Artur Żmijewski
QUANDO LA PAURA MANGIA L'ANIMA
29.03 - 12.06.2022
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a cura di Diego Sileo

 

Prima mostra personale in Italia di Artur Żmijewski, una delle figure radicali più importanti sulla scena artistica polacca.

 

La mostra, a cura di Diego Sileo, presenta una selezione di lavori storici e recenti, incluse tre nuove opere pensate appositamente per questo progetto milanese e prodotte dal PAC, come il nuovo film ispirato al cinema scientifico del neurologo Vincenzo Neri e la serie fotografica Refugees/Cardboards, un lungo murale fotografico in bianco e nero dal quale emergono figure umane che hanno l’aspetto di profughi, uomini e donne circondati dall’oscurità e dalla desolazione. Il riferimento è ai tanti rifugiati al confine polacco-bielorusso durante l’estate e l’autunno del 2021, ma che oggi inevitabilmente sono l’immagine anche delle attuali oppressioni belliche in Ucraina.

 

 

La sua opera riflette la preoccupazione per i problemi socio-politici della nostra contemporaneità e attraverso di essa l’artista esamina frequentemente i meccanismi del potere e dell’oppressione all’interno dell’ordine sociale esistente – così come i conflitti di vario tipo che rasentano la violenza – mentre espone l’istintiva inclinazione umana al male. I suoi lavori indagano la relazione tra le emozioni estreme e le loro espressioni fisiche, si occupano dell’interruzione del corpo umano e del funzionamento cognitivo in casi complessi come la malattia o la disabilità, analizzando anche i meccanismi della memoria e del trauma collettivo.

 

Usando la simbolizzazione, Zmijewski stabilisce un intricato sistema di rappresentazione in cui la paura si dispiega in termini di controllo sociale. Quando la paura diventa padrona della nostra vita, si può essere tentati da meccanismi travolgenti o si può accettare masochisticamente il giogo della sottomissione; oppure si possono interpretare i due ruoli contemporaneamente. O semplicemente si può provare a capire quando la paura divora la nostra anima. Come ci spiega Rainer Werner Fassbinder nel suo film del 1974 – cui il titolo della mostra vuole rendere omaggio – “la paura mangia l’anima” è un’espressione usata da arabi e nordafricani per descrivere la loro condizione di immigrati. Una vita piena di paura, una paura esistenziale di tutto e di tutti. Paura di un ambiente straniero e ostile, paura di non poter rivedere i propri cari, paura della solitudine, paura della morte, paura della povertà, paura di essere dimenticati, paura che nessuno ti amerà, paura di un razzismo di Stato. Nel progetto espositivo del PAC, la paura è anche quella della malattia, dei disturbi mentali e della disabilità, quella paura di non essere accettati, capiti, la paura del diverso da noi, la paura di ciò che non sappiamo e che ci spaventa.

 

Żmijewski ha esposto in mostre personali e collettive presso musei e istituzioni di tutto il mondo, tra cui documenta 12 e 14, Biennale di Venezia, MoMA di New York, Tel Aviv Museum of Art e Neuer Berliner Kunstverein. Nel 2012 ha curato la settima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Berlino.

 

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Giovedì 10:00 - 22:30
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Eventi

QUANDO LA PAURA MANGIA L’ANIMA - Foto Nico Covre, Vulcano Agency (19)

Considerato una delle figure radicali della scena artistica polacca, Artur Żmijewski inizia la sua formazione artistica a metà degli anni ’90, nel corso di scultura del professor Grzegorz Kowalski all’Accademia d’Arte di Varsavia, dove nasce il suo interesse per la rappresentazione del corpo umano.

Le sue immagini sembrano a prima vista puramente documentarie, ma la messa in scena analitica e precisa dell’artista è evidente anche nella scelta del montaggio. Le opere riflettono la sua preoccupazione per i problemi socio-politici della contemporaneità, come i meccanismi del potere e dell’oppressione, i conflitti di vario tipo che rasentano la violenza e l’istintiva inclinazione umana al male.

Usando spesso la simbolizzazione, Żmijewski ricrea un complesso sistema di rappresentazione, in cui la paura è rivelata in termini di controllo sociale e diventa padrona delle nostre vite.

Esattamente come spiega Rainer Werner Fassbinder nel suo film del 1974 La paura mangia l’anima – cui il titolo della mostra vuole rendere omaggio – è un’espressione usata da arabi e nordafricani per descrivere la loro condizione di immigrati e di paura perenne. Una paura che qui tocca anche i temi della malattia, dei disturbi mentali, della disabilità,
del diverso, dell’ignoto.

La mostra presenta una selezione di opere storiche e recenti, oltre a tre nuove pensate appositamente per questa occasione, tra cui il film ispirato al cinema scientifico del neurologo Vincenzo Neri.

SALA 1

Presentata per la prima volta al PAC, la serie fotografica REFUGEES / CARDBOARDS (Rifugiati / Cartoni) è ispirata alla crisi dei rifugiati scatenatasi al principio del 2021 al confine tra la Bielorussia e la Polonia. I migranti, provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, hanno raggiunto il confine nella speranza di poter chiedere asilo negli Stati membri dell’Unione Europea, dove però hanno incontrato resistenza.

La crisi umanitaria si è inasprita nell’autunno del 2021 e le autorità polacche hanno eretto chilometri di filo spinato, respingendo i migranti con la forza, utilizzando anche gas lacrimogeni: un trattamento che viola gravemente la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e la Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati.

Żmijewski presenta questi migranti – queste persone – come figure imponenti che emergono dall’oscurità, imbracati con tutti i mezzi possibili per difendersi dagli attacchi che quotidianamente subiscono. Sono figure ieratiche, potenti a livello visivo, ma che lasciano trasparire un temperamento pacifista, volto unicamente a combattere per ottenere il diritto di ascolto e protezione, che invece è loro negato. Interessato da sempre alla fotografia – che studia e sperimenta a partire dai suoi studi accademici – Żmijewski utilizza la macchina fotografica come mezzo di sperimentazione e indagine sulla realtà sociale, un veicolo importante per sviscerare e denunciare i traumi e le diseguaglianze del nostro tempo.

“La violenza penetra nella vita quotidiana. Ogni giorno, qualcuno minaccia qualcun altro con uno sguardo, una parola, un gesto” afferma l’artista Artur Żmijewski a proposito della serie GESTURES (Gesti). Queste fotografie offrono una visione introduttiva potente dell’intera poetica che avvolge il lavoro dell’artista polacco, dalla fine degli anni ’90 a oggi. Servendosi della tecnica della cronofotografia, l’artista realizza diverse immagini caratterizzate da una multi- esposizione dei protagonisti, catturati nei loro gesti più estremi: brandendo armi, ridendo beffardi, insultando con il semplice uso delle mani. Le loro emozioni, estreme e minacciose, sono moltiplicate dalla ripetizione dei loro  volti, colti in attimi distinti, fornendo quasi una fenomenologia delle emozioni aggressive. La violenza qui mostrata non racconta alcun episodio o momento particolare: si tratta piuttosto di un’astrazione resa simbolica, enfatizzata dallo sfondo nero, neutro, e dal contrasto che evidenzia le espressioni facciali e fisiche in generale. È il manifesto visivo di una violenza quotidiana e in parte diffusa mediaticamente, quasi banale per la sua naturalezza, volta ad aggredire, offendere, umiliare, sottomettere. In Gestures vengono presentati per lo più i carnefici, dai muscoli tesi e il colpo deciso, ma anche persone che giocano un ruolo doppio, mostrando una violenza autoriferita. I gesti forti e le bocche dilatate rendono queste immagini sinestetiche, permettendoci cioè di avvertire i suoni – e chissà forse anche il pericolo imminente.

Inventata nel 1882 da Étienne-Jules Marey, la cronofotografia nasce dall’esigenza scientifica di documentare il movimento, catturando fotograficamente diversi momenti nella stessa lastra. Sembra quindi che questa tecnica risponda alla dichiarata esigenza dell’artista di trovare “una formula matematica o un modello di violenza, astratto, distillato dalle cose e dai corpi e dotato di una forma visiva”.

CORRIDOIO pt.1

La città di Wroclaw ha una storia complessa: polacca, ceca, poi tedesca fino al termine della Seconda Guerra Mondiale e conosciuta con il nome di Breslau (Breslavia). Tornando a far parte del territorio polacco, attraversa un processo graduale di “de-germanizzazione”, avviato proprio a partire dal nome: da Breslau a Wroclaw. Con l’obiettivo di ricostruire una nuova “terra intacta”, tutti i vessilli della Germania nazista, e non solo, vengono accuratamente eliminati: tra questi anche il cimitero tedesco, le cui lapidi diventano materiale di costruzione per parchi, piazze, strutture. Un piano di rigenerazione urbana che somiglia molto a un rituale di purificazione dal male. In queste tombe però c’è anche gente nata – se non addirittura morta – molti anni prima dell’ascesa del regime nazista. I loro nomi vengono comunque cancellati e la loro storia dimenticata. Con ERASING (Cancellare) Żmijewski riflette sul peso della storia, sulle conseguenze della riscrittura della memoria collettiva, sul senso di vendetta scaturito dalla frustrazione del ricordo nazista. Dopo aver recuperato sette di queste lapidi, l’artista ne cancella il nome e ne mantiene visibile la data di nascita e di morte. Interessato a un’arte che attivi processi sociali e politici, Żmijewski innesca un discorso profondo sull’inversione del potere e soprattutto sull’identità nazionale e su come questa possa influire su quella individuale, a volte portatrice di colpe in realtà estranee.

SALA 2

Presentata per la prima volta a Kassel nel 2017, in occasione della quattordicesima edizione di documenta, REALISM (Realismo) è una video installazione proiettata su sei schermi, tanti quanti i suoi protagonisti: sono sei uomini russi, ex soldati impegnati nel conflitto russo-ucraino – ancora oggi tristemente attuale. I video, girati in Russia, mostrano la routine di questi uomini plasmata dalla loro nuova fisicità: sono privi di una gamba, persa durante i combattimenti o per via dell’impatto con delle mine. I video risultano però sprovvisti di uno sguardo compassionevole: l’inquadratura è stabile, non indugia, non cade mai in una mediatica pornografia del dolore, piuttosto si mantiene oggettiva, aspirando alla massima lucidità visiva, al realismo per l’appunto. Come spesso accade, Żmijewski punta l’obiettivo verso soggetti la cui condizione sociale o fisica non è conforme ai canoni considerati “standard”. I loro movimenti mostrano ordinarietà, forza, autosufficienza, ma allo stesso tempo lasciano trapelare la difficoltà del recupero e l’aura di solitudine che avvolge le persone disabili, spesso socialmente dimenticate. Una forma di attrazione perturbante accompagna la visione di questi film che mostra una bellezza fuori dall’ordinario, divenuta qui modello sia di resistenza fisica sia dell’irrimediabilità dei danni della guerra.

SALA 3

Il corpo è un sistema complesso, un meccanismo vivente sorretto da una serie fittissima di delicati equilibri che, nella loro imprevedibilità ci rendono unici.
Se il corpo è un sistema complesso, la psiche che lo abita è un territorio ignoto. Nel tentativo di trovare una forma estetica a questa moltitudine, Artur Żmijewski dedica gran parte della sua ricerca allo studio del corpo: diverso, mutevole, emancipato, mutilato, nascosto, politico.

In COMPASSION (Compassione) l’artista si ispira al lavoro di Vincenzo Neri, neurologo bolognese che nel XX secolo ha dedicato gran parte dei suoi studi al linguaggio del corpo in presenza di malattie psichiche. Nei primi anni del

Novecento, Neri si reca all’ospedale La Salpêtrière famoso per essere stato la sede, durante il secolo precedente, degli studi e delle lezioni sull’isteria – seguite anche da Freud – tenute dal neurologo Jean Martin Charcot. Proprio durante quegli anni presso la Salpêtrière, Neri inizia a filmare i pazienti per studiarne i movimenti – volontari o meno – stimolati dalla loro malattia. Una volta tornato in Italia, Neri continua la sua attività di registrazione visiva, diventando così un pioniere del cinema scientifico e lasciando un importante archivio. In Compassion, Żmijewski rielabora il lavoro di Vincenzo Neri che interpreta come “un’immagine complessa della miseri della condizione umana”. Attraverso l’azione performativa di attori e attrici, l’artista polacco tenta di creare un’empatia con i pazienti filmati da Neri, mostrando immagini di una fisicità alterata, disordinata e attrattiva allo stesso tempo.

SALA 4

Nel suo testo Applied Social Art del 2007, Żmijewski scriveva: “Oggi la videocamera è la migliore amica dell’artista”, spiegando prima che “il film è un modo per intervenire, lottare per qualcosa, informare, educare, aggiornare le conoscenze, raccontare favole, persuadere, richiamare l’attenzione su problemi e snodi critici”. Una visione che si adatta bene all’intero lavoro dell’artista e che in GLIMPSE (Sguardo) raggiunge l’apice grazie allo sguardo crudo e quasi documentarista fornito dall’uso della videocamera. Mostrato per la prima volta a documenta 14 (Atene 2017), il film raccoglie le immagini di quattro campi profughi situati in Francia e in Germania. In particolare la situazione di uno di questi campi, quello di Calais al nord della Francia, risulta particolarmente drammatica. Conosciuto anche come “la jungle” (la giungla), il campo profughi di Calais ha dato temporaneo asilo a circa diecimila migranti – soprattutto afghani, siriani, pakistani – disposti in roulotte, tende e abitazioni di compensato, in attesa di raggiungere il Regno Unito attraverso il Canale della Manica. Il campo, demolito alla fine del 2016 dalle autorità francesi ma ancora abitato da gruppi di migranti, è stato – ed è ancora oggi – teatro di abusi da parte della polizia ai danni sia di adulti che di minori. Glimpse ci mostra da vicino una realtà fortemente marginalizzata, così straziante da sembrare quasi di un’altra epoca. L’opera è un’indagine sulla privazione dei diritti essenziali dell’essere umano e del potere politico: queste condizioni sono sottolineate non solo dall’atteggiamento della polizia, ma anche da alcune particolari inquadrature che sembrano scrutare il migrante, con lo stesso tono accusatorio di chi lo considera un peso sociale.

In relazione alla ricerca iniziata nel 2016 con Glimpse, la serie fotografica IN BETWEEN (Nel mezzo) si concentra sulla condizione delle persone non occidentali che vivono in Europa e sulla percezione che gli europei hanno di loro. Gli scatti richiamano lo stile della fotografia etnografica e di propaganda che ebbe origine durante la metà del 1800. Si trattava di un tipo di fotografia a scopo antropologico, volta a classificare la specie umana: un tentativo, come si potrà immaginare, neanche troppo implicito di individuare dei criteri scientifici, fondati su misure e proporzioni somatiche, atti a dimostrare la superiorità delle popolazioni occidentali. Dunque caratteristiche puramente fisiognomiche decretavano, di contro, l’impurità e l’inferiorità delle altre popolazioni, giustificando così il colonialismo e le brutalità ad esso associate. Nonostante i progressi – su tutti i fronti – anche l’Europa del XXI secolo risente del grande peso del razzismo e della xenofobia, fomentati negli ultimi anni dall’incapacità della gestione dell’emergenza migratoria e dall’incremento dei partiti populisti. Il disinteresse nell’incontrare – conoscere – davvero ciò che è considerato “altro”, porta ancora oggi alla formulazione di giudizi qualitativi e stereotipi erronei, formulati anche, in buona fede, da chi sostiene di non essere razzista. Żmijewski crea una serie dove i suoi protagonisti sono posti in relazione con il paesaggio urbano mentre i loro corpi vengono misurati o dotati di ritmo grazie a pattern compositivi: una traduzione visiva di quel tentativo contemporaneo di rendere i loro corpi se non scientificamente, quantomeno socialmente comprensibili.

CORRIDIO pt.2

Ispirato dal video di Katarzyna Kozyra, Legami di sangue (1995), in cui la sorella – Ewa, priva di una gamba – saltellava in una spiaggia fino a raggiungere l’acqua, nel 1999 Żmijewski crea la serie video e fotografica intitolata AN EYE FOR AN EYE (Occhio per occhio). L’opera è una delle prime che pone l’attenzione sulla bellezza dei corpi imperfetti, sui loro movimenti e sulla rivendicazione estetica della loro esistenza. I quattro uomini, insieme, si muovono fino a far combaciare i loro corpi: l’immagine è quella di un essere nuovo, ma quasi mitologico per l’aspetto, potente e dotato di un’inedita forma di equilibro. Gli uomini – privi di una o entrambe le gambe – fanno parte di un club  sportivo per persone disabili: sono atletici, sicuri, non hanno vergogna nel mostrare sé stessi. Il titolo di derivazione biblica capovolge la morale punitiva insita, legata alla legge del taglione, e offre un nuovo epilogo: “l’occhio” non viene tolto, ma donato, anche se momentaneamente.

L’opera racconta la possibilità di coesistenza tra fisici normalizzati e quelli invece considerati difettosi, e crea una nuova narrativa della bellezza, funzionando anche politicamente contro la marginalizzazione della disabilità. Seppur in parte trasmetta il disagio della vicinanza intima, la nudità per Żmijewski è una questione di incontro mentale, più che fisico, una maniera per raccontar(si) una verità. Quello della nudità è per l’artista “l’incontro più autentico di tutti, anche quando ha poco in comune con il piacere o l’ardore reciproco o il calore”.

SALA 5

L’anno successivo alla sua laurea all’Accademia di Belle Arti di Varsavia, Żmijewski realizza il video intitolato ME AND AIDS (Io e l’AIDS), un’azione performativa che lo vede personalmente coinvolto insieme ad altri due performer. L’opera, ambientata in un’aula spoglia, vede i tre artisti muovere i loro passi in maniera incerta, come se avessero perso l’orientamento. Il loro incontro si realizza con violenza: una collisione di corpi forte e dolorosa, a cui fa seguito il suono di un tonfo che ne ingigantisce l’impatto.
La sensualità dei corpi nudi e il piacere del contatto lasciano spazio quindi alla paura, al disagio, allo smarrimento. L’artista ci fornisce una narrazione sulle relazioni tutt’altro che romantica, anzi piena di potenziali pericoli resi concreti, in questo caso, dalla contrazione della malattia. L’epilogo poi ci suggerisce l’impossibilità di un avvicinamento sereno, privo di  sofferenza. Nell’insieme Me And AIDS pone un’importante e fondamentale lente di ingrandimento sulla condizione psicologica del malato, amplificando una fobia che è insieme intima e collettiva.

La performance – e questo uso del corpo svincolato – risente molto delle influenze della Kowalnia, la classe di studio del professor Grzegorz Kowalski, di cui Żmijewski stesso faceva parte insieme a Katarzyna Kozyra e Pawel Althamer.

Uno dei temi ricorrenti nelle opere di Żmijewski è la rielaborazione del doloroso passato della Polonia – sua terra di origine – occupata dai nazisti, distrutta dalla guerra e, di conseguenza, sede dei più efferati campi di sterminio, tra cui il tristemente famoso Auschwitz. In questa ricerca di una realtà che appartiene alla generazione precedente a quella dell’artista, ciò che preme di più a Żmijewski è una restituzione emotiva, più che una lineare ricostruzione dei fatti. Secondo le sue parole, a proposito di un’altra celebre opera, 80064, che tratta lo stesso tema: “È solo nelle generazioni successive che il trauma può essere testimoniato ed elaborato da coloro che non erano lì per viverlo, ma che hanno ricevuto i suoi effetti”.

In GAME OF TAG (Gioco del Ce l’hai), una delle opere che è stata più oggetto di critiche e interrogativi, la situazione che ci troviamo a osservare è effettivamente paradossale. L’aspetto ludico unito all’ambiente tremendo e angusto della camera a gas – una simulata, l’altra reale come testimoniano gli aloni giallastri lasciati dal gas Zyklon B – crea un cortocircuito tanto visivo, quanto emotivo. Stiamo assistendo a un’imminente tragedia di cui le stesse vittime sono ignare? O è forse un epilogo differente, un modo quasi terapeutico per immaginare una narrativa alternativa? O ancora, siamo costretti ad affrontare questi luoghi, sperimentando tutto lo spettro delle emozioni possibili, per riuscire a percepirli sul serio?

In Game of  Tag il ruolo performativo è lasciato ad altre persone, aspetto piuttosto frequente nell’opera di Żmijewski: la performance per delega sposta l’attenzione dal corpo individuale dell’artista a quello collettivo, elevato a simbolo di un’intera comunità. Nella performance per delega l’incipit e gli aspetti strutturali sono determinati dall’artista, ma gli esiti finali sono imprevedibili.

Nel 1995 Artur Żmijewski presenta, a continuazione della sua tesi di laurea, un lavoro performativo in collaborazione con l’artista Katarzyna Kozyra, anche lei studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia e partecipe della kowalnia, la classe di scultura del professor Kowalski. Il lavoro TEMPERANCE AND WORK (Temperanza e lavoro), sia video sia fotografico, viene presentato qui nella sua completezza filmica. I due performer si osservano e poi decidono di esplorarsi a vicenda. Si confrontano fisicamente ma nel più bizzarro dei modi: dilatano o comprimono la pelle dell’altro, accostano forzatamente i loro volti, assumono posizioni assurde per osservarsi da diversi punti di vista.

La sensualità del contatto fisico e la tensione erotica sono quindi sostituite da un’indagine fisica che, se da un lato lascia trasparire un gioco e un velo di ironia, dall’altro esprime la difficoltà di comunicazione e il tentativo di comprensione dell’altro portato ai limiti dello sfinimento. I loro corpi giovani vengono privati di qualsiasi sessualizzazione, non solo per la gestualità, ma anche per i colori del video estremamente saturati che li rendono meno pubblicitari e ovattati. L’ambiente raccolto, però, rende il loro incontro verosimile e sembra che allo spettatore sia concesso di assistere a un momento intimo, come se fosse un voyeur.

PARTERRE

Lo ZEPPELINTRIBUNE è un edificio nazista, facente parte dell’ampio complesso dell’Area dei Raduni di Norimberga, costruita tra il 1933 e il 1938 dall’architetto Albert Speer, desideroso di lasciare un progetto la cui impronta sarebbe rimasta nel corso dei secoli. L’architetto credeva fortemente nella teoria del “valore delle rovine”, secondo cui un edificio doveva mostrare la sua imponenza estetica e ideologica anche quando aveva cessato di essere funzionale (come le rovine greche e romane). Non a caso l’edificio è ispirato all’altare di Pergamo, monumento ellenistico a cui Berlino aveva dedicato un museo nel 1910. È proprio dalla tribuna dello Zeppelin che Hitler declamava i suoi comizi più potenti, udito da migliaia di civili e militari. Proprio perché l’architettura non è solo una questione di edifici e linee, ma soprattutto di identità e potere, lo Zeppelintribune è stato uno dei primi obiettivi degli Alleati dopo la vittoria: la svastica che lo sovrastava è stata fatta scenicamente esplodere.

Nonostante la parziale distruzione nel corso degli anni, oggi lo Zeppelintribune rimane eretto – proprio come desiderava Speer. Zmijewski lo utilizza come scenario performativo perché conscio del suo forte valore politico e simbolico. L’artista mette insieme documenti storici e scene contemporanee per creare un parallelismo tra passato e presente, e per riflettere sull’importanza destinata a quel tipo di memoria. Nel video i due artisti, soprannominati arbeitsmänner (operai), sfilano davanti al monumento ed emulano i movimenti cari al Terzo Reich. Come nella maggior parte delle opere di Zmijewski, il messaggio non è unidirezionale perché se da un lato i gesti si rivelano satirici, dall’altro appaiono pericolosi per l’autorevolezza che hanno avuto in passato. Lo stesso vale per l’edificio costruito da Speer: nonostante oggi versi in uno stato di degrado, la sua struttura rimane ancora visibile, nel bene e nel male.

In sottofondo la canzone tedesca Ich bin Lili Marleen, particolarmente famosa durante la Seconda Guerra mondiale, la canzone preferita dei soldati di entrambi gli schieramenti che divenne un inno non ufficiale di fratellanza tra i soldati stessi.

Come si è già detto in precedenza, Pawel Althamer è un artista polacco che, come Zmijewski, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Varsavia, dove si è laureato in Scultura nel 1993. Artista eclettico e interessato alle tematiche sociali contemporanee, Althamer lavora attraverso diversi media: scultura, performance, video, progetti di arte partecipativa. I suoi lavori scultorei sono spesso focalizzati sulla figura umana, resa attraverso tratti esili ma pervasi di energia vitale, volti a presentare il corpo come veicolo dell’interiorità. UNTITLED (Senza titolo) è il risultato del lavoro sinergico di Althamer e Zmijewski, che collaborano spesso per progetti di diversa natura. In queste opere, i due artisti si concentrano sulla re-invenzione di una fisicità umana attraverso materiali metallici, in particolare ferro.
Le linee, perlopiù geometriche, creano uno slancio dinamico che, unito all’alternanza di pieni e vuoti, dona vigore alla materia.

GALLERIA

In DEMOCRACIES I (2009) e II (2012) (Democrazie I–II) è presentata una raccolta di video di eventi reali, girati in diversi luoghi. Le sequenze mostrano
i motivi che spingono la popolazione – o parte di essa – a riunirsi in massa negli spazi pubblici: la partecipazione emotiva, l’euforia, talvolta la violenza sono le basi costanti di questi video che travolgono con impeto, proiettandoci nello stesso caos. L’artista è interessato a indagare la differenza comportamentale dell’individuo in contesti di massa, oltre che il confine sottile tra diritto di espressione e fanatismo. In questo senso, il titolo al plurale risulta emblematico: non solo fa riferimento ai diversi modi in cui può essere articolata una democrazia, ma mette in discussione i presupposti che la rendono tale. In quest’opera si evidenzia l’antagonismo relazionale tanto discusso da Claire Bishop a proposito delle pratiche artistiche partecipative. Come sostiene Bishop, la conflittualità è l’elemento portante di un sistema democratico poiché “senza antagonismo c’è solo il consenso imposto dell’ordine autoritario – una soppressione totale del dibattito”; ma parallelamente è questa stessa conflittualità a non garantire il soddisfacimento dei bisogni di tutti gli individui.

Zmijewski si sofferma su tutte le contraddizioni insite nei sistemi democratici odierni, sui compromessi su cui poggiano e sulle diseguaglianze sociali che non riescono a superare. Tra i suoi video troviamo diverse manifestazioni di stampo populista che, più che lottare per un bene comune, incitano all’odio e alla violenza. Come lo stesso artista ha affermato “è stato interessante vedere come questo si traduca in spettacolo politico – come questi sentimenti omicidi siano trasferiti a un livello simbolico e lì rappresentati con sicurezza”.

BALCONATA

POLITICAL GESTURES (Gesti politici), presentata per la prima volta in occasione di questa mostra, dispiega esteticamente la gestualità propria del potere politico dittatoriale. L’opera è collegata sia a Gestures – con la quale condivide la tecnica della cronofotografia e lo studio sulla violenza gestuale – sia a Refugees / Cardboards – che, data la tematica, rappresenta la sua antitesi. Le fotografie sono infatti ispirate all’iconografia della propaganda hitleriana, in particolare agli scatti realizzati da Heinrich Hoffman, fotografo ufficiale dell’ex dittatore nazista. In queste immagini, Hitler appariva volutamente imperioso e impenetrabile, sicuro e minaccioso, un risultato ottenuto non solo attraversa la mimica facciale, ma soprattutto grazie a una gestualità accuratamente studiata.

Żmijewski utilizza, ancora una volta, la giustapposizione dei volti per esacerbare le espressioni e colloca le figure secondo un’evoluzione ad arco, guidato dalla disposizione delle mani. Come il movimento delle fasi lunari, i suoi soggetti crescono d’intensità fino ad arrivare a un picco centrale, in cui il volto non solo è più grande ma risulta anche mostruoso, letteralmente screziato dall’ira. Ma, come ogni curva, anche questa affronta la sua discesa: un inevitabile epilogo o la continuazione di un moto ciclico?

BIOGRAFIA

ARTUR ŻMIJEWSKI (Varsavia, 1966) è artista, regista e fotografo. La sua ricerca esamina i meccanismi di potere e di oppressione all’interno dell’ordine sociale, analizza la relazione tra emozioni estreme e le loro espressioni fisiche, si occupa dello sconvolgimento del corpo umano e del funzionamento cognitivo in casi limite, come la malattia o la disabilità, e studia i processi della memoria e del trauma collettivo. Nei suoi lavori Żmijewski elabora una costruzione narrativa di tipo cinematografico, che in apparenza ricorre a sistemi schematici per poi sovvertirne i modi di rappresentazione. Non vi si trova contrapposizione tra soggettività e oggettività, bensì una sorta di gioco dialettico tra il corpo e la sua funzione. Żmijewski ha esposto in mostre personali e collettive presso musei e istituzioni di tutto il mondo, tra cui documenta 12 e 14, Biennale di Venezia, MoMA di New York, Tel Aviv Museum of Art e Neuer Berliner Kunstverein. Nel 2012 ha curato la settima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Berlino.

VIDEO

Interview | Artur Żmijewski. QUANDO LA PAURA MANGIA L'ANIMA
Trailer | Artur Żmijewski. QUANDO LA PAURA MANGIA L'ANIMA
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