a cura di Diego Sileo
Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta la prima mostra personale in Italia di Tania Bruguera, artista e attivista le cui performance e installazioni esaminano le strutture del potere ed esplorano i modi in cui l’arte può essere applicata alla vita politica quotidiana.
Durante la mostra il pubblico al PAC sarà chiamato ad “esplorare” la verità attraverso una serie di installazioni e azioni - alcune delle quali attivate quotidianamente da performers.
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La mostra al PAC presenta una selezione delle azioni più significative dell’artista e alcuni nuovi lavori pensati per lo spazio milanese, tra i quali un'opera realizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti (ANED) che denuncia le ingiustizie subite dai migranti.
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In meno di dieci anni l’Europa ha costruito chilometri di barriere di frontiera (l’equivalente di sei muri di Berlino) per ostacolare i flussi migratori. Nella nuova opera pensata per il PAC Tania Bruguera adotta un parallelismo storico: un filo spinato, cucito a mano da sopravvissuti e discendenti di deportati durante la Seconda Guerra Mondiale, unisce le stelle della bandiera europea e ci ricorda che "The poor treatment of migrants today will be our dishonor tomorrow".
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Il titolo della mostra è una citazione Hannah Arendt, punto di riferimento imprescindibile per la ricerca di Tania Bruguera. In una leggendaria intervista alla televisione della Repubblica federale tedesca, realizzata da Günter Gaus il 28 ottobre del 1964, alla domanda se ritenesse suo dovere pubblicare tutto quello di cui veniva a conoscenza o vi fossero motivi validi per tacere su alcune cose, Hannah Arendt rispose con la citazione latina fiat veritas et pereat mundus: sia detta la verità anche a scapito del mondo.
Premiata con riconoscimenti come il Premio Robert Rauschenberg, la Guggenheim Fellowship e il Prince Claus Fund Laureate, Bruguera ha esposto nelle istituzioni di tutto il mondo, tra cui la Tate di Londra, la Biennale di Venezia e documenta 11. Le sue opere si trovano nella collezione del Guggenheim Museum, del MoMA, del Van Abbemuseum, della Tate e del Museo Nacional de Bellas Artes de La Habana. Dal 2021 è Senior Lecturer in Media & Performance alla facoltà di Teatro, Danza e Media di Harvard.
Eventi
Tania Bruguera è considerata una delle artiste più influenti del nuovo secolo, non solo per gli intensi anni di attività artistica, ma anche per il forte impegno nell’attivismo che l’ha portata a produrre opere ad ampio raggio, capaci di restituire a pieno la complessa realtà socio-politica contemporanea. Nata a L’Avana, dieci anni dopo l’ascesa del regime castrista, Bruguera ha dato avvio alla sua carriera recuperando alcune opere di Ana Mendieta – artista cubana scomparsa nel 1985 – con il fine di restituirle quali metafore delle urgenze della Cuba del suo tempo, toccando temi come l’emigrazione e l’esilio, la memoria collettiva e la manipolazione della storia, il linguaggio artistico e la censura.
Interessata a indagare l’estetica del potere e le complesse dinamiche tra politica e società, Bruguera ha adottato diversi format per creare opere che non nascono da un’emergenza individuale, bensì collettiva. A partire dagli anni Duemila sovverte i tradizionali criteri della performance art attraverso dei progetti ascrivibili al campo delle pratiche artistiche partecipative, funzionanti cioè solo in presenza di una comunità scelta. In questo modo l’artista cerca di eliminare il confine tra arte e vita, trasformando il linguaggio estetico in uno strumento utile per l’indagine o la risoluzione di problematiche sociali – legate soprattutto ai diritti umani, all’esclusione delle minoranze, alla libertà di espressione, alla coercizione dei sistemi dittatoriali e ai flussi migratori.
Tra le varie fonti di ispirazione per il lavoro dell’artista cubana, spicca sicuramente Hannah Arendt, filosofa tedesca, a cui è dedicato il titolo di questa mostra. Nel 1964 Arendt partecipa a Zur Person, talk show della televisione della Germania Ovest, diretto da Günter Gaus. La filosofa, prima donna a comparire in questo programma, è interrogata da Gaus circa il suo mestiere. Alla domanda “Ci sono motivi validi per tacere su alcune cose che sa?”, Arendt risponde in latino “Fiat veritas et pereat mundus (sia detta la verità anche a scapito del mondo)”. La filosofa, in questo modo, inverte la locuzione latina originale (fiat iustitia et pereat mundus) per alludere, ideologicamente, ad una società non giustizialista ma basata sulla verità. Una verità che coincide con il termine libertà: di esistere, di sapere, di conoscere e di esprimersi.
La verità anche a scapito del mondo – prima grande mostra dedicata all’artista in Italia –, presenta una realtà senza filtro alcuno, un inno alla consapevolezza e al pensiero critico. Attraverso un’ampia selezione di opere, alcune inedite, altre riazionate per questa occasione, viene posta una lente d’ingrandimento su alcune urgenze del nostro tempo, lasciando anche che sia il pubblico ad ampliare il margine di cambiamento.
Il 20 maggio del 2015, Bruguera aprì le porte della sua abitazione a L’Avana per una lettura di oltre cento ore del testo di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo. La scelta della data è significativa: si tratta infatti del giorno dell’Indipendenza dagli Stati Uniti, una ricorrenza non celebrata a partire dal 1960, poiché sostituita dal 26 luglio, giorno in cui Castro iniziò la sua lotta per il rovesciamento del governo di Fulgencio Batista.
A seguito della lettura pubblica del 20 maggio è nato INSTAR – Instituto de Artivismo Hannah Arendt – un centro situato all’Avana, volto a ridiscutere e proporre nuove idee di democrazia, aperto ai cubani di qualsiasi età e classe sociale. Attraverso metodologie pacifiche e creative, INSTAR ha come obiettivo quello di arrivare a “un’alfabetizzazione civica”, che garantisca di conoscere i diritti personali e collettivi, al fine di saperli difendere. Con il termine Artivismo si intende l’insieme di strategie volte a innescare collettivamente un cambia- mento sociale attraverso un linguaggio alternativo basato sull’arte e l’attivismo.
In questa prima sala Bruguera ripropone la potenza delle parole di Hannah Arendt, lasciando anche ai visitatori il compito di esprimerle.
In meno di dieci anni l’Europa ha costruito chilometri di barriere di frontiera (l’equivalente di sei muri di Berlino) per ostacolare i flussi migratori. Una delle prime nazioni a farlo è stata la Grecia nel 2012 issando 10 km di filo spinato per impedire il passaggio dei migranti siriani provenienti della Turchia. Lo stesso hanno fatto altri paesi come l’Ungheria e la Bulgaria. L’obiettivo è quello di militarizzare i confini, in una politica del vero e proprio isola- mento. A pagarne le conseguenze sono migliaia di persone costrette a lasciare il proprio paese per ragioni politiche, economiche o ambientali e che, raggiunte le frontiere europee, subiscono maltrattamenti o sono obbligate a permanere in campi profughi in pessime condizioni. Bruguera ci rammenta che “il misero trattamento riservato ai migranti oggi, sarà il nostro disonore domani”.
Per farlo adotta un parallelismo storico: il filo spinato presente nella bandiera è stato cucito – grazie alla collaborazione con ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti) – da tre sopravvissuti ai lager (Auschwitz e Mauthausen) e da alcuni figli di deportati durante la Seconda guerra mondiale.
Il gesto collettivo, unito all’azione del cucire, congiunge più vite in un’unica: la bandiera che normalmente rappresenta un ideale, funziona qui come antitesi delle recinzioni, una denuncia corale contro le ingiustizie ai danni dei migranti.
Negli anni Duemila Bruguera decostruisce le dinamiche della performance, proponendo delle opere che spesso la vedono assente: il ruolo performativo è delegato ad altri artisti o lasciato ai visitatori, ai quali è offerta una vasta gamma di input con cui possono interagire, fisicamente o emozionalmente. È ciò che succede in quest’opera, appartenente alla serie Sin Título (Senza titolo), il cui titolo viene definito unicamente dal nome della città di destinazione. Si tratta di luoghi emblematici, il cui contesto socio-politico è presentato attraverso altre prospettive, creando un ponte tra presente e passato. Nel 2002, durante documenta 11, Bruguera crea un ambiente per rievocare il trascorso di Kassel, città in cui si trovava una delle sedi della Rheinmetall, azienda produttrice di armi belliche, punto di rifornimento durante la Seconda guerra mondiale. Qui l’opera viene riproposta insieme all’aspetto performativo: due performer si muovono nel buio della sala mentre maneggiano un fucile e una pistola: un ritmo macabro che evoca la tensione dei conflitti. Allo shock sonoro si aggiunge quello visivo dato dall’alternarsi delle luci abbaglianti in contrasto con l’ambiente scuro. Le due categorie opposte di luce e buio sono qui metafore di due condizioni antitetiche: potere e vulnerabilità.
La sala accoglie l’installazione proposta nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra nel 2018, in occasione della selezione per la Hyundai Commission.
La stanza è spoglia se non fosse per alcune fessure nelle pareti che rilasciano un composto organico al mentolo che induce alla lacrimazione. In un mondo globalizzato, dove informazioni, comunicazioni e commercio sono ormai a portata di un click, Bruguera crea uno spazio momentaneo in cui condividere le emozioni con degli sconosciuti, un richiamo contemporaneo al nonluogo di Marc Augé, ma qui pensato come contenitore di sensibilità, tempo e partecipazione. “L’empatia forzata”, come la stessa artista l’ha definita, è riferita a uno stato fisico – la lacrimazione indotta dal composto vaporizzato – che può rivelarsi un’occasione preziosa per suscitare un sentimento autentico.
Distanti dall’iconografia mediatica, densa di immagini strazianti ormai diventate routine, resta solo una cifra in continua crescita e aggiornata quotidianamente che viene impressa sul dorso della mano di ogni visitatore: si tratta di tutte le persone che dal 2014 hanno attraversato il Mediterraneo, comprese quelle che hanno perso la vita nel farlo.
“La maledetta circostanza dell’acqua da ogni parte”: è l’incipit del poema di Virgilio Piñera, La isla en peso, che riflette sulla condizione insulare e sul mare, luogo dove gli opposti convivono: apertura e chiusura, vita e morte. Dall’inizio della sua carriera Bruguera dedica grande attenzione al tema della diaspora. In Homenaje a Ana Mendieta (Omaggio a Ana Mendieta) Bruguera tratta la storia dell’artista – costretta a lasciare Cuba nel 1961 a 12 anni – come esempio di esilio e perdita; come lei, tra il ’59 e il ’66, trecentomila persone sono emigrate verso gli Stati Uniti dopo l’ascesa di Fidel Castro. Il flusso migratorio riprende negli anni Novanta durante il Periodo Especial in cui, a causa dei cessati rapporti con l’URSS, Cuba subisce un duro indebolimento economico, portando a galla tutte le promesse mancate della Revolución. L’isola però è blindata, per questa ragione migliaia di abitanti decidono di partire con imbarcazioni di fortuna, nel tentativo di raggiungere la Florida. Tra i balseros – migranti clandestini – molti perdono la vita, nonostante il numero e le identità siano imprecise per il disinteresse del governo castrista. Tabla de salvación (Tavola della salvezza) è dunque un monumento alla consapevolezza: il marmo nero richiama i monumenti funebri, mentre le aste lignee alludono a uno scafo; infine il cotone, materiale utilizzato per le medicazioni, evidenzia la grande ferita da sanare. L’opera riflette il sentimento amaro “del peso di un’isola nell’amore di un popolo”.
Dopo quasi trent’anni di irreperibilità, Estadística (Statistica) torna ad essere esposta al pubblico, nella sua imponente forza visiva. La bandiera, ridisegnata sul modello di quella cubana, è costituita da capelli donati da cittadine e cittadini dell’isola. Cuciti meticolosamente per mesi, i capelli, in quanto tessuto organico e personale, diventano una manifestazione di unione in un gesto che funziona politica- mente. A livello mondiale, la bandiera si configura come uno dei principali simboli dell’identità di una nazione e ne dichiara la sua unità politica, sociale ed economica. Decidere di rielaborarla, in forma collettiva, assume un doppio significato: se da un lato costituisce un tentativo di riappropriazione del potere di cui il popolo è stato privato, dall’altro rappresenta lo stendardo funebre di tutte le contraddizioni irrisolte di Cuba.
Indagare l’estetica del potere – i mezzi con cui esso si diffonde, le immagini che ne diventano simbolo – vuol dire proprio questo, ed Estadística risulta essere una delle prime opere in cui Bruguera apre un varco parallelo ma differente rispetto a quello istituzionalizzato. L’opera inoltre ha fatto da sfondo a una performance, El peso de la culpa (Il peso della colpa) (1997), durante la quale l’artista ingeriva delle palline di acqua e terra: un’allusione al suicidio di massa degli indigeni durante il periodo della colonizzazione, posta in relazione alla situazione socio-politica di Cuba.
“Il lavoro rende liberi”: sono queste le parole poste all’ingresso di molti campi di concentramento nazisti, tra cui Auschwitz. Tratta dall’omonimo romanzo di Lorenz Diefenbach, la frase fu utilizzata per la prima volta a Dachau nel 1933: nel primo lager ideato dal regime nazista per i dissidenti politici, e in seguito diventato luogo di sterminio per ebrei, omosessuali, nomadi e testimoni di Geova, considerati in egual misura nemici del regime. L’opera propone una copia fedele – in scala 1:1 – dell’insegna posta all’ingresso di Auschwitz. Presentata nel 2010 per la Fiera d’Arte Contemporanea di Madrid (ARCO), fu ispirata dal furto della vera insegna avvenuto l’anno prima a opera di cinque giovani nel tentativo di rivenderla.
Bruguera propone una riflessione sul valore dell’oggetto, conferito in questo caso non dalle sue qualità ma dal potere storico, politico e mediatico che rappresenta, generando dunque un plusvalore. L’installazione viene attivata dall’intervento di un uomo intento a smerigliare l’insegna, ma l’azione risulta ambigua: il suo compito è distruggerla o ripararla?
L’atto performativo – riconducibile a un’azione lavorativa e alienante – costituisce la natura stessa dell’opera: mette a nudo le contraddizioni dei sistemi dittatoriali, basati su logiche di produzione e ordine, a scapito della dignità dell’essere umano.
Da circa un secolo Palestinesi e Israeliani sono protagonisti di conflitti che, nono- stante le diverse tregue proposte negli anni, non sembrano volgere verso un epilogo. Dal 1948 – anno in cui l’ONU dichiarava la nascita dello Stato di Israele – le guerre civili e gli attacchi terroristici non hanno fatto altro che inasprirsi.
A soffrirne maggiormente sono centinaia di migliaia di civili palestinesi, costretti a emigrare e permanere in campi profughi, a causa della decrescente disponibilità di territori a loro riconosciuti. Gaza, in particolare, si rivela come una delle zone più problematiche: una striscia di terra di 360 km 2, abitata da quasi due milioni di persone, appartenente ai Palestinesi, ma soggetta a un forte controllo da parte di Israele. Proprio a maggio di quest’anno Gaza è stata al centro di un altro bombardamento massiccio.
In Sin Título (Palestina, 2009) Bruguera crea uno scenario quasi decontestualizzante – il bianco predominante dell’ambiente in contrasto con il caos e la distruzione degli attacchi –, ma ci riporta immediatamente alle conseguenze di questi conflitti, ponendo due bare nere come unico elemento scultoreo. L’unificazione dei territori in un unico Stato sembrava a principio del secolo una delle soluzioni possibili. La proposta sembra quasi un’utopia, ma Bruguera ci ricorda qui l’urgenza di trovare una soluzione diplomatica e pacifista, per il bene di entrambi i popoli.
L’opera è la rielaborazione della celebre Sin Título (Habana, 2000) realizzata per la Bienal de la Habana e censurata dal governo cubano il giorno dell’inaugurazione. La scena sembra inospitale: la galleria è buia e satura dell’odore acre delle canne da zucchero in fermentazione. Ad accoglierci sono tre performer cubani che, a voce alta, elencano i nomi degli oltre cinquecento prigionieri politici a Cuba oggi. Le ingiuste incarcerazioni sono dovute soprattutto alle manifestazioni pacifiste dell’11 e 12 luglio, quando molti cittadini sono scesi in strada per protestare a causa delle insufficienti risorse sanitarie contro il Covid-19, e ai movimenti 27N e di San Isidro in difesa della libertà di espressione. Le manifestazioni sono state represse dalla polizia di stato che, ad oggi, omette il numero di feriti e incarcerati, nel disinteresse della comunità mondiale. Tra i prigionieri compaiono molti artisti, motivo per il quale Bruguera ha invocato, attraverso i social, il boicottaggio della Bienal de la Habana 2021. Anche Bruguera, considerata una dissidente e detenuta più volte in passato, ha subito settimane di vigilanza e interrogatori.
La prima versione dell’opera era simile nell’estetica ma non nello svolgimento: i performer apparivano muti e persi in movimenti automatici mentre un televisore mostrava immagini di Castro. Ventun anni dopo, si è deciso dunque di dare voce ai cittadini e identità ai “dissidenti”.
I seguenti concetti si riferiscono a momenti particolari dell’attività artistica di Tania, ma possono essere adattati anche a opere del passato in retrospettiva. Si concludono, si trasformano e riemergono, quindi, pur confluendo l’uno nell’altro, è possibile tracciarne una linea cronologica.
Arte de Conducta (Arte del comportamento) è un termine coniato da Bruguera intorno al 1999 per descrivere un’arte che utilizza come materiale il comportamento umano, l’atteggiamento sociale e la mentalità. Consiste nel presentare una situazione che sfida gli osservatori a diventare cittadini attivi, chiedendo loro di servirsi di azioni per trasformare il comportamento umano.
La reazione del pubblico è ciò che completa, finisce, continua e dà significato all’opera. L’artista è una provocatrice. L’opera non è fatta di elementi materiali rappresentati in uno spazio, bensì consiste nell’effetto scaturito da questa esperienza, ossia il pro- cesso derivante dal cambiamento di comportamento. Le opere dell’artista invitano il pubblico a mettere in discussione e disimparare i comportamenti normativi. Non hanno lo scopo di risolvere problemi specifici, ma pongono un dilemma in cui vengono sperimentati nuovi comportamenti e immaginare possibili scenari futuri.
Il concetto di Arte Útil è nato intorno al 2002–2003, quando Bruguera ha iniziato a realizzare le sue opere principalmente per, e con, un pubblico non specializzato. Arte Útil è traducibile letteralmente in italiano come “arte utile” e non consiste nella realizzazione di un oggetto, ma ha per principio l’arte come dispositivo o strumento di un processo di implementazione sociale. L’Arte Útil vuole trasformare alcuni aspetti della società attraverso l’arte, trascendendo la rappresentazione simbolica o il suo significato metaforico e proponendo delle soluzioni per colmare alcune lacune nella realtà attraverso le azioni: immaginare e creare un mondo diverso. Questa metodologia di lavoro trasforma l’impatto sociale in efficacia politica attraverso utopie realizza- bili, privilegia benefici e azioni e mette in secondo piano la produzione di opere. L’Arte Útil non vuole trovare una soluzione ai problemi per migliorare l’efficienza del sistema, bensì crearne uno completamente nuovo. La maggior parte delle opere di arte utile sono quindi progetti di ampio respiro, le cui modalità operative sono dettate dall’impatto pratico delle strategie messe in campo.
Il concetto di Est-Etica è stato sviluppato da Bruguera nel 2012 in risposta a una domanda della storica dell’arte Claire Bishop: “Dov’è l’estetica nella sua arte?”. In spagnolo, come pure in italiano, la parola “estetica” contiene il termine “etica”, pertanto la risposta alla domanda di Bishop è la creazione del neologismo “Est-Etica”. L’Est-Etica propone una visione dell’estetica come costruzione e implementazione di un nuovo ecosistema etico funzionale, in cui la comprensione dell’estetica non è più un’esperienza visiva ma etica. Quando si parla di Est-Etica, l’esperienza estetica si presenta dopo uno shock etico; significa comprendere che ciò che prima sembrava impossibile cambiare nella società può in realtà essere modificato. Non è una rappresentazione, ma una presentazione e affermazione delle possibilità di cambiamento sociale. È la capacità di fare qualcosa grazie all’energia gene- rata dall’opera d’arte. È l’affermazione che l’etica può avere un effetto estetico: si tratta di analizzare, mettere in discussione e ricercare la funzione trasformativa della bellezza dell’estetica.
Artivismo è un termine già esistente, che Bruguera utilizza per definire un progetto che non è né arte, né attivismo, bensì l’unione di entrambi i concetti e al contempo altro. L’adozione dell’Artivismo da parte di Bruguera è il risultato di una ricerca di giustizia sociale e della posizione attivista di difesa dell’arte come agente di cambiamento sociale. Per Bruguera, l’Artivismo è il linguaggio della sfera pubblica contemporanea, la denuncia di un’urgenza sociale all’opinione pubblica, l’utilizzo di un linguaggio creativo e di nuove strategie. L’attivismo tradizionale tende a replicare ciò che in passato ha funzionato, ancorandosi a un lignaggio politico chiaro e reiterando cliché quali marce, cartelli o pugni alzati. Ma presumibilmente chi è al potere ha già elaborato strategie “anti-attiviste” contro questo tipo di protesta. Quindi, anziché aderire a schemi tradizionali, l’Artivismo può cogliere di sorpresa, perché l’azione creativa è qualcosa di inaspettato, che previene ogni reazione.