Inaugurata nel 2010 al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea la grande retrospettiva di Armando Testa, che riportava alla ribalta il lavoro di questo poliedrico artista. La mostra presentava un aspetto meno noto della sua opera, quello della sua attività di designer, in concomitanza con gli eventi targati Salone del Mobile che hanno animato Milano nella settimana dell’inaugurazione.
 
L’iniziativa ha arricchito una serie di importanti antologiche del maestro: le retrospettive presentate al Museo del Castello di Rivoli e a Castel Sant’Elmo a Napoli nel 2001; la mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di Londra nel 2004. Armando Testa è stato nuovamente protagonista al PAC, dopo la personale che gli era stata dedicata nel 1984, ormai già universalmente riconosciuto come grande creativo e padre della pubblicità italiana.
 
Curata da Gemma De Angelis Testa e da Giorgio Verzotti, la mostra non è stata una mera celebrazione dell’estro del grande pubblicitario, autore di personaggi e situazioni da tempo entrate nell’immaginario collettivo di gran parte degli italiani; ha voluto, piuttosto, lasciar emergere alcuni aspetti meno considerati della creatività del grande maestro, dando spazio alle sue realizzazioni come progettista di oggetti, connotati dall’ironia e dalla fantasia che caratterizzano ugualmente la sua attività nell’ambito pubblicitario.
 
Armando Testa è stato infatti anche un designer, come dimostrano gli elementi di arredo presenti in mostra, e molte sue idee grafiche dovevano – come testimoniano i progetti – arrivare a uno sviluppo plastico. Questa tensione ha accompagnato tutto il lavoro di Testa, sia quello più specificamente dedicato alla pubblicità sia quello più libero e praticato parallelamente, nella sua attività di pittore e scultore.
 
L’interesse di Testa per l’arte visiva, l’architettura e il design condiziona sin dalle origini la sua attività: il primo manifesto importante ICI, datato 1937, si rifà esplicitamente all’astrazione geometrica. Esso era presente in mostra insieme a una campionatura delle maggiori invenzioni effettuate nel corso di almeno cinquant’anni di attività, prima da solo e poi a capo di un’agenzia che ha fatto storia nel linguaggio pubblicitario italiano e non solo, anticipando innovazioni formali e concettuali di importanti artisti contemporanei. La scelta delle opere ha permesso ai visitatori di verificare la “persistenza” della tensione verso la resa plastica del segno, cogliendo insieme l’evoluzione del linguaggio dell’artista: le sfere di Punt e Mes realizzate come bassorilievo, i personaggi conici di Carmencita e Caballero che hanno iniziato il cinquantennale connubio fra Armando Testa e Lavazza e che qui son diventate sculture accanto a diversi altri oggetti inediti, fino a giungere alle croci del 1990, vera reinvenzione del simbolo religioso.
 
Un altro aspetto poco noto è quello del disegno: Testa è stato un assiduo disegnatore, questa pratica accompagnava quasi interamente il suo tempo di lavoro, fino a consentirgli di realizzare una mole amplissima di piccole carte, che potremmo definire “appunti” in vista di realizzazioni maggiori. Una selezione molto stringata di disegni inediti a pastello o di acquerelli era parte integrante del percorso espositivo al PAC.
 
In mostra anche il cortometraggio che Pappi Corsicato ha dedicato ad Armando Testa dal titolo Povero ma moderno, presentato con successo e premiato alla Mostra Cinematografica di Venezia 2009. Il documentario, diretto da uno dei più inventivi registi italiani, vale come documentazione creativa dell’opera del maestro, introducendoci al lato umano di questo autorevole sognatore, alla sua ironia, alla sua fantasia, al suo anticonformismo.
 
Il catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, contiene i testi dei due curatori e i preziosi contributi di Germano Celant e del semiologo Ugo Volli.
 
Come di consueto si e svolto un programma di attività didattiche per il pubblico ideato e realizzato da MARTE.
L’attività espositiva annuale del PAC è stata realizzata grazie al sostegno di TOD’S.
La mostra è stata realizzata anche grazie al contributo di Lavazza e dell’agenzia Armando Testa, che collaborano insieme, forse unico caso in Italia, da più di 50 anni.
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CERAMICHE DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR (1919-33)
a cura di Tilmann Buddensieg
 
Vasi, brocche, tazze, tortiere, vassoi e altri oggetti d’uso in ceramica, per un totale di 400 pezzi, costituiscono un esempio di quella ricerca estetica e di quella rivoluzione produttiva che, durante la Repubblica di Weimar, segnarono le arti figurative e l’architettura.
 
La creazione di ceramiche per stoviglie si rivolge per la prima volta al vasto mercato popolare e si confronta con i problemi della produzione di massa. Come l’architettura popolare ha trovato in questi anni ii suo momento organizzativo e produttivo nelle cooperative edilizie, cosi la produzione di massa di oggetti d’uso in ceramica regola il rapporto tra produzione e mercato attraverso le cooperative di acquisto e vendita. I1 “Consorzio di Norimberga” del 1901 segna un importante momento di incontro fra gli imprenditori, l’organizzazione delle vendite e le idee di riforma degli artisti impegnati in una ricerca formale originale e rigorosa.
 
Gli esperimenti della Bauhaus, del movimento der Stijl e del Costruttivismo vengono adattati con naturalezza alla produzione di oggetti d’uso: forme panciute e, allo stesso tempo, gli stereometrici elementi di base della sfera, dei bricchi a cilindro. I recipienti non sono pia concepiti come unione di for ma organica, ma costituiti da singoli elementi, facilmente variabili con un molteplice, infinito sistema di decorazione che rifiuta la forma e la decorazione tradizionali.
 
Dalla ditta Villeroy & Boch, famosa per la sua produzione a tinta unita e particolarmente in azzurro, alla C. und E. Carstens che emerge per il caratteristico decoro in marrone a moduli geometrici, alla C. A. Lehmann und Sohn, che produce audaci combinazioni di colori, alla Bunzlau e altre aziende minori, la produzione tedesca della ceramica presentata al Padiglione d’Arte Contemporanea testimonia un momento produttivo di grande interesse storico ed una qualità di altissimo livello.
È DESIGN
 
L’esposizione intende mettere in luce attraverso i lavori di otto studi professionali, uno dei possibili significati della parola «design» ed individuare uno dei possibili ruoli dei designers in Italia, nella prospettiva degli anni Ottanta. Questi operatori hanno ormai raggiunto un tale livello di competenza che il loro compito non può più essere legato solo all’immagine, ma tende ad intrecciarsi a quell’intero processo di cui il prodotto è il punto d’arrivo. La categoria su cui si intende incentrare la lettura dell’itinerario che si propone è la «strategicità», il particolare ruolo cioè di sintesi e controllo esplicato dal designer nei diversi contesti.
 
Il percorso muove dall’ambiente (il rapporto design-architettura) – gli spazi aereoportuali di Malpensa e Linate – per indagarne lo scenario – le segnaletiche – e gli oggetti che lo popolano per arrivare all’interior – con la proposta di mobili connotati tecnologicamente e per immagine (la Dorsal e il Kit) e al design per la moda. I «grandi oggetti» del design per muoversi (l’auto, la barca, l’aereo) con le diverse connotazioni di alta-medio-bassa tecnologia, sono testimoniati dalla Panda, dall’Azzurra e dal Caproni CJ22.
 
Ad introduzione della manifestazione l’analisi del CSIL (Centro Studi Industria Leggera), una proiezione per iniziare a cogliere il meccanismo di domanda, offerta e impatto del design.
DESIGN: DIETER RAMS &
Dopo Berlino, Colonia ed Helsinki giunge a Milano al PAC la mostra dedicata alla attività e alla ricerca di uno dei più noti e impegnati designer tedeschi Dieter Rams.
 
Il nome Dieter Rams è legato strettamente al design dell’industria Braun AG. Egli infatti ha diretto la sezione design dell’azienda per 25 anni ed ha ispirato i suoi collaboratori soluzioni che hanno ottenuto riconoscimenti in campo internazionale.
 
Al fine di dimostrare l’apprezzamento di tali risultati ed al tempo stesso i continui sviluppi del design industriale, l’International Design Zentrum di Berlino ha realizzato nel 1980, in collaborazione con la Braun AG, una mostra itinerante intitolata Design: Dieter Rams &.
 
Nella mostra sono evidenziati i risultati ottenuti nel campo del design ed il processo creativo a tutti i livelli, non solo attraverso i prodotti realizzati, ma anche tramite disegni, i modelli di lavoro e gli strumenti di vari prodotti che non sono mai entrati nel programmi di produzione.
 
Questa parte della mostra tratta in particolare la vasta gamma di problemi con i quali si confronta un designer industriale, le soluzioni trovate sempre tenendo conto dell’utilità del consumatore, nonché l’importanza delle scelte tecniche e materiali.
 
Uno degli obiettivi che la mostra si pone è di chiarire il ruolo magari poco appariscente ma non di meno essenziale del design industriale, e ancora di renderlo familiare al consumatore, al quale è destinata l’accettazione di qualsiasi soluzione di design.
 
L’OGGETTO LAMPADA
a cura di Daniele Baroni, Ernesto Gismondi, Donatella Smetana.
 
Il percorso espositivo evidenzia anzitutto il significato che una mostra di oggetti familiari può avere, gli aspetti più rilevanti, sotto il profilo della forma e della funzione, che questi apparecchi del nostro panorama domestico hanno assunto nel tempo.
 
Ad un secolo di distanza da quanto la traballante luce delle prime lampadine elettriche è rimasta accesa per alcune ore, è forse opportuno soffermarsi a considerare il percorso tracciato e l’evoluzione delle esigenze costruttive ed estetiche.
 
Dalla necessità di protezione della fiamma dagli agenti atmosferici negli apparecchi a gas, il problema tecnico si sposta alla schermatura della luce elettrica, la cui intensità naturale è dannosa per l’occhio umano. Sul tema dello schermo adatto alle diverse esigenze, tecnici ed artisti propongono un ventaglio quasi illimitato di varianti, dall’inizio del secolo in poi.
 
Forma e funzione assumono alterna rilevanza in questa ricerca, si legano, come in tutti gli oggetti d’uso dell’uomo, alle avanguardie artistiche, alle trasformazioni della moda e del gusto, all’evoluzione tecnica nell’uso di nuovi materiali: dall’arricchimento delle valenza somatiche nelle lampade di Tifany, o in Gallé, con le citazioni poetico-naturalistiche, fino alla scarna rappresentazione e accentuazione della funzione in alcune lampade recenti, in cui l’apparecchio è semplicemente costituito da stelo di supporto e lampadina.
 
Ripercorrere questo itinerario, in un momento in cui l’energia elettrica diventa un bene sempre più prezioso, può costituire un momento di riflessione ed un affascinante scoperta.
LELLA E MASSIMO VIGNELLI DESIGNERS
 
Mobili, oggetti d’uso, imballaggi, allestimenti, segnaletica dei trasporti, architettura d’interni, immagine coordinata: è quasi impossibile trovare un ramo del design dove i Vignelli non hanno lasciato il segno, come documenta questa retrospettiva del PAC che è una sorta di bilancio o piuttosto un inventario della loro ventennale attività, prima in Italia e poi negli USA, del loro modo di lavorare e vivere “insieme”.
 
Lella e Massimo Vignelli, ambasciatori del design europeo negli USA ed in particolare di una versione “mediterranea” più agile ed elegante della grafica svizzera e tedesca, hanno sapientemente bilanciato e reso complementari nel loro lavoro a due, come in un’alleanza dialettica tra il possibile e il pratico, l’impulso dell’uno e il controllo dell’altro.
 
Nel 1960 i Vignelli hanno aperto uno studio di design e architettura a Milano; nel 1965 hanno iniziato a lavorare per la Unimark International Corporation; nel 1971 hanno ripreso l’attività professionale indipendente prima con la Vignelli Associates e poi con la Vignelli Designs (1978).
SORI YANAGI, DESIGNER. OPERE DAL 1950 AL 1980
 
Medaglia d’oro per la sezione del disegno industriale alla Triennale di Mialno nel 1957, Sori Yanagi, oltre che designer, è stato presidente del Mingei-kan, il museo dell’artigianato giapponese fondato da suo padre Soetsu, e nel suo lavoro unisce queste radici popolari con la pratica del disegno industriale.
In particolare un disegno che nasce da quello degli anni ’50 e che da esso si è sviluppato senza soluzione di continuità. Nessuna concessione alle mode.
La precisa posizione e coerenza di Yanagi assume un significato di provocazione che rende stimolante la mostra e ne dà la chiave di lettura.
La mostra presenta molti oggetti, piccole forme d’uso quotidiano, e una serie di progetti, in particolare ponti stradali e arredamenti urbani. In più, 34 pannelli fotografici, con forme simboliche dell’artigianato tradizionale giapponese; ovvero le radici di Yanagi.