periodo in cui Piper introduce con forza la questione del razzismo all’attenzione del pubblico dell’arte. In una sala bianca, al centro di una parete è posta una fotografia che ritrae un gruppo di persone sudafricane dalla pelle scura che scendono le scale della metropolitana, l’illuminazione e il vetro davanti all’immagine fanno sì che il visitatore vi si rifletta, mentre l’audio invita a guardare attentamente la foto e a fare attenzione alle reazioni e alle domande che questo lavoro suscita.
L’idea di esistere in qualità di oggetto attivo nel tempo e nello spazio si manifesta già nella prima performance pubblica dell’artista, nel momento in cui era impegnata in una ricerca di stampo più strettamente concettuale. Un’opera insolita degli anni Sessanta, benché prefiguratrice di quanto la consapevolezza politica diverrà in seguito importante nel percorso di Piper, è Five Urelated Time Pieces (Meat into Meat) del 1969, che prende le mosse da una performance privata durata tre giorni nell’ambito della vita dell’artista. Questo lavoro racconta le contraddizioni di una relazione domestica in cui lei stessa, una donna che si avvia al vegetarianismo e inizia a interessarsi al femminismo, prepara il pasto, fatto di carne animale, per il suo compagno dell’epoca David Rosner, un marxista convinto e politicamente impegnato.
Untitled Performance at Max’s Kansas City* è stata realizzata nel 1970 all’interno dell’eponimo bar in occasione del The Saturday Afternoon Show. Come si vede nelle foto che documentano l’accaduto, Piper, isolando se stessa dall’ambiente circostante attraverso l’ottundimento dei sensi grazie a guanti, paraocchi, tappa naso, tappi per le orecchie ecc., si muoveva tra i tavoli e gli avventori del bar, seguita dalla fotografa.
*Prestito dell’opera in collaborazione con Generali Foundation
A seguito di questa esperienza, nel tentativo di misurarsi davvero con un pubblico inconsapevole e non deputato all’arte, nello stesso anno Adrian Piper inizia ad agire nello spazio urbano. Nascono così le Catalysis, in cui lei stessa diventa oggetto catalizzatore delle reazioni altrui. In Catalysis III e Catalysis IV* l’artista gira per le strade della città, tra gli sguardi straniti dei passanti, rispettivamente indossando abiti ricoperti di vernice bianca con un cartello che recita “Wet Paint” e con la bocca riempita da un asciugamano che le penzola fuori dalle labbra impossibilitate a chiudersi.
*Prestito dell’opera in collaborazione con Generali Foundation
It’s Just Art del 1980 è un video che ruota attorno alla documentazione di una performance in cui Piper con i capelli sciolti, baffi sottili ed enormi occhiali da sole (versione transgender dell’alter ego maschile dell’artista The Mythic Being, la cui vicenda è esposta in balconata), fissa davanti a sé mentre i suoi pensieri vengono esplicitati in nuvolette fumettistiche. Su queste immagini sono montate fotografie della stampa che ritraggono i rifugiati cambogiani, le atrocità degli khmer rossi e dell’invasione americana. La voce dell’artista, intanto, legge un articolo sul genocidio cambogiano mentre una trascinante musica dance, Do You Love What You Feel di Rufus & Chaka Khan, fa da colonna sonora a tutte queste informazioni audiovisive, innescando nell’osservatore un involontario trascinamento ritmico e un cortocircuito di sensazioni contraddittorie.
Una delle opere più iconiche di Adrian Piper è Funk Lessons, una performance collaborativa messa in scena per sette volte dal 1983 al 1985 (qui riportata grazie al film di Sam Samore). Ai partecipanti l’artista dava sia alcune indicazioni sui movimenti, sia informazioni sulle origini della musica funk, mettendo in evidenza come il contributo della danza e della musica afroamericana sia stato significativo nel più generale panorama culturale americano e rendendo finalmente disponibile a tutti (anche agli europei e americani) uno strumento espressivo che era relegato alla sola cultura afroamericana.
La danza è rimasta per Adrian Piper un mezzo importante anche in tempi più recenti. Il disagio nei confronti della società statunitense porta Piper a lasciare definitivamente il paese nel 2005 per trasferirsi a Berlino. Nel 2007 ad Alexanderplatz, l’artista realizza una performance basata sulla resistenza dal titolo Adrian Moves to Berlin, nel corso della quale torna allo spazio pubblico e al ballo. Per un’ora infatti Piper improvvisa una danza sulle note dell’house music berlinese degli anni 2000 sotto gli sguardi dei passanti. Esprime così una sorta di ritrovata leggerezza in una città in cui un popolo precedentemente diviso in due dalla storia ha saputo trovare delle forme di convivenza, anche grazie agli spazi deputati al ballo.
Sono ben note le azioni di My Calling (Card) del 1986, per cui Piper fa stampare dei messaggi su cartoncino, sul modello dei biglietti da visita, riguardanti le affiliazioni razziali, in un caso, e il genere femminile, nell’altro. Questi testi, scritti in prima persona, venivano consegnati dall’artista, come educato ammonimento, a persone che assumevano, anche inconsapevolmente, atteggiamenti discriminanti nei suoi confronti.
Adrian Piper, nata a New York nel 1948, è artista e filosofa e dal 2005 vive e lavora a Berlino. Dopo un’embrionale fase pittorico-psichedelica Piper si avvicina all’arte concettuale e dal 1967 inizia a lavorare in questa direzione, riflettendo sui concetti di spazio e di tempo attraverso l’impiego di un’estetica minimalista. In questi stessi anni Piper incontra anche la pratica dello yoga e della meditazione, che tutt’ora l’accompagnano. A partire dagli anni Settanta e Ottanta l’artista comincia a servirsi della performance e, accresciuta la propria consapevolezza di donna e di appartenente a una minoranza, porta, all’interno del linguaggio concettuale, contenuti d’impegno sociale e politico, affrontando temi come xenofobia, discriminazione razziale e di genere. Dalla fine degli anni Sessanta Adrian Piper si dedica anche allo studio della filosofia divenendo, nel 1987, presso la Georgetown University, la prima donna americana di riconosciuta discendenza africana a ottenere una cattedra accademica nel campo della filosofia. Nel 2011 l’American Philosophical Association le conferisce il titolo di Professore Emerito. Gli anni dagli Ottanta ai Duemila sono segnati da una progressiva alienazione nei confronti della società americana e dell’ambiente accademico in particolare, per questo nel 2005 Adrian Piper fugge dagli Stati Uniti per trasferirsi a Berlino. Le ragioni di questa decisione sono ben raccontate da lei stessa nel suo libro Escape to Berlin: A Travel Memoir (2018). Nel 2012 inoltre l’artista si congeda dall’“essere nera”, mettendo in discussione la predeterminata identità di afroamericana che le viene attribuita a livello sociale.