Shirin Neshat
BODY OF EVIDENCE
28.03 - 08.06.2025
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A cura di Diego Sileo e Beatrice Benedetti.

 

Il Padiglione d'Arte Contemporanea di Milano presenta l'ampia personale dell'artista iraniana Shirin Neshat (1957, Qazvin), vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, del Leone d’Argento per la Miglior Regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e del Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017. La mostra ripercorre oltre trent’anni di carriera, attraverso quasi duecento opere fotografiche e una decina di video-installazioni, entrate a far parte delle maggiori collezioni museali al mondo, come quelle del Whitney Museum, del MoMA, del Guggenheim di New York e della Tate Modern.

 

Artista multidisciplinare, Neshat si è confrontata con la fotografia, il video, il cinema e il teatro, creando narrazioni altamente liriche, oltre a visioni politicamente cariche, che mettono in discussione questioni di potere, religione, razza e relazioni tra passato e presente, Oriente e Occidente, individuo e collettività.

 

La lente attraverso cui Neshat interpreta la Storia e la Contemporaneità non solo del suo Paese d'origine, l'Iran, ma del mondo intero, è lo sguardo delle donne: dagli esordi nei primi anni Novanta con la serie fotografica Women of Allah, i celebri corpi femminili istoriati con calligrafie poetiche, fino a The Fury, video-installazione che anticipa il movimento “Woman, Life, Freedom”. La ricerca di Shirin Neshat però travalica il tema di genere e, partendo dal dualismo uomo-donna, indaga le tensioni tra appartenenza ed esilio, salute e disagio mentale, sogno e realtà.

 

La mostra è promossa dal Comune di Milano - Cultura, prodotta dal PAC e Silvana Editoriale e realizzata grazie a Tod’s, con il supporto di Vulcano; partner tecnico Coop Lombardia; si ringrazia Reti S.p.A.

Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994
stampa ai sali d’argento e inchiostro
© Shirin Neshat
Courtesy l'artista e Gladstone Gallery

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Shirin Neshat è un’artista nata in Iran che vive a New York. Nel 1974 si è trasferita negli Stati Uniti per perseguire gli studi artistici, lì poi, a seguito della Rivoluzione khomeinista, ha scelto di rimanere in un autoimposto esilio. Nel 1979 infatti, mentre si trovava a Los Angeles, la Rivoluzione islamica ha posto fine alla monarchia dello scià portando al potere Ruhollah Khomeini e gli ayatollah, i quali hanno convertito l’Iran in una teocrazia le cui leggi si fondano sul Corano e hanno estromesso dal Paese qualsiasi influenza occidentale.

Solo dopo la morte di Khomeini, avvenuta nel 1989, Neshat è riuscita a ritornare nel proprio Paese d’origine: ha compiuto il suo primo viaggio di ritorno nel 1990 ed è rimasta profondamente impressionata dai cambiamenti imposti dal regime. Da qui in poi Neshat ha iniziato a riflettere sulle profonde trasformazioni avvenute nel suo Paese in seguito alla Rivoluzione islamica del 1979. Riflessione che l’ha portata nel corso della sua ricerca anche ad affrontare il tema del ruolo della donna mettendo in relazione religione islamica e femminismo, ad analizzare le dinamiche che stanno dietro alle strutture sociali nei rapporti tra i generi e anche a interrogarsi sulla sua stessa posizione di esule, in equilibrio tra due mondi nei quali si è spesso sentita al tempo stesso, e in modi diversi, parte e marginalizzata.

Il percorso di questa mostra, che non segue un ordine cronologico, ma si dispiega attraverso i linguaggi e i media privilegiati dall’artista – la fotografia e il video –, conduce al cuore di queste indagini. In alcuni casi la tematica politica delle opere è più esplicita, mentre in altri la messa in discussione di convinzioni culturali radicate si rivolge tanto all’Occidente quanto all’Oriente islamico, aprendo così a una serie di interrogativi.

SALA 1 FERVOR

Fervor (2000) è il terzo e ultimo capitolo di una trilogia, di cui fanno parte anche Turbulent e Rapture (esposti nella prossima sala), che indaga il rapporto tra i due sessi nella struttura sociale islamica in Iran. Protagonisti
di questo lavoro sono un uomo e una donna che si imbattono casualmente l’uno nell’altra per la prima volta in un luogo isolato e aperto. L’incontro fortuito dei loro sguardi accende un’istantanea passione, ma i due proseguono immediatamente ognuno per la propria strada. In seguito, l’uomo e la donna s’incontrano nuovamente, ma in un contesto diverso: in mezzo a una folla di altre persone in occasione di un incontro pubblico, forse politico o forse religioso, nel quale uomini e donne sono separati da un lungo tendaggio nero. Una volta preso posto nelle rispettive platee, ascoltano un uomo che, in piedi su un palco, narra la parabola coranica di Zolikha e Youssef, nella quale la prima, travolta dalla passione per il secondo, tenta di sedurlo. L’oratore mette in guardia dal peccato insito nel desiderio, sottolineando l’importanza di resistere alla tentazione. La divisione netta tra i due gruppi è messa in risalto dal contrasto cromatico, cioè tra la platea degli uomini in camicia bianca e le donne velate di nero e il punto d’incontro sembra essere proprio l’uomo, vestito di grigio, che si trova al centro del palco. Nell’ascoltarlo i due protagonisti, a un certo punto, si voltano per un istante inconsapevolmente e contemporaneamente in direzione l’uno dell’altra senza potersi vedere.
Via via che il discorso prosegue, con sempre maggior veemenza, il turbamento dei due aumenta fino a quando la donna si alza e abbandona la platea delle astanti. La proiezione su due canali distinti, che vivono uno accanto all’altro come i due protagonisti, rafforza la sensazione di un’attrazione senza possibilità di contatto. I due corpi vengono mantenuti in uno spazio e anche in una narrazione separata e parallela, senza che giungano mai all’incontro ravvicinato. Un’opera che, come ha sostenuto l’artista stessa, mostra come i tabù sessuali siano stati interiorizzati in egual misura dalle donne e dagli uomini.

SALA 2 TURBULENT

Turbulent (1998) e Rapture (1999) sono i primi due capitoli della trilogia. Turbulent segna il momento in cui l’artista ha iniziato a interessarsi alle immagini in movimento, dopo la fotografia con cui si era confrontata in precedenza. Anche in questi due casi il contrasto duale delle immagini rispecchia la relazione tra i due sessi all’interno della società iraniana islamica. Si trovano infatti elementi come il doppio canale e il bianco (degli abiti indossati dagli uomini) e il nero (che caratterizza l’abbigliamento delle donne velate). Premessa necessaria nel caso di Turbulent è il fatto che, dopo la Rivoluzione del 1979, in Iran alle donne sia stato vietato di cantare da soliste in pubblico, il motivo, stando alle convinzioni, è che la loro voce possiederebbe una carica erotica intollerabile. In quest’opera ci troviamo come al centro di un duello giocato sulle contrapposizioni: il teatro con una platea gremita per lui, quindi una dimensione collettiva, e il teatro vuoto in cui invece canta la donna, in una dimensione individuale; la macchina da presa fissa che inquadra l’uomo e quella in movimento che invece ruota attorno a lei; la musica tradizionale intonata dal cantante (tratta dal poeta persiano Rumi vissuto nel XIII secolo) e quella di una composizione improvvisata e contemporanea proposta da Sussan Deyhim (compositrice e cantante iraniana che da questo momento collaborerà spesso con l’artista). Dopo aver cantato l’uomo raccoglie soddisfatto l’applauso del suo pubblico, ma al sentire la voce di lei rimane inebetito e ipnotizzato.

SALA 2 RAPTURE

Anche in Rapture uomini e donne sono separati sia nelle inquadrature sia nei luoghi, ma ancora una volta a tratti capiamo che i due gruppi sono in grado di percepirsi. I primi si trovano all’interno di una fortezza affacciata sul mare, uno spazio maschile che qui è simbolo di difesa, apparato militare e confine; le donne invece si trovano in uno spazio naturale, deserto e illimitato. In tutta l’opera la componente sonora, ideata da Sussan Deyhim, è un elemento importante: all’inizio contribuisce a rafforzare l’idea di un fare da plotone militare degli uomini, poi interrompe l’azione con il grido/lamento delle donne fino ad arrivare, circa a metà dell’opera, a introdurre una voce maschile fuori campo che recita in arabo dei versi del Corano – pochi e poche tra visitatori e visitatrici di una mostra d’arte contemporanea sono probabilmente in grado di comprendere, ma l’artista ha scelto di lasciarli senza traduzione. A questi versi si sovrappone un coro di voci femminili che prosegue fino a dare vita a una melodia che poi accompagnerà la scena alla conclusione, aperta a molteplici interpretazioni, nella quale le donne, dopo aver trascinato una barca fino a riva, si avventurano in mare aperto e, in un atto di coraggio o di sconsideratezza, s’avviano verso l’orizzonte ignoto sotto lo sguardo degli uomini.

SALA 3 ROJA

Roja (video del 2016 che fa parte di una trilogia più recente nota come Dreamers) si basa sul sogno personale dell’artista che riguarda la sua condizione di esule. Il film mostra il cortocircuito per cui, nelle fantasie di Neshat, sia la cultura statunitense sia quella iraniana abbiano la capacità di trasformarsi da ambienti rassicuranti ad atmosfere inquietanti e ostili. Attraverso strumenti visivi ispirati anche ai film surrealisti di Man Ray
e Maya Deren, come i corpi immobili, le immagini fluide e quelle filtrate da una visione deformante, il racconto si scopre essere una sorta di incubo. Tutto comincia durante uno spettacolo teatrale a cui la protagonista assiste
– si tratta dell’alter ego di Shirin Neshat impersonato dalla scrittrice iraniana Roja Heydarpour. Ben presto la messa in scena diviene una situazione sinistra in cui l’attore, che sta recitando il suo monologo, invita insistentemente la donna sul palco chiedendole di mostrarsi e di svelare sulla scena le proprie falsità. Turbata, la protagonista lascia il teatro (l’emblematico edificio dell’Egg Theatre di Albany che compare anche in Soliloquy, qui esposto nella galleria al primo piano) e all’esterno s’incammina dirigendosi verso la figura di una donna più anziana avvolta in un velo. Quest’ultima, probabilmente una madre che simboleggia la terra madre, le viene incontro, ma avvicinandosi diventa sempre più perturbante, finché una volta raggiuntala, questa donna la respingerà con decisione. Rigettata da entrambe le identità culturali, lasciamo la protagonista nell’impossibilità di sentirsi accolta.

SALA 4 LAND OF DREAMS

La protagonista di Land of Dreams (2019), vicenda che si svolge nel New Mexico, è una fotografa iraniana (alter-ego dell’artista), interpretata dall’attrice iraniana-americana Sheila Vand. La vediamo agire parallelamente sui due canali di cui è composta la video-installazione e solo sommando le due narrazioni riusciamo ad avere il quadro completo della vicenda.
Da una parte infatti seguiamo la ragazza mentre bussa ed entra nelle dimore di cittadini e cittadine americane alle quali si presenta come una studentessa di arti visive a cui è stato assegnato il compito di realizzare dei ritratti fotografici. In seconda battuta chiede a ognuna di queste persone di raccontarle il loro sogno più recente. Nel canale adiacente scopriamo che la fotografa in realtà ha una missione ben più misteriosa e sinistra: è infatti l’incaricata di una bizzarra istituzione la cui funzione è quella di raccogliere i sogni. La sede di questa organizzazione, che ricorda internamente quella di una fabbrica, è nascosta nel cuore di una montagna. Nell’ascoltare i racconti dell’attività onirica delle persone la protagonista si ritrova all’interno delle loro visioni e nell’ultimo incontro sembra aver stabilito una pericolosa e profonda connessione con la donna visitata. Quest’opera fa parte di un nucleo di lavori che include anche un lungometraggio presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021 e un centinaio di ritratti fotografici di persone che Shirin Neshat, proprio come la protagonista del film, ha scattato nel New Mexico durante le riprese, trascrivendone i sogni in lingua farsi. Un lavoro che allude alle similitudini presenti tanto nella società statunitense quanto in quella iraniana e che, attraverso il sogno e la pericolosità di ideologie e pratiche politiche oppressive, mostra il fatto che, in fondo, orrori come morte e abbandono siano esperienze drammaticamente condivise da tutti gli esseri umani.

SALA 5 THE FURY

Prima di arrivare all’ingresso della sala 5 si incontrano una serie di fotografie in bianco e nero che sono parte integrante di The Fury. Il soggetto di queste immagini è il corpo della donna inteso come oggetto di desiderio
e di violenza. I ritratti di nudi di diverse donne trasmettono un senso di bellezza, dignità, sicurezza e orgoglio, ma anche dolore, vulnerabilità e trauma. Attraverso una pratica già utilizzata, l’artista è intervenuta con il segno calligrafico sulle fotografie, riportandovi versi dei poemi della scrittrice iraniana Forough Farrokhzad. Quest’ultima, morta nel 1967, a 32 anni in un incidente stradale, nelle sue poesie trattò la questione della posizione delle donne nella società iraniana e delle prevaricazioni maschili negli anni Cinquanta e Sessanta (prima della Rivoluzione). All’interno della sala si trova invece la video- installazione a doppio canale che affronta il tema dello sfruttamento sessuale delle donne prigioniere politiche da parte del regime della Repubblica islamica in Iran. Sottoposte a gravi torture e violenze sessuali, queste donne non sono in grado di riprendersi emotivamente dai tremendi ricordi delle brutalità subite, neanche una volta libere. La protagonista di questo video è infatti un’ex carcerata iraniana che, seppur in salvo negli Stati Uniti, continua a essere tormentata dagli abusi in una sorta di incubo in cui si mescolano tempi e luoghi. Questo lavoro denuncia i soprusi da parte della polizia iraniana nei confronti delle donne detenute, che subiscono torture e sono addirittura vittime di stupro da parte dei loro carcerieri, esperienze che in diversi casi le hanno portate al suicidio anche una volta rilasciate. Al centro dell’opera c’è il corpo delle donne, un campo di battaglia contro al quale continua a combattersi una spietata lotta di potere e repressione patriarcale. Le fotografie e le riprese sono state realizzate nella primavera del 2022, poco prima della morte di Mahsa Amini – arrestata dalla polizia morale a Teheran il 13 settembre con l’accusa di non aver indossato correttamente l’hijab e morta dopo aver subito violente percosse il 16 settembre – e delle coraggiose ed estese proteste che ne sono conseguite.

PARTERRE THE BOOK OF KINGS

La serie fotografica di The Book of Kings (2012) si basa sul poema epico Shahnameh (Il libro dei Re) scritto dal poeta persiano Ferdowsi intorno al 1000 d.C., un’opera che narra la storia mitica del Grande Iran fino alla conquista islamica della Persia, avvenuta nel VII secolo. In queste immagini fotografiche Neshat ritrae la gioventù iraniana araba dividendola in tre gruppi: le masse, i patrioti e i malvagi. Sui corpi di questi soggetti sono riprodotti a inchiostro illustrazioni e testi calligrafici tratti sia dal poema di Ferdowsi sia da composizioni poetiche di scrittori contemporanei e prigionieri in Iran, un intervento che mette in evidenza le espressioni e l’intensità emotiva dei soggetti ritratti. Come già nella serie Women of Allah (qui esposta sulla balconata), l’artista non solo utilizza la pratica calligrafica, ma riflette sulla forza della volontà rivoluzionaria delle giovani generazioni. Quest’opera arriva dopo la nascita del Green Movement iraniano, che ha preso vita a seguito delle elezioni presidenziali del 2009, quando la vittoria è stata assegnata per il secondo mandato al conservatore Mahmūd Ahmadinejad. L’esito elettorale è stato contestato per brogli attraverso manifestazioni di piazza caratterizzate da una forte partecipazione giovanile. Queste proteste, definite appunto le proteste dell’Onda verde, in riferimento al colore dell’avversario politico moderato e riformista Hossein Mousavi, sono state duramente e violentemente represse dal regime.

BALCONATA WOMEN OF ALLAH

Esposta sulla balconata, Women of Allah (1993–1997) è tra le serie di immagini più iconiche e conosciute di Shirin Neshat. Queste opere sono state realizzate dall’artista a seguito del suo primo viaggio di ritorno in
Iran, avvenuto nel 1990, dopo sedici anni di assenza. In questa serie fotografica in bianco e nero sono ritratte donne velate (in alcuni scatti il soggetto è l’artista stessa) il cui corpo è negato alla vista dal chador. Sulle uniche parti rimaste scoperte (il viso, le mani e in alcuni casi i piedi) sono stati trascritti brani tratti da testi di scrittrici iraniane. Questi segni calligrafici in lingua farsi sono stati vergati a mano, con inchiostro nero, sulla stampa fotografica e si estendono sulle membra quasi come ricami o tatuaggi, una grafia che, come ha sostenuto l’artista, è la voce che rompe il silenzio della donna e della foto. In diversi casi, inoltre, le protagoniste hanno con sé o sono affiancate da armi, un’iconografia che fa convivere concetti contrastanti come aggressione e repressione con sottomissione e resistenza. Questo lavoro, oltre ad affrontare il tema del sopruso subito dalle donne dopo la Rivoluzione khomeinista, riflette anche sull’idea di martirio, concetto molto frequentato nell’ambito della Rivoluzione islamica e nel quale credenze religiose, miste a convinzioni politiche, fanno convivere fra loro i sentimenti
di amore, devozione e sacrificio con quelli opposti di odio, crudeltà e violenza.

GALLERIA 1 SOLILOQUY

Soliloquy (1999) mostra una donna velata in nero, interpretata dalla stessa Shirin Neshat, mentre intraprende due viaggi paralleli che si svolgono fronteggiandosi sui due canali video. Vengono così messi faccia a faccia due luoghi differenti, l’Oriente da una parte e l’Occidente dall’altra, mentre chi osserva si ritrova, simbolicamente per qualche istante, in una condizione che rimanda a quella che l’artista vive da decenni. Si tratta infatti di un lavoro in cui Neshat esplora la sua condizione di esule, costantemente in bilico tra due mondi, che la porta a interrogarsi sulla sua identità, sentendosi esclusa nel posto in cui vive nel presente e al contempo tormentata da quello che
ha lasciato in passato. Nelle due narrazioni, una che si svolge in una città mediorientale alle porte del deserto e l’altra in una metropoli occidentale, la vediamo spostarsi solitaria per le strade, ma anche osservarsi da uno schermo all’altro – mentre l’azione si svolge su un canale nell’altro lei resta immobile e affacciata a guardare di fronte a sé. Due culture la cui diversità è emblematicamente rappresentata dalle architetture che sono il segno più evidente di come una civiltà si struttura: da una parte le immagini sono state girate negli Stati Uniti, per la maggior parte ad Albany (s’intravede anche qui sullo sfondo l’Egg Theatre) e in parte a New York, mentre dall’altra le riprese sono state realizzate a Mardin, nel sud della Turchia, a una decina di chilometri dal confine con l’Iran – che non ha concesso all’artista il permesso di girare nel proprio territorio. Alla base di questo lavoro c’è anche un’altra drammatica nota biografica, Neshat infatti l’ha realizzato in seguito alla perdita del padre e del nipote diciassettenne, due lutti che hanno riacceso le memorie della vita nel Paese d’origine. In questo video c’è quasi la ricerca di un risarcimento spirituale che né l’Islam né il Cristianesimo, pur avendo le stesse possibilità, sono in grado di darle.

GALLERIA 2 PASSAGE

Passage (2001) è un’opera che Shirin Neshat ha realizzato collaborando con il compositore statunitense Philip Glass. Temi centrali di questo lavoro sono la morte e i rituali, come la sepoltura e la cremazione, che gli esseri umani mettono in atto, nonostante le diversità culturali e religiose, per metabolizzare ed esorcizzare il mistero della fine della vita. Le immagini inizialmente sembrano mostrare tre racconti differenti e, benché la musica suggerisca che ci sia una continuità tra loro, solo alla fine i tre nuclei narrativi – rappresentati da un gruppo di uomini, un gruppo di donne e una bambina – arriveranno a convivere nella stessa inquadratura rivelando di essere le parti di un’unica storia. Mentre gli uomini, vestiti di nero, affrontano un percorso a piedi che li porta dal mare al deserto trasportando una salma coperta da un drappo bianco, una bambina solitaria sta costruendo con delle pietre una struttura circolare e le donne, velate e coperte da chador neri, scavano in ginocchio e a mani nude una fossa. Queste sembrano ripetere ritmicamente un tradizionale canto corale che, come ha scritto l’artista, “ricorda le doglie del parto, l’atto sessuale o un rito comunitario”. Il video si conclude con un’ultima inquadratura nella quale vediamo radunatisi nello stesso luogo gli uomini, giunti a destinazione là dove è in corso lo scavo, le donne e la bambina. Quest’ultima sta completando il suo lavoro, quando dietro di lei divampa una lingua di fuoco che si propaga in un ampio cerchio che in pochi istanti circonda lo spazio in cui si trovano i personaggi del racconto. La figura ricorrente del cerchio, le diverse età e fasi della vita, il rimando alle doglie del parto accanto al rito della morte sembrano essere tutti elementi che richiamano la ciclicità dell’esistenza.

BIO

Artista e regista di origini iraniane, Shirin Neshat vive a New York, dove lavora e continua a sperimentare con fotografia, video, cinema e opera lirica; mezzi artistici che impregna di immagini e narrazioni altamente poetiche e ricche di contenuti politici, in grado di mettere in discussione questioni legate a potere, religione, razza, genere e rapporto tra passato e presente, tra Oriente e Occidente, tra singolo e collettività attraverso la lente delle sue esperienze personali di donna iraniana in esilio.

Neshat ha tenuto numerose mostre personali presso musei internazionali tra cui: Pinakothek der Moderne, Monaco di Baviera; Modern Art Museum, Fort Worth; The Broad, Los Angeles; Museo Correr, Venezia; Hirshhorn Museum, Washington D.C.; Detroit Institute of Arts. Neshat ha diretto tre lungometraggi: Women Without Men (2009), premiato con il Leone d’Argento come miglior regia alla 66a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia; Looking For Oum Kulthum (2017) e, più di recente, Land of Dreams, che ha debuttato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2021).

Inoltre, Neshat ha diretto la sua prima opera lirica, l’Aida di Giuseppe Verdi, al Festival di Salisburgo nel 2017 e nel 2022. Il suo allestimento verrà riproposto all’Opéra di Parigi nel 2025.

Neshat è stata premiata con il Leone d’Oro alla 48a Biennale di Venezia (1999), l’Hiroshima Freedom Prize (2005),
il Dorothy and Lillian Gish Prize (2006) e, nel 2017, il prestigioso Praemium Imperiale a Tokyo.

Guida alla mostra