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JE M’APPELLE OLYMPIA

 

La Project Room del PAC presenta la serie fotografica Je m’appelle Olympia di Alice Guareschi, in una nuova installazione site-specific pensata appositamente per il suo spazio.

 

Je m’appelle Olympia è un’azione per luci di sala eseguita da Alice Guareschi una volta sola, per un pubblico scelto di invitati, il 12 aprile 2012 all’Olympia Music Hall, l’iconico e leggendario teatro parigino. 

 

Le 16 fotografie che compongono la serie in mostra sono state scattate lo stesso giorno, subito dopo l’attivazione dal vivo della coreografia luminosa nello spazio vuoto del teatro, che ha coinvolto tutte e tredici le piste di luci colorate integrate in modo permanente nell’architettura. Con inquadratura fissa, simile ma non identica, seguendo la precisa partitura originale composta dall’artista, le immagini restituiscono una sequenza di diversi movimenti di luce all’interno della sala.

 

La serie fotografica diventa così una nuova sintesi dell’immagine-idea e dell’intenzione all’origine della performance: attivare un teatro senza alcuno spettacolo, suonarlo dal vivo, risvegliarne la memoria latente, la vita segreta sottratta allo sguardo dello spettatore. Scomponendo la durata dell’azione in fotogrammi che possono essere visti sia singolarmente sia nel loro insieme, la declinazione spaziale dell’opera permette ora di abbracciarne l’idea in un unico sguardo.

 

Accompagnano le immagini l’invito all’azione dal vivo e la partitura originale, punteggiata, sui righi, dai tempi e dai movimenti delle luci, che si sostituiscono alle note musicali in una complessa polifonia.

 

In occasione della mostra l’artista realizzerà extra-muros un’azione performativa inedita, nuova piéce unique questa volta sonora, ulteriore passaggio nella sua ricerca sensibile alla potenza immaginifica della sottrazione e del fuoricampo.

 

Alice Guareschi (1976) è artista visiva, vive e lavora a Milano. Laureata in filosofia con una tesi sul cinema sperimentale, articola la sua ricerca utilizzando formati e linguaggi differenti, come il video, la scultura, l’installazione site-specific e la parola scritta. È stata artista in residenza a Parigi al Pavillon du Palais de Tokyo e alla Cité Internationale des Arts; a Triangle, New York; a Kaus Australis, Rotterdam. Nel 2008 ha vinto la Borsa per la Giovane Arte Italiana degli Amici del Castello di Rivoli, e nel 2022 ha vinto il bando di produzione PAC2021 promosso dalla DGCC del Ministero della Cultura. Ha partecipato a mostre collettive e festival in Italia e all’estero, esponendo in istituzioni pubbliche e private tra cui: Fondazione Re Rebaudengo, Torino; Palais de Tokyo, Parigi; Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Torino; MAMbo, Bologna; GAMeC, Bergamo; Mart, Rovereto; Palazzo delle Esposizioni, Roma; Dunkers Kulturhus, Helsingborg; Fondation d’Entreprise Ricard, Parigi; Villa Arson, Nizza. Principali mostre personali: Galleria Alessandro De March, Milano; Galleria Sonia Rosso, Torino; Centre Culturel Français, Milano; Castello di Rivoli, Torino; Istituto Italiano di Cultura, Parigi; Microscope Gallery, Brooklyn; Galerie DREI, Colonia; Museo MAN, Nuoro; Spazio Treccani Arte, Roma. Film festivals e screenings: Filmmaker Doc Festival, Milano; Impakt Festival, Utrecht; Italian Cinema London Festival; Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro; Milano Design Film Festival; La Fondazione, Roma; Triennale di Milano; Macro, Roma.

BLUE DIAMOND

 

Dal 7 ottobre al 5 novembre 2023 la Project Room del PAC, in occasione della Diciannovesima Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI – Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani, presenta il ciclo di lavori dell’artista Rachele Maistrello dal titolo Blue Diamond, a cura di Claudia D’Alonzo: una ricerca sulla corporeità oltre i limiti dell’umano che ibrida fantascienza e archivio speculativo.

 

La narrazione ruota intorno alla vita dell’acrobata cinese Gao Yue高跃, da qualche anno protagonista della ricerca dell’artista. Maistrello inizia a seguirne le tracce nel progetto Green Diamond (2018-2021), nome dell’azienda produttrice di microchip capaci di suscitare artificialmente sensazioni naturali, come l’aria fresca nel volto o il sole sulla pelle. Gao viene assunta per testare i sensori e attivarli attraverso il proprio corpo.

 

Il ciclo esposto al PAC racconta le successive vicende dell’acrobata in veste di ricercatrice in ambito marino per la Blue Diamond, dove lavora per comunicare con i delfini e percepirne i suoni grazie alle capacità percettive sviluppate nelle esperienze precedenti.

 

Rachele Maistrello raccoglie un atlante di testi, video, immagini, suoni, fonti scientifiche e materiali prodotti ex-novo in una rielaborazione poetica che supera i dualismi tra animale e umano, naturale e artificiale. La mostra si compone di quattro lavori che presentano la sua ricerca per la prima volta in versione integrale: Blue Diamond Archive (2021- 2022), il video The Hidden Shapes (2022), l’installazione sonora The Silent World, in collaborazione con il compositore Simonluca Laitempergher, e il cofanetto Gao Yue (2023).

 

Blue Diamond è frutto di un lavoro condotto da Maistrello negli ultimi due anni e realizzato grazie al sostegno di diverse istituzioni: Nuovo Forno del Pane 2020 /MaMbo, Bologna; Lido Contemporaneo, Fano; Fano Marine Center; ADVANT Nctm; Premio Graziadei 2022 /MAXXI, Roma 2022; Premio Lydia 2022 / Fondazione Il Lazzaretto, Milano; Galleria Eugenia Delfini, Roma.

SEXUALLY EXPLICIT CONTENT

 

La Project Room SEXUALLY EXPLICIT CONTENT, a cura di Diego Sileo, presenta in anteprima la nuova opera di Silvia Giambrone. Un’installazione video molto forte, violenta e disturbante, che racconta un episodio di molestia sessuale subita dall’artista via web.

 

“Ricevere una dick pic – scrive l’artista – oggigiorno sembra non scandalizzare più nessuno. Succede quotidianamente a moltissime persone, uomini e donne, e sembra essere diventato un fenomeno sociale che non desta quasi nessuno scalpore dal momento che, probabilmente, essendo così abituati alle immagini pornografiche, dimentichiamo che fotografie e video di questo tipo sono, a ben vedere, vere e proprie molestie sessuali. Lo stalker che mi ha scritto per più di un anno mi ha mandato 46 video di lui che si masturba, oltre a scrivermi diverse oscenità”. Un’opera sicuramente provocatoria, ma che vuole innescare una riflessione più ampia sul potere delle immagini pornografiche nella nostra società, considerandole con maggiore attenzione, soprattutto rispetto all’impatto culturale e relazionale che queste hanno sulla realtà nella quale noi viviamo. La Project Room per il contenuto esplicito delle immagini è vietata ai minori di 18 anni.

LIKE RAIN FALLING FROM THE SKY

 

La Project Room, a cura di Damarice AMAO, ospita il lavoro del fotografo e artista visivo Nicola Bertasi Like Rain Falling from the Sky.

 

Per la sua durata, la sua intensità e la sua mediatizzazione la guerra americana in Vietnam (1961-1975) ha plasmato nel profondo l’immaginario visuale occidentale del secondo dopo guerra. Immediatamente dopo la sua fine, il conflitto resta come specchio delle tensioni del contesto geopolitico dell’epoca – guerra fredda, decolonizzazione, globalizzazione – ma anche della crisi identitaria che attraversa gli Stati Uniti, simbolizzata dai suoi veterani del Vietnam, tragici eroi che ossessionano l’industria cinematografica di Hollywood.

 

Ed ecco che ci sembra di avere visto tutto, ascoltate tutte le voci, fatto pienamente nostro il Vietnam confondendo films, immagini dell’attualità e icone mediatiche.
Cercando di andare al di là di questo immaginario in cui realtà e finzione si rincorrono, Like Rain Falling from the Sky di Nicola Bertasi cerca di tessere un’altra cartografia visuale della memoria, facendo dialogare il passato e il presente di un conflitto che ha marcato nel profondo i territori e i corpi vietnamiti.

 

Schivando le immagini choc del reportage classico, Nicola Bertasi fa la scelta di un tempo lungo necessario per un’inchiesta documentaria e un viaggio introspettivo. Ecco quindi che appaiono i visi e le voci dei protagonisti troppo spesso ridotti al silenzio, le immagini degli archivi che scivolano sulle fotografie contemporanee. Cosi Bertasi fa sua una narrazione fotografica sensibile, poetica e personale come alternativa all’impasse di altri racconti più ufficiali. Detective, storico e flaneur Bertasi assume quell’indispensabile parte di soggettività nel suo viaggio alla deriva fra i luoghi del conflitto vietnamita. Un’ avventurosa esplorazione della memoria che riattiva in lui il ricordo della sua storia famigliare, anch’essa stravolta dalla guerra, molto prima del Vietnam.

IL MUSCHIO E LA CARNE

 

Pochi conoscono il Giappone quanto o meglio di Igort, e meno ancora sono coloro che sanno raccontarlo. Di certo nessuno lo sa fare nel suo modo. La trilogia dei Quaderni Giapponesi è di fatto una grammatica dell’ estetica nipponica frutto di innumerevoli suggestioni, letture, incontri, in un inanellarsi di memorie e ispirazioni – naturale e fluido, violento e torbido, come del resto è la vita vissuta.

 

Il silenzio e l’eros, la purezza e la patina, il dettaglio e l’enormità, sono dualità senza dicotomie o contraddizioni nella visione del maestro del graphic novel, ed esplodono dai suoi taccuini e dalle sue tavole con fecondità impressionante.

 

Il risultato che si prefigge la mostra ibrida Il Muschio e la Carne. Anatomia dei sensi nel Giappone di Igort curata da Gabriele de Risi (GiapponeTVB) e Barbara Waschimps (L’Altro Giappone) in esclusiva per il PAC è di guidare lo sguardo del visitatore attraverso l’occhio di Igort, in una sorta di transfert metasensoriale fatto di contemplazione e esperienza.

 

L’esposizione nella Project Room si articola in 3 livelli comunicanti: l’universo nipponico di Igort attraverso la magistrale ricchezza nei registri narrativi delle tavole e dei quaderni; una selezione di alcune fonti di ispirazione che fungono da cassa armonica del suo lavoro; e infine l’ apporto come operatore editoriale, che non può mancare vista la messe di grandissimi mangaka che ha presentato in Italia.

 

Igort si reca in Giappone la prima volta nel 1991, per cominciare una collaborazione come autore occidentale con quello che era a tutti gli effetti il più grande editore del Sol Levante, e da allora continua a concepire l’arte come la più alta forma di artigianato, rivelando in questo la parte giapponese che è in lui – ancora una volta ‘Igoruto’.

 

In collaborazione con

   

 

LABORATORIO CARCERE

 

La project room è dedicata al percorso di ricerca che il Politecnico di Milano conduce sul campo, dal 2014, negli istituti penitenziari milanesi. Una linea del tempo attraverserà lo spazio e mostrerà frammenti di un racconto plurale: voci, volti e azioni concrete mostrano la rete di persone ed istituzioni che, negli anni, hanno sostenuto e permesso i lavori dei ricercatori.

 

Laboratorio Carcere documenta l’attività di indagine e progetto della forma dello spazio e dei modi di abitarlo, con l’obiettivo del cambiamento. Si tratta infatti di un’emergenza civile italiana a cui non si è finora riusciti a dare risposte efficaci, nonostante un avanzato ordinamento giudiziario e l’impegno quotidiano di dirigenti e operatori dell’Amministrazione Penitenziaria e dei soggetti del terzo settore attivi nelle realtà italiane.

 

Obiettivo del progetto dello spazio è il recupero del valore del tempo delle persone confinate. Vengono ipotizzati usi e forme degli spazi che supportino il ruolo “risocializzante” e “responsabilizzante” proprio dell’istituzione penitenziaria. Il ‘sapere’ si produce e sedimenta attraverso le sperimentazioni condotte nel perimetro delle possibilità già esistenti.

 

Nel tempo, Laboratorio Carcere ha approfondito il rapporto di cooperazione tra il mondo della ricerca e il mondo della pena, in rapporto diretto con le realtà milanesi e in contatto con altre realtà italiane. La prossima apertura di uno spazio di ricerca all’interno della Casa Circondariale milanese (‘Off-Campus San Vittore’, ottobre 2022) pone le basi per l’individuazione di nuove possibilità.

Si profila così un laboratorio permanente, il cui fine ultimo è rafforzare e finalizzare concretamente il dialogo tra ‘dentro’ e ‘fuori’, valorizzando le reciproche opportunità.

 

A cura di
Andrea Di Franco, Francesca Piredda, Mariana Ciancia, Marianna Frangipane, Chiara Ligi e Gianfranco Orsenigo
Politecnico di Milano: Dipartimenti DAStU e DESIGN

LE ALLEANZE DEI CORPI

 

Le Alleanze dei Corpi. Cura e performatività nella riscrittura dello spazio pubblico a cura di Maria Paola Zedda e Gabi Scardi.

 

Un flusso di immagini, suoni, installazioni documenta e restituisce il percorso degli ultimi due anni di  Le Alleanze dei Corpi,  progetto nato a Milano nell’area di via Padova  per ripensare la relazione tra corpo e spazio pubblico e riflettere sul potere politico della performatività nella riscrittura del paesaggio urbano.

Il progetto  pone al centro della riflessione  il tema della cura come pratica artistica, bene comune, atto rituale e collettivo di empowerment e di trasformazione del presente, attraverso i percorsi attivati da coreografe e artisti quali Elisabetta Consonni, Francesca Marconi, Guillaume Zitoun nel periodo del secondo lockdown sino al giugno 2021. Le loro pratiche vòlte  a recuperare il contatto tra corpi e a restituire visibilità  ai soggetti marginalizzati coinvolti, in particolare donne, migranti, sex worker che nell’esperienza pandemica hanno subito in modo estremo la violenza della crisi della cura,  si accompagnano a un percorso corale che include artiste e teorici del panorama nazionale e internazionale che in questi anni su tali temi, presenti nella sezione Communities in movement.

 

Le Alleanze dei Corpi nasce da una progettazione condivisa di realtà, DiDstudio, ZEIT, Itinerari Paralleli,  Progetto Aisha e Stratagemmi Prospettive Teatrali, attive nel territorio di Milano, e impegnate con differenti equilibri sul tema delle performing arts e del loro potenziale in termini di attivazione dei territori.

ANATOMIA DI UN ARCHIVIO

 

a cura di Home Movies

 

La Project Room – a cura di Home Movies, l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia – ospita la ricerca scientifica di Vincenzo Neri, neurologo e pioniere del cinema scientifico in Italia che sperimentò tre metodi principali per lo studio dei segni clinici al fine di distinguere i disturbi funzionali e psichiatrici dalle malattie neurologiche: il metodo grafico, il metodo cronofotografico e il metodo fotografico.

 

Con i suoi oltre 1400 reperti – tra fotografie, riprese cinematografiche, radiografie, cliché tipografici, registrazioni audio – l’Archivio Vincenzo Neri restituisce, in tutta la sua articolazione, oltre mezzo secolo di ricerca (1906-1960) condotta dal neurologo bolognese sulle disfunzioni psicomotorie, attraverso la pionieristica adozione di strumenti di analisi di natura cine-fotografica, concepiti in primis come un metodo diagnostico, ma contemporaneamente anche come strumento di divulgazione scientifica, organizzati in un vero e proprio database semeiotico, da cui oggi è possibile attingere il dato clinico, ma anche la suggestione estetica della corporeità e del suo problematico funzionamento.

Casa Azul

 

La Project Room – a cura di Giulia Zorzi – ospita il lavoro della fotografa e artista visiva Giulia Iacolutti, centrato su progetti di arte relazionale attinenti all’identità e alle tematiche di genere.

 

Il progetto dal titolo Casa Azul è un’indagine socio-visiva sulle storie di cinque donne trans recluse in uno dei penitenziari maschili di Città del Messico. L’opera richiama i processi di costruzione del sé e le pratiche di persone i cui corpi sono considerati doppiamente abietti sia per la loro identità che per la condizione d’isolamento.

 

‘Azul’ (blu) è il colore degli abiti che le donne trans, come tutti i detenuti maschi del penitenziario, sono obbligate a indossare.

 

Realizzati a mano con la tecnica della cianotipia, caratterizzata dal tipico blu di Prussia, i ritratti delle protagoniste condividono lo spazio con i loro manoscritti e alcune fotografie di cellule prostatiche sane scattate al microscopio e trattate in rosa, in collaborazione con l’Istituto di Ricerca Biomedica di Bellvitge (IDIBELL). Dove il blu evoca l’apparenza e l’identità imposta, il rosa si riferisce all’interiorità, all’essere e all’autodeterminazione.

 

L’opera invita a una riflessione sul binarismo di genere e sull’eterna lotta che queste persone devono affrontare per essere quello che sono: donne.

 

Sabato 11 dicembre l’artista condurrà un laboratorio sulla gestualità dell’affetto aperto a partecipanti con e senza disabilità al fine di abbattere le barriere e abitare lo spazio proprio e dell’altro, aumentando la consapevolezza sulla necessità psico-fisica condivisa del provare affetto e piacere. Il laboratorio è pensato in occasione della 17° Giornata del Contemporaneo, promossa da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani – di cui il PAC è socio fondatore – con il sostegno del Ministero della Cultura e in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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Giulia Iacolutti (1985) fotografa e artista visiva, si dedica principalmente a progetti di arte relazionale attinenti all’identità. e alle tematiche di genere. Oltre alla fotografia, utilizza differenti linguaggi e supporti (video, audio, ricamo, performance). Il suo lavoro è parte di collezioni pubbliche e private ed è stato esposto in Argentina, Bolivia, Colombia, Germania, Italia, Lituania, Messico, Spagna, Svizzera e Stati Uniti. Tra gli ultimi riconoscimenti la nomina al Foam Paul Huf Award, il premio nazionale Marco Bastianelli – sezione libro d’artista, e il Premio d’Arte Contemporanea Paolo Cardazzo. Giulia Iacolutti è rappresentata dalla Galleria studiofaganel di Gorizia.

IL TEMPO DELLE FARFALLE

 

La nuova serie PAC Project Room inaugura con un focus sull’artista curda Zehra Doğan, giornalista, artista visiva e attivista che ha portato nuova attenzione all’arte nata in carcere e basata su ascolto dell’altra, pratica femminista, condivisione, utilizzo di materiale estemporaneo e istantaneità dello sguardo.

 

IL TEMPO DELLE FARFALLE. Dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal, a cura di Elettra Stamboulis e realizzato in co-produzione con la Fondazione Brescia Musei, è iniziato il 25 novembre con la pubblicazione sul sito del PAC di una performance dell’artista in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne e si completa con l’esposizione di una selezione di opere realizzate dall’artista in carcere e una nuova performance, pensata per il PAC.

 

Il titolo del progetto al PAC, IL TEMPO DELLE FARFALLE. Dedicato a Patria, Minerva, Teresa Mirabal è un omaggio a Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal, le tre sorelle che combatterono la dittatura (1930-1961) del dominicano Rafael Leónidas Trujillo con il nome di battaglia Las Mariposas (Le farfalle) e per la quale persero la vita.

 

Zehra Doğan (Diyarbakır, 1989) è un’artista e giornalista curda diplomata in Arte e Design all’Università Dicle. Il 23 febbraio 2017, a seguito della pubblicazione di un disegno su Twitter durante l’attacco dell’esercito turco a Nusaybin, viene condannata a 2 anni e 9 mesi di prigione. Detenuta prima nella prigione femminile di Diyarbakir, poi in quella di massima sicurezza di Tarso, riesce a creare insieme ad altre detenute una redazione giornalistica interna al carcere e a realizzare opere utilizzando gli oggetti che ha a disposizione. I suoi lavori raggiungono l’estero in modo rocambolesco, attraverso la rete degli attivisti e l’aiuto della famiglia. Liberata il 24 febbraio 2019, si trasferisce a Londra dove espone un’installazione alla Tate. A novembre Fondazione Brescia Musei inaugura la sua prima personale, Avremo anche giorni migliori. Nel 2015 vince il premio Metin Göktepe Journalism Awards per il suo reportage sulle donne Yazide. Dopo la scarcerazione riceve numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Carol Rama e il premio Ipazia all’eccellenza femminile (2020), l’Index on Censorship Freedom of Expression (2019), l’Exceptional Courage in Journalism Award (2019), lo Spring of Press Freedom (2018) e il Freethinker Prize (2017).

 

 

MUM, I’M SORRY

 

a cura di Chiara Agnello

 

In occasione della mostra personale di Teresa Margolles YA BASTA HIJOS DE PUTA, a cura di Diego Sileo, il PAC ospita nella project room un focus sull’opera video Mum, I’m sorry (2017) della giovane artista Martina Melilli, invitata dall’istituzione milanese per affinità tematiche e rimandi con l’opera di Margolles.

 

Mum, I’m sorry, a cura di Chiara Agnello,  è un progetto di grande sensibilità sul fenomeno migratorio. Nato dal dialogo fra Martina Melilli e alcuni migranti sopravvissuti al lungo viaggio verso nuove terre, si arricchisce nel confronto con il lavoro della dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa e antropologa forense. Con uno sguardo ravvicinato, scandaglia dettagli di storie e di affetti, quel che resta di cose appartenute a corpi senza vita, pochi frammenti di oggetti scelti come essenziali, come “casa” da portare in un viaggio senza ritorno. Orologi, anelli, foto, pezzi di carta e numeri annotati suggeriscono un vissuto e speranze di nuove prospettive.

 

La sua ricerca è orientata nella direzione segnata dall’artista messicana Teresa Margolles, vincitrice del Prince Claus Award 2012 e scelta per rappresentare il Messico nella 53esima
Biennale di Venezia nel 2009. Con le sue 14 installazioni al PAC, Margolles esplora gli scomodi temi della morte, dell’ingiustizia sociale, dell’odio di genere, della marginalità e della corruzione generando una tensione costante tra orrore e bellezza. Studiando a fondo le dinamiche scaturite dalla violenza e le conseguenze che la paura ha prodotto nella società, Margolles preleva dagli scenari violenti elementi di vita e li trasforma in narrazioni trasportandoli negli spazi espositivi.

 

Analogamente l’opera di Martina Melilli, piena di rispetto e dignità verso la vita e l’essere umano, si allontana da una dimensione numerica, di massa e astratta, per portare la narrazione su un piano individuale e intimo, dove semplici “prove giudiziarie” vanno a creare un archivio di memorie. Mum, I’m sorry nasce nell’ambito di ArteVisione 2017, un progetto di Careof e Sky Academy, in collaborazione con Sky Arte HD e in partnership con il Museo del Novecento a sostegno della scena artistica italiana.

 

Attraverso un bando nazionale, ArteVisione offre un premio per la produzione di un’opera video e un percorso di formazione con professionisti del settore audiovisivo e visiting professor di fama internazionale. Omer Fast è stato il protagonista dell’edizione 2017 focalizzata sul tema Memoria e Identità.L’opera prodotta, trasmessa in onda in prima visione su Sky Arte HD, sarà presentata presso i Musei partner del progetto: MADRE di Napoli, MAXXI di Roma, Mart di Trento e Rovereto e Museo d’arte contemporanea Villa Croce di Genova.

 

Il 5 e 19 aprile 2018 (ore 19-22), i contenuti di Mum, I’m sorry saranno approfonditi nell’ambito di due workshop aperti al pubblico, incentrati sul valore degli oggetti e sul loro potere narrative e realizzati al PAC a seguito di una visita guida alla mostra di Teresa Margolles. Nel corso dei due appuntamenti, gli oggetti saranno il centro di un’interrogazione e di una narrazione, tanto individuale quanto condivisa, per essere poi schedati e esposti. Al termine della mostra verranno restituiti ai proprietari, accompagnati dalle tracce del loro passaggio.

Martina Melilli (Piove di Sacco, Padova, 1987) è un’artista visiva e filmmaker. Laureata in Arti Visive allo IUAV di Venezia, ha approfondito gli studi in Cinema Documentario e Sperimentale alla LUCA School of Arts di Bruxelles. La sua ricerca, connotata da un approccio antropologico e documentario, indaga la rappresentazione dell’immaginario individuale e collettivo legato alla memoria, alla Storia e alla realtà; la relazione tra l’individuo e lo spazio del vissuto; il rapporto tra l’intimo e l’universale. La collaborazione e il collettivo sono le forme di lavoro che preferisce, avvalendosi dell’apporto di esperti dei temi affrontati. Gli archivi e le collezioni sono per lei fonte d’ispirazione, materiale di lavoro e sperimentazione.
Prossimamente in uscita, My home, in Libya è il suo primo documentario di creazione prodotto da Stefilm International, ZDF/ARTE, RaiCinema, sostenuto dal MiBACT e da una borsa di sviluppo del Premio Solinas.