Yuri Ancarani
LASCIA STARE I SOGNI
04.04 - 11.06.2023
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a cura di Diego Sileo e Iolanda Ratti

 

Dal 4 aprile il PAC presenta LASCIA STARE I SOGNI la prima mostra monografica in Italia dedicata alla ricerca visionaria e poetica di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972), le cui opere nascono da un’originale e accurata commistione fra cinema documentario e arte video. Con lo stesso sguardo lucido e imparziale che contraddistingue da sempre il punto di vista dell’artista, l’esposizione si propone di far emergere gli aspetti più autentici della SUA produzione, rivelandone le diverse sfumature e i codici linguistici attraverso una vasta selezione di lavori del passato e una nuova opera pensata appositamente per il PAC.

 

 

Il titolo della mostra, Lascia stare i sogni, è una citazione tratta dal suo ultimo film, Atlantide: è la frase che il protagonista Daniele dice alla giovane fidanzata Maila, e che diventa un invito a vedere la mostra senza far riferimento a quei sogni che spesso l’industria cinematografica è solita evocare.

 

Per la prima volta i film di Ancarani, presentati nei maggiori festival e nei più prestigiosi musei d’arte contemporanea del mondo, si potranno vedere riuniti in una sola sede, grazie ad una selezione che va dagli esordi ai giorni nostri. Immagini in movimento impalpabili, che esistono e si muovono in ogni ambito, attraversando i confini stabiliti tra arte visiva e cinema.

 

Promossa dal Comune di Milano - Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra è curata da Diego Sileo e Iolanda Ratti, realizzata in partnership con il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna ed è evento di punta di Milano Art Week (11 – 16 aprile 2023).

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Yuri Ancarani è nato nel 1972 a Ravenna ma vive e lavora a Milano. Le sue opere nascono da un'originale e accurata commistione fra cinema documentario e arte contemporanea.
Artista vincitore del premio ACACIA 2023, Ancarani ha esposto i suoi lavori in prestigiosi musei e mostre nel mondo tra cui Kunstverein Hannover (Germania), Castello di Rivoli (Rivoli Torino, Italia), Manifesta 12 (Palermo, Italia), Kunsthalle Basel (Basilea, Svizzera), 55° Biennale di Venezia, Centre Pompidou (Parigi, Francia), Hammer Museum (Los Angeles, USA) e Palais de Tokyo (Parigi, Francia), ricevendo anche numerosi riconoscimenti come il "Premio speciale della giuria Cl+" Cineasti del presente, 69° Locarno Film Festival (Locarno, Svizzera), il "Grand Prix in Lab Competition", Clermont Ferrand Film Festival (Clermont Ferrand, Francia) e arrivando tra i finalisti del David di Donatello 2022 per il miglior documentario.

 

Photo: Yuri Ancarani, Il Capo, 2010. Film still. Courtesy Studio Ancarani

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Con il sostegno di

 

Info e orari d'apertura
da martedì a domenica ore 10—19:30
Giovedì ore 10—22:30
Lunedì chiuso
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Eventi

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Tra le voci più singolari nel contesto italiano che operano sul crocevia tra cinema e arte, il lavoro di Yuri Ancarani è una geografia immaginifica di frammenti che indagano regioni poco visibili del reale, in cui l’artista si addentra in prima persona.

Le sue opere non partono da una sceneggiatura precisa, i suoi film sono espressioni di intuizioni che determinano l’atto stesso della ripresa e del montaggio. Nel toccare aspetti legati alle dinamiche del lavoro, ai traumi della società moderna e al fallimento del capitalismo, Ancarani attinge a un ampio vocabolario di riferimenti spaziando dal cinema dei maestri, tra cui Antonioni e Iñárritu, alle finzioni del cyberpunk giapponese degli anni Ottanta. La letteratura di Pier Vittorio Tondelli, i paesaggi fotografici di Luigi Ghirri e i mosaici bizantini di Ravenna, sua città natale, fanno parte dell’immaginario dell’artista.

Lascia stare i sogni – titolo della mostra che fa il punto di oltre vent’anni di produzione di Yuri Ancarani – è una citazione da Atlantide, ultimo lungometraggio dell’artista, ed è un invito a cogliere con lucidità le diverse sfumature del reale, anche quelle più sommerse.

Seduzione, distrazione, disorientamento sono solo alcune delle modalità adottate da Yuri Ancarani per entrare in risonanza con lo spazio espositivo. Attraverso ritornelli visivi di materiali e forme crea coreografie pittoriche che agiscono sul visitatore amplificandone la sensorialità.

Il corpo dello spettatore e la sua relazione con la tecnologia sono gli strumenti impiegati da Ancarani nella ridefinizione reciproca tra film e arti visive. Nelle sue opere si concretizza un’espressione quasi scultorea dell’immagine in movimento, emancipando la proiezione dalla tradizione classica cinematografica.

SALA 1: IL CAPO

La mostra si apre con uno dei lavori più significativi di Yuri Ancarani, punto di svolta nella sua pratica: Il Capo (2010), che riassume le intuizioni stilistiche che contraddistinguono la fluidità delle riprese e il lavoro di riduzione all’essenziale tra immagine e suono nella narrazione cinematografica. ■ Parte della trilogia La malattia del ferro (2010–12), il film è ambientato all’interno di una cava di marmo delle Alpi Apuane e ruota attorno al rapporto tra uomo e macchina nel paesaggio. Il capo cava
è descritto mentre dirige le operazioni di taglio, sollevamento e spostamento dei materiali rocciosi, in un tacito monologo che si esprime unicamente attraverso gesti codificati. La voce umana è sostituita da quella dei macchinari in movimento, in un logorio meccanico che restituisce la brutalità della situazione descritta. La narrazione mostra i dettagli del viso, delle mani e del petto dell’uomo insieme a riprese in cui la figura è immersa nel paesaggio. Il suo corpo è a tratti circoscritto nella bidimensionalità bianca e riflettente delle superfici di marmo, mentre in altre inquadrature è posto nell’imminenza del vuoto di un dirupo, in un continuo sforzo di sintonizzazione tra scale e volumi differenti. ■ Nello svolgersi del film, il lessico gestuale dell’individuo (simile a quello di un direttore d’orchestra) si fonde con il linguaggio delle riprese adottate da Yuri Ancarani, dove l’azione impartita determina una stasi o una brusca accelerazione degli eventi condizionando la narrazione visiva. L’immagine assume dunque un connotato fisico e la continua relazione tra sfondo e azione pone l’osservatore in un confronto diretto con i confini del fotogramma. Il film si articola inoltre lungo una serie di linee: quelle ortogonali legate ai tagli dei volumi del marmo e quelle più frastagliate delle spaccature del minerale, alternando sensazioni contrastanti di contenimento e rilascio fino alla ripresa aerea sulle cime delle montagne con cui si conclude l’opera. ■ Le immagini sono proiettate a parete in grandi dimensioni in stretto dialogo con l’architettura dello spazio, che per l’occasione viene trasformato dall’artista in una clessidra temporale percorribile dallo spettatore. ■

SALA 2: DA VINCI

Attraversando una tenda rossa, lo spettatore è nuovamente posto di fronte a una sezione di pavimento ricoperta da una moquette blu che introduce la presenza di uno schermo su cui è proiettato l’ultimo capitolo de La malattia del ferro: Da Vinci (2012). ■ La prima immagine è quella di un organismo che pulsa, irradiato da capillari all’interno di membrane che vengono penetrate da pinze e beccucci metallici. I colori sono tutti virati sulle tonalità fredde del blu e l’inquadratura è leggermente instabile. Non è chiaro se si tratti di un film science-fiction o di un’esperienza iperreale. Ciò a cui si assiste è invece un feed video ad alta definizione di un’operazione realizzata con un sofisticato sistema chirurgico “da Vinci Si”. La tecnologia microinvasiva offre una visione ingrandita dell’area, dove il chirurgo manipola gli strumenti da una console esterna annullando qualsiasi contatto diretto con il corpo del paziente, mentre il suono espande il senso di attesa e timore che accompagna l’evento. ■ L’approccio documentaristico adottato da Yuri Ancarani continua la sua esplorazione del rapporto esistenziale tra uomo e tecnologia. In Da Vinci il chirurgo e lo strumento operatorio sono descritti come un’entità sinergica e, rivisitando le relazioni di opposizione tra uomo e macchina del primo periodo moderno, l’opera di Ancarani può anche essere collegata alle pratiche performative degli anni Settanta, che sfondavano i limiti tra corpo e dispositivo elettronico. ■ Nel video, presentato anche alla 55° Biennale d’Arte di Venezia, si osserva una “danza meccanica” altamente equilibrata. Come per gli altri due film (Il Capo e Piattaforma Luna) che formano la trilogia, l’attenzione è posta sulla rigorosità dei gesti coreografati che compongono il processo di lavorazione di mestieri specializzati. ■

SALA 3: PIATTAFORMA LUNA

Piattaforma Luna (2011) è girato all’interno di una camera iperbarica dove un gruppo di sei sommozzatori specializzati in lavorazioni a grande profondità svolge un’operazione off-shore condotta sulla piattaforma Luna. Per settimane la vita dei subacquei si svolge tra questo spazio e il fondo del mare, a 100 metri di profondità. A differenza di Il Capo, ambientato in una cava di marmo, le scene mostrano un luogo del tutto innaturale caratterizzato da una serie di condotti valicabili e varchi a tenuta stagna dal sapore fantascientifico. Nel video ogni movimento è vincolato alla specificità dell’ambiente, dove anche le azioni più quotidiane sono messe in discussione, definendo una nuova “normalità”. ■ Le riprese a camera fissa consolidano un clima di sospensione generale, mentre l’insistenza sulla centralità dell’inquadratura aumenta la dimensione di sorveglianza a cui gli individui sono sottoposti durante l’intero periodo. Nel video i dialoghi si esauriscono in una serie di comandi provenienti da una sala esterna alla struttura, che guidano i gesti dei sommozzatori nelle manovre, le loro risposte giungono però storpiate dall’elio presente nella camera iperbarica. Anche in quest’opera il linguaggio è veicolo di movimento: conduttore di cause ed effetti imprevedibili, è messo in relazione con l’ambiente claustrofobico, materializzando la presenza del gas altrimenti impercettibile all’osservatore. Una volta usciti con lo sguardo dalla cabina, l’immagine diventa sempre più astratta e le riprese oscure dei fondali marini, accompagnate dalla traccia audio del musicista australiano Ben Frost, ricollegano la narrazione alla fase meditativa con cui si apre il film. ■

SALA 4: SAN VITTORE, SAN SIRO, SAN GIORGIO

San Giorgio, San Siro, San Vittore

Nella sala 4, Yuri Ancarani presenta la sua seconda trilogia Le radici della violenza (2014–in corso) e prima ancora di entrare nella stanza dove sono proiettati su due schermi diversi in modo alternato i film San Siro (2014) e San Vittore (2018), su un monitor è trasmesso San Giorgio (in corso), ultimo episodio della serie. I titoli dei tre lavori evocano allo stesso tempo dei santi della tradizione cristiana e tre luoghi emblematici della contemporaneità: lo stadio, la prigione e la banca, in questo caso quella di San Giorgio, risalente al XVII secolo. ■ Le riprese sono caratterizzate da toni freddi e scostanti in netta contrapposizione con la lucentezza dell’oro dei lingotti nelle casseforti, in uno sforzo dichiaratamente manieristico. Addentrandosi nelle sequenze si scopre ciò che è celato all’interno delle minuziose procedure di vigilanza: la distruzione dei registri cartacei delle transazioni che determinano il valore del metallo prezioso. Al contrario delle immagini, la colonna sonora diffonde un senso di scoperta e svelamento che entra in risonanza con l’occultamento proveniente dalla descrizione visiva. ■ L’opera è un work in progress, e anche se il suo status è ancora in divenire Ancarani decide di esporla insieme alle altre sue produzioni, dando luogo a un senso di indeterminatezza nel racconto espositivo. Nel 2019 per la sua personale al Castello di Rivoli il video era trasmesso privo di audio, sempre su uno schermo al plasma, e come una sorta di estensione della bidimensionalità della superficie pittorica, le immagini scorrevano in uno scenario a tratti sinistro. ■ Come un corpo dismesso nel grigiore della città di Milano, San Siro (2014) racconta invece i momenti che precedono l’inizio di una partita nell’omonimo stadio. Tombini, cavi elettrici, serrature e gradinate sono lo scheletro della struttura calcistica, il cui “stomaco” è disseminato da griglie di pannelli luminosi che favoriscono la manutenzione dell’erba. Se nelle riprese Ancarani descrive operazioni di routine di controllo e preparazione del campo, con il suono – cadenzato dall’esplosione dei petardi usati per allontanare i piccioni dal prato – imprime l’eco del vuoto che di lì a poco, con l’inizio del gioco, viene riempito dall’energia dei giocatori e della tifoseria. ■ Lo stadio è descritto nel suo essere un dispositivo architettonico, fatto da rampe simili a fili elettrici e da blocchi di cemento che rimandano a schede hardware, mentre i rumori della città entrano rimbalzando sui corpi delle persone che si muovono in attesa del frastuono del match. Luogo iconico, la struttura è stata oggetto di diverse opere filmiche, tra cui l’ironico Video – Stadio, 1997 di Paola di Bello e l’omonimo San Siro, 2000 di Grazia Toderi, incentrato sul rapporto tra televisione e media. Presentato in veste allestitiva per la prima volta a Roma in occasione del premio MAXXI, il video di Ancarani è un’immagine eloquente del corpo sociale. ■ Parte della trilogia Le radici della violenza, nell’opera traspare nuovamente la centralità di aspetti legati a forme di comunicazione. ■ Esposto come complementare alla proiezione di San Siro, San Vittore (2018) prosegue le indagini di Ancarani sulla messa in scena delle diverse sfaccettature della violenza e del “trauma” nel quotidiano, esplorando l’esperienza infantile all’interno delle carceri. L’artista con attenzione clinica si sofferma sulla descrizione dei controlli di sicurezza a cui sono sottoposti i minori per visitare i propri genitori all’interno di San Vittore. Nuovamente Ancarani mette a fuoco un momento specifico delle procedure del carcere per rimandare alla sua struttura complessiva. Evadendo retoriche narrative precostituite, la prigione è descritta attraverso alcuni dei suoi elementi di contenimento: i muri, le finestre sbarrate e il metal detector. ■ Gli individui che compaiono nelle scene sono senza volto e voce, e ai dialoghi subentrano le scritte dei disegni dei bambini che ritraggono il carcere. Realizzati durante alcuni workshop dell’associazione Bambinisenzasbarre, che lavora allo scopo di tutelare i rapporti familiari nella struttura circondariale, le rappresentazioni riflettono l’immaginario infantile trasformando la prigione in un castello incantato con principi e mostri. Ancarani decide di affidare ai disegni dei bambini il racconto di San Vittore, in un dialogo di impressioni reciproche tra illustrazione e fotogramma. ■ La semplicità dell’approccio visivo con molti dettagli e inquadrature statiche, coniugato a un distintivo sound design firmato dallo storico collaboratore Mirco Mencacci, restituisce un impatto assolutamente sorprendente dell’opera. ■

SALA 5: IL POPOLO DELLE DONNE

Marina Valcarenghi, laureata in giurisprudenza, giornalista e attivista politica negli anni Sessanta e Settanta, e psicoanalista in carceri nei reparti dedicati alle violenze sulle donne, è il soggetto dell’ultimo lavoro prodotto da Ancarani per la retrospettiva al PAC. La sua voce si estende in un monologo della durata di circa 45 minuti, mentre le riprese la descrivono seduta a una cattedra con dei fogli, una bottiglia e un orologio da polso nel cortile della Legnaia dell’Università degli Studi di Milano, dove lei stessa aveva intrapreso il percorso accademico. Il colonnato che contraddistingue l’architettura divide l’immagine in una simmetria centrale, a sottolineare la polarità narrata. ■ Le sue parole ripercorrono letture di testimonianze di tribunali, discorsi astrattamente teorici e ferite di vita legate alla sua esperienza sul campo, facendo emergere le paure della società legate alla dicotomia tra donna e uomo e lo sfociare di violenze private che hanno un eco nella dimensione pubblica e politica quotidiana. La sua immagine è mostrata da tre angolazioni differenti in un lungo avvicinamento dal mezzo busto in cattedra al suo sguardo, a creare un cortocircuito con gli occhi chiusi di Albània Tomassini, che in un altro film di Ancarani (Seance, 2014), come una medium parla con lo spirito dell’architetto Carlo Mollino. La voce contraddistingue le presenze femminili in entrambi i lavori, e il loro esprimersi dimostra l’urgenza del racconto. ■ Il popolo delle donne, titolo del video, è una delle frasi pronunciate da Marina Valcarenghi nel monologo girato in presa diretta, in cui si sentono anche i suoni di un campanile e i rumori di sottofondo dell’università. ■ L’opera prende i tratti di un documentario sulla società contemporanea, e offre uno scorcio del reale volto verso il futuro in un parallelismo che rimanda ai movimenti anti-sistemici degli anni Sessanta. ■

PARTERRE: RICORDI PER MODERNI

La serie dei primi video dell’artista – girati tra il 2000 e il 2009 – raggruppata con il titolo Ricordi per moderni (2012), si dispiega longitudinalmente nello spazio su otto schermi collocati di fronte alle vetrate oscurate dello spazio espositivo. Sullo sfondo compaiono in trasparenza frammenti di quotidianità, che si relazionano con le immagini dei filmati in un montaggio in tempo reale tra luoghi e tempi diversi, creando una vertigine malinconica della città. ■ Il progetto Ricordi per moderni evoca ironicamente una società che si è lasciata alle spalle le sue tradizioni, scambiandole con un’idea di progresso ormai arresa alla desolazione e allo sfruttamento del paesaggio. Il lavoro prende spunto dallo stile di prosa di Pier Vittorio Tondelli (1955–1991) nel restituire sulla pagina quello che lui stesso chiamava “il suono del linguaggio parlato”, cercando di trasmettere l’esperienza orale nella riscrittura con termini linguistici forti e diretti. ■ Ancarani è dunque reporter e narratore delle circostanze con cui entra in contatto spaziando in ambienti disparati della riviera romagnola: dalle zone industriali con petrolchimici alle paludi, dalle spiagge di Rimini alle celebrazioni domestiche. Cartoline di luoghi prossimi a un vissuto disarmante, i video raccontano esperienze dai tratti onirici e surreali, dove la vita scorre nell’enfasi di una normalità carica di impulsi contraddittori. Nei diversi capitoli che si susseguono compaiono zone periferiche immerse nella solitudine, lagune e insenature naturali, insieme a strade e lidi affollati da languide presenze. La riviera romagnola è descritta come incubatrice di destini, con atmosfere a tratti ambigue o retoriche, ciascuna introdotta dai titoli che definiscono i video della serie qui esposti: Rimini (2009), Made in Italy (2009), In Dio Noi Crediamo (2008), Aranci Mantra (2007), Baal (2007), Invito al Desiderio (2006), Parcheggi a pagamento (2005–2012), Fuori Stagione (2005–2012), Isole d’Acciaio (2005), Lido Adriano (2004), Vicino al cuore (2003), IP OP (2003), La questione romagnola (2002–2012). ■

GALLERIA: THE CHALLENGE

Yuri Ancarani investe gli spazi della galleria del PAC di un tempo molto più dilatato rispetto alle altre stanze espositive, trasformandole in luoghi di visione per due dei suoi maggiori lungometraggi. Tra le numerose produzioni di Yuri Ancarani, The Challenge (2016) si contraddistingue per i forti caratteri cinematografici a cui implicitamente rimanda: da Gli Uccelli (1963) di Alfred Hitchcock nei titoli d’apertura, a 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick, dove il monolite nero diventa il profilo di uno schermo al LED nel deserto, fino al documentario Lessons of Darkness (1992) di Werner Herzog in cui la stranezza del paesaggio è raccontata da un punto di vista alieno. ■ In The Challenge le immagini ci portano nel deserto del Qatar durante i preparativi di una competizione di falconeria che racconta gli eccessi della società qatarina. Le scene si articolano attorno alla descrizione di alcune attività di intrattenimento delle diverse comunità maschili che gravitano attorno al culto della motocicletta, le corse in auto, le gare di falconeria, fino all’immagine surreale di un uomo con un ghepardo al guinzaglio su una Lamborghini che sfreccia nel deserto. Il film scorre lungo sequenze rigorose realizzate con l’uso frequente di fotogrammi basati sulla simmetria dell’asse centrale dell’inquadratura, insieme a momenti in cui la visione diventa frammentata e la camera, posta sulla testa del falco, restituisce prospettive taglienti e ansiose. La colonna sonora, composta da Lorenzo Senni e Francesco Fantini, apre invece a momenti orchestrali più dilatati. ■ Luogo di mistero e di memorie, il deserto appare in produzioni video di forte attualità che, come The Challenge, offrono una rilettura dei traumi e delle amnesie del quotidiano. Tra tutti l’iconico film dell’artista francese Dominique Gonzalez-Foerster Atomic Park (2003), girato nel deserto del White Sands in New Mexico, dove nel 1945 è stata testata la prima bomba atomica, e il più recente Everything but the World (2021) del collettivo artistico DIS, che attraversa le ere evolutive dell’uomo affrontando la complessità dell’esistenza globale degli esseri umani. ■

GALLERIA: WHIPPING ZOMBIE

Percorrendo la balconata, dove sono esposti i poster realizzati dall’artista in occasione delle uscite cinematografiche di ciascun lavoro, si raggiunge la seconda sala di proiezione dove si trova Whipping Zombie (2017). Nel lavoro i limiti tra cinema etnologico e documentario sembrano annullarsi in una silenziosa coesistenza tra artificio e memoria. Il video ritrae per la prima volta il cosiddetto “Kale Zonbi”, o l’omonima danza tradizionale “Whipping Zombie”, in cui gli abitanti di un villaggio sperduto di Haiti compiono gesti che rievocano dinamiche di violenza coloniale fino ad arrivare a stati di trance. Il rituale, basato sulla reiterazione di percussioni e flagellazioni, è una forma di esorcizzazione di un passato non troppo lontano. Ancora più straniante è il parallelismo ritmico e gestuale delle sequenze che mostrano azioni quotidiane (come il riciclo del metallo dei barili), i cui caratteri ripetitivi ricalcano perversamente quelli dei maltrattamenti. Un senso mortifero accompagna tutto il film, inframmezzato dalle riprese di lapidi nel cimitero locale in piena contraddizione con le immagini di una natura paradisiaca dei titoli di coda. ■ L’opera esplora le trasformazioni contemporanee di pratiche di memoria in relazione alle ferite della storia. Le sperimentazioni di Yuri Ancarani sono coeve a quelle di altri filmmaker internazionali della sua generazione, come il regista britannico Ben Rivers, nelle cui pellicole compaiono paesaggi remoti popolati da apparizioni aliene e spaesanti, e l’artista francese Neïl Beloufa, che nei suoi video crea forme narrative ibride, tra documentario e fantascienza. Queste pratiche raccontano il mondo reale attraverso simbolismi e mitologie e tramite figure iconiche.

BIOGRAFIA

YURI ANCARANI (Ravenna, 1972) è artista e filmmaker che vive e lavora a Milano. La sua pratica si concentra sulla sperimentazione del medium video che impiega in una continua commistione tra cinema documentario e arte contemporanea. Il suo lavoro si sviluppa attorno a un’attenta composizione tra immagini e suono, in cui spesso corpi, spazi e tecnologie si intrecciano.

Le sue opere sono state presentate in numerose mostre e musei nazionali e internazionali, tra cui: MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna (mostra visitabile fino al 7 maggio 2023); Kunstverein Hannover; Castello di Rivoli; Kunsthalle Basel; 55° Biennale d’arte di Venezia; CAC Centre d’Art Contemporain Genève; Centre Pompidou; Hammer Museum (Los Angeles, USA); Palais de Tokyo.

I suoi film sono stati presentati in diversi Festival, tra i quali: Locarno Film Festival; Viennale; 67° e 68° Festival del Cinema di Venezia; IFFR International Film Festival Rotterdam; 23° IDFA International Documentary Film Festival Amsterdam.

Ha inoltre ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui: “Premio speciale della giuria CINÉ+” Cineasti del presente, 69° Locarno Film Festival; cinque nominations ai Cinema Eye Honors, Museum of Moving Image; “Grand Prix in Lab Competition”, Clermont Ferrand Film Festival. Nel 2022 è stato finalista per il miglior documentario ai David di Donatello.

Guida alla mostra