In esclusiva per Milano la prima personale dell’artista cinese contemporaneo in un’istituzione pubblica italiana. La mostra ha ripercorso l’intera ricerca artistica di Zhang Huan riunendo 42 opere provenienti da importanti collezioni internazionali: dalle sue performance di inizio anni Novanta alle sue più recenti opere realizzate con la cenere, pezzi tra i più significativi della sua intera produzione artistica.
 
«Ashman» ha affermato Zhang Huan prima della mostra «è l’eroe che porto nel cuore, la personificazione di molti desideri e anime molteplici. Ashman sogna, sostiene la giustizia, definisce un nuovo ordine internazionale, persegue la pace per sconfiggere la guerra terroristica, interagisce con la Terra in maniera ecosostenibile, rende l’umanità più pacifica, più libera. Porterà a Milano una profonda, universale, armonia per l’umanità».
 
Il percorso della mostra rifletteva sul tema della spiritualità, tema centrale nella poetica e nella vita di questo protagonista della scena artistica contemporanea internazionale.
Le sue opere prendono vita dall’intrinseco legame tra pratiche spirituali buddhiste ed alcune tecniche tradizionali cinesi, fonti iconografiche e culturali da cui l’artista prende ispirazione, unite ad una estrema versatilità espressiva, propria della contemporaneità. Performance, fotografia, scultura, video, pittura sono in Zhang Huan strumenti per recuperare le proprie radici e le tradizioni della cultura cinese, esprimendo un rapporto intimo con il passato, con la natura, con la storia e con se stesso. Nelle opere di Zhang Huan si ritrovano le antiche tecniche dell’intaglio e della calligrafia, la pratica religiosa di bruciare l’incenso, la scultura in ferro battuto, la raffigurazione di Buddha e di parti sacre del suo corpo, la riproduzione fedele della natura, l’iconografia popolare di propaganda Comunista.
 
Tre sculture di grande dimensioni – Buddha Hand, Peace 1 nel cortile esterno del PAC e Berlin Buddha – hanno segnalato la centralità e l’importanza del Buddhismo nella ricerca di Zhang Huan e il suo forte legame con l’iconografia sacra tradizionale. L’affascinante installazione Berlin Buddha, un grande Buddha in cenere collocato di fronte al suo calco in alluminio (al PAC esposto per la prima volta in un’istituzione pubblica) rappresenta il più imponente impiego “scultoreo” della cenere, derivata dalla combustione dell’incenso bruciato nei templi e successivamente raccolto in diversi luoghi di preghiera intorno a Shanghai. L’enorme figura di Buddha in cenere si sgretolava lentamente con il trascorrere della mostra, la scultura si decomponeva pian piano a seconda del contesto circostante: i tremolii del terreno, piccoli spostamenti d’aria, il passaggio di visitatori modificano l’opera fino a far interamente cadere a terra la cenere.
 
La mostra ha presentato alcuni tra i più significativi Ash paintings di soggetti diversi – ritratti, scene militari, bandiere, teschi – realizzati con la cenere d’incenso, una palette di sfumature dal bianco al nero che Zhang Huan ha utilizzato come un vero e proprio colore. L’importanza di questo medium risiede nel potere lirico e spirituale di questa “polvere”, resti di un atto di devozione fortemente radicato nella cultura cinese, segno di preghiera e di speranza. Il fascino poetico dell’incenso amplifica la carica emozionale dei dipinti, riportando alla luce ricordi personali e collettivi, come in Samsara, Zhong-Shan-Suit, Winter Night, Felicity No. 5 e i due ritratti di Mao (Mao Portrait No. 1 e Mao Portrait No. 2).
 
BIOGRAFIA | Zhang Huan è nato nel 1965 a An Yang City, provincia di Henan, Cina; ha vissuto dal 1998 al 2005 a New York, per trasferirsi nel 2006 a Shanghai, dove attualmente vive e lavora. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei al mondo, come The Museum of Modern Art, Salomon R. Guggenheim Museum e il Metropolitan Museum a New York; lo S.M.A.K. Museum a Gent, Belgio; il Centre Georges Pompidou a Parigi; l’Hara Museum of Contemporary Art di Tokyo e l’Israel Museum di Gerusalemme. Tra le principali esposizioni, ricordiamo la mostra Altered States, Asia Society, New York, 2007, allestita l’anno successivo al Vancouver Art Gallery, Vancouver e la recente prima personale cinese Dawn of Time, Shanghai Art Museum, 2010.
 
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I WANT TO LIVE FOREVER
 
Un evento unico, in esclusiva assoluta per l’Italia, dedicato alla protagonista indiscussa dell’arte contemporanea giapponese Yayoi Kusama. Oltre a dipinti figurativi e astratti di recente realizzazione, sculture di grandi dimensioni e installazioni create nell’ultimo decennio, è stata esposta una selezione di disegni formativi dell’artista risalenti agli anni ’50 e ’60.
 
Yayoi Kusama è nata a Matsumoto City, Giappone, nel 1929. Il suo lavoro è presente nelle collezioni dei più prestigiosi musei di tutto il mondo: dal Museum of Modern Art di New York alla Tate Modern di Londra, dal Centre Pompidou di Parigi al National Museum of Modern Art di Tokyo, città dove l’artista vive e lavora.
 
Kusama ha prodotto i suoi primi enormi dipinti “infinity” alla fine degli anni ’50 a New York, dove si era trasferita come giovane artista. L’intrinseco paradosso filosofico di questi lavori – che “l’infinito” possa essere quantificato all’interno della cornice arbitraria di una tela preconfezionata – insieme alle implicazioni più soggettive e ossessive della loro genesi, li distinsero dall’astrattismo minimalista che avrebbe dominato la scena artistica locale parecchi anni dopo.
 
Oggi Kusama compone i dipinti Infinity Net come campi isotropi pieni di elementi uniformemente distribuiti, siano essi austere monocromie o vibranti contrasti a tinte psichedeliche, come lo spettacolare dipinto a cinque pannelli I Want to Live Forever (2008). I suoi ultimi dipinti figurativi, come Cosmic Space (2008) dove occhi, amebe e altre forme biomorfe indeterminate abbondano, riflettono un’ossessione per la mortalità, oltre che per l’illuminismo, la solitudine, il vuoto, e i misteri dell’universo fisico e metafisico.
 
La scultura di Kusama invece mostra un altro approccio alla visualizzazione dell’infinito attraverso il continuo uso di specchi, come nella scultura autoportante Passing Winter (2005) o nel complesso ambiente Aftermath of Obliteration of Eternity (2008), che utilizza un sistema di semplici ma ingegnosi strumenti ottici per creare un’interazione senza fine di luce riflessa. Il più recente gruppo di sculture monumentali di Kusama Flowers that Bloom at Midnightsono fiori barocchi dai colori accesi, che misurano in altezza tra 1.5 e 5 metri.
 
Al PAC anche Narcissus Garden, l’installazione-scultura presentata per la prima volta alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia (1966). Kusama ha prodotto questo ambiente interattivo composto da 1500 sfere metalliche con l’assistenza di Lucio Fontana. In una presentazione improvvisata sul prato del Padiglione Italiano, Kusama, vestita in kimono, puntò l’attenzione sugli aspetti commerciali usualmente velati della Biennale, vendendo ogni sfera a 1.200 lire. Più di quaranta anni dopo, Narcissus Garden è arrivato a Milano per la prima volta.
 
Kusama ha completato numerose sculture da esterno su commissione, la maggior parte delle quali nella forma di piante e fiori giganteschi dalle tinte accese, realizzate per istituzioni pubbliche e private quali il Fukuoka Municipal Museum of Art e Matsumoto City Museum of Art in Giappone; Eurolille a Lille, Francia; e il Beverly Hills City Council a Los Angeles.
 
I STILL LOVE
In occasione della 6° Giornata del Contemporaneo indetta da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiana di sabato 9 ottobre 2010, il PAC ha ospitato, per la prima volta in uno spazio espositivo pubblico italiano, una mostra dedicata a Franko B, artista coraggioso ed eclettico, da anni protagonista della scena live internazionale, che ha espresso nell’arte il tormento dell’esistenza con intensità e genialità inventiva senza eguali, rendendo nelle sue performance sopportabile l’insopportabile.
Le azioni spettacolari con cui Franko B incontra il pubblico londinese negli anni ‘90 usando il proprio corpo come strumento, supporto e ipertesto, realizzate alla Tate Modern, all’ICA e alla South London Gallery, diventano immediatamente famosissime. Oggetto del desiderio, usato come una tela, malato o senza difese, tagliato, bucato, steso o ripiegato dalla sofferenza, violato, umiliato o a sua volta minaccioso, denudato o coperto, il corpo dell’artista diventa corpo sociale che azzera ogni separazione tra opera e artista, soggetto e oggetto, arte e vita.
“Ciò che mi tocca profondamente delle performance di Franko B – ha dichiarato Marina Abramović nel 2006 – è la sua totale apertura, vulnerabilità e, allo stesso tempo, l’incondizionato amore dato al suo pubblico”.
Al PAC Franko B ha presentato l’inedita performance Love in times of pain, strettamente legata all’omonima installazione Love in times of pain del 2009. In mostra per la prima volta in Italia, l’opera, ha rievocato alcuni dei temi centrali del lavoro di Franko B quali la morte, l’erotismo, il dolore e la compassione, proposti in una chiave inedita attraverso l’utilizzo esclusivo del colore nero: una dimensione monocromatica a tratti impenetrabile, elegante oblio che ricopre animali imbalsamati e tele di un denso strato di colore.
L’uso del colore nero ha creato una tensione dialettica con la produzione in cui l’artista utilizzava il bianco per coprire i tatuaggi che campeggiano su tutto il suo corpo e farne una sorta di tela, una pagina incontaminata sulla quale inscrivere i segni del proprio linguaggio. Con l’uso dell’acrilico nero l’artista ha ricreato invece la tensione tra la vita e la morte, tra luce e ombra, tra presenza e assenza che ritorna anche nella serie di dipinti in mostra dal titolo Black Painting (2007).
Dall’uso dell’acrilico nero alla nuova serie di “cuciti”, ricami inediti che raffigurano animali, corpi, volti e ragazzi che si amano, la cui fragile bellezza è delineata sulla tela bianca da un tratteggio di cotone rosso, dove il filo colorato rimanda formalmente al sangue sul corpo imbiancato dell’artista delle performance degli anni novanta.
Hanno completato l’esposizione i video e le fotografie delle performance più famose, e l’installazione Golden Age (2009), una serie di inginocchiatoi totalmente ricoperti d’oro.
Il progetto di allestimento, che ha stravolto la consueta percezione visiva all’interno del padiglione milanese restituendo ai visitatori un PAC inedito, è stato affidato a Fabio Novembre, architetto e designer di fama internazionale che ha curato, con il suo studio, per la prima volta l’allestimento di una mostra d’arte.
BIOGRAFIA | Nato a Milano nel 1960 e trasferitosi a Londra giovanissimo, Franko B si diploma al Chelsea College of Art and Design e inizia a produrre le proprie opere fin dai primi anni Novanta, spaziando dal video alla fotografia, dalle performance alla pittura fino alla scultura. Protagonista indiscusso dell’ICA, epicentro londinese dei progetti artistici più radicali e d’avanguardia, il suo background è il romantic punk della capitale inglese degli anni ’90. Docente di scultura all’Accademia di Belle Arti di Macerata dal 2009, ha tenuto corsi e lezioni in alcune delle più importanti scuole d’arte internazionali. Ha eseguito le sue performance in prestigiose sedi internazionali per l’arte contemporanea: Tate Modern, Londra, 2003; ICA, Londra, 2008; South London Gallery, Londra, 2004; Palais des Beaux- Arts /Palais voor Schone Kunsten, Bruxelles, 2005; Beaconsfield, Londra 2001; e ancora a Città Del Messico, Berlino, Copenhagen, Madrid e Vienna. La sua performance più recente si è tenuta al Royal College of Art di Londra nel 2010. Ha esposto inoltre a: RuArts Foundation, Mosca, 2007; Victoria And Albert Museum, Londra, 2006; Tate Liverpool, 2003; Contemporary Art Center, Copenhagen, 2002. Le sue opere sono presenti nelle collezioni della Tate, del Victoria and Albert Museum, della South London Gallery e del Modern Art Museum di Tel Aviv.
DIDASCALIA
 
La prima retrospettiva dell’artista italiano tra i più rilevanti della scena artistica contemporanea curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist.
 
Un arcipelago di oltre 30 opere di differente natura, tra cui una nuova produzione concepita appositamente per il PAC, una serie di lavori storici, alcune riattivazioni di opere recenti e i modelli di progetti mai realizzati, hanno ricostruito al PAC il lavoro di Garutti attraverso le sue opere più significative. Fotografia, scultura, scrittura, installazione, disegno, suono, video, pittura, conversazione e insegnamento: una molteplicità di linguaggi per capire l’evoluzione spesso sorprendente della ricerca dell’artista dagli anni Settanta ad oggi.
 
Le opere di Garutti innescano meccanismi di partecipazione e dialogano a più livelli con differenti tipologie di pubblico insieme con le istituzioni politiche ed economiche della città. Questo aspetto è ritornato nella mostra-paesaggio del PAC, nella quale lo spettatore è stato invitato a costruire nuove relazioni e percorsi tra opere, oggetti, immagini e frammenti in esposizione.
 
L’artista ha presentato il progetto alla Serpentine Gallery di Londra il 14 ottobre 2012, partecipando alla Memory Marathon: una sequenza di conferenze, performance e testimonianze curate da Hans Ulrich Obrist. L’incontro ha anticipato, in forma poetica e allusiva, alcuni temi e progetti della mostra, introdotti dal curatore all’interno del padiglione disegnato da Herzog & de Meuron e Ai Weiwei.
 
Autore di alcuni tra i più efficaci progetti di arte pubblica in Italia e in Europa, dalla seconda metà degli anni Settanta e in più di trent’anni di carriera Alberto Garutti (Galbiate, Como, 1948) ha esplorato la dimensione narrativa e immateriale dell’opera d’arte, la relazione tra la produzione di oggetti e il loro rapporto con lo spazio sociale e i temi strutturanti la pratica stessa dell’arte.
 
L’intreccio di mercato e committenza è al centro di lavori come Campionario: stampe digitali su fondo monocromo ( 2007 – 2012) sulle quali una sottile linea nera ricama distanze e relazioni tra luoghi della città cari al potenziale collezionista. Nella serie Orizzonti – dipinti a partire dal 1987 su vetro in bianco e nero, in diverse dimensioni, ognuno dei quali porta il nome del suo committente – Garutti testimonia l’interesse per la sfera di relazioni sentimentali e professionali che formano “l’orizzonte vero della mia vita”.
 
A partire dalla metà degli anni ’90 riflette sul ruolo dell’artista nella città come nodo cruciale della sua pratica e lavora come un antropologo, capace di restituire il manufatto architettonico alla comunità, di interrogare se stesso attraverso lo studio degli altri, riattivando la memoria storica ed emotiva del luogo e costringendo lo spettatore a ragionare sulla relazione tra arte, politica e società civile. Nascono così lavori-manifesto come quello a Peccioli tra il 1994 e il 1997, dove restaura la facciata del teatro del borgo vicino a Pistoia e installa la didascalia in pietra “Dedicato ai ragazzi e alle ragazze che in questo piccolo teatro si innamorarono” ; o come “Ai Nati Oggi” ( realizzato in varie città dal 1998 al 2005) dove l’artista collega alcuni lampioni presenti in aree pubbliche ai reparti di maternità cittadini in modo che la nascita di un bambino coincida con l’intensificarsi della luce, che aumenta per poi decrescere lentamente.
 
Tutta la mostra è stata attraversata da uno degli elementi caratterizzanti il lavoro dell’artista, l’uso multiforme della didascalia come modalità di diffusione delle opere al pubblico e come meccanismo attivatore di relazioni tra lo spettatore e i contenuti dell’opera.
 
L’evento è entrato in stretta relazione con Fuoriclasse. 20 anni di arte italiana nei corsi di Alberto Garutti, la collettiva a cura di Luca Cerizza che è stata allestita nel 2012 alla GAM di Milano. L’unicità dell’approccio didattico sviluppato da Garutti in decenni di insegnamento è parte integrante del suo lavoro e viene raccontata attraverso le opere di 60 artisti che hanno frequentato i suoi corsi.
 
Con il contributo della banca BSI è stato realizzato un libro edito da Mousse Publishing e Walther Koenig Verlag, ideato in stretta collaborazione con l’artista, che raccoglie un’ antologia di saggi, le interviste e le conversazioni tra l’artista e Hans Ulrich Obrist e un primo regesto delle opere dal 1974 a oggi.
 
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S, sponsor dell’ attività espositiva annuale del PAC.
 
Il PAC ha avuto inoltre in programma attività didattiche gratuite per avvicinare il suo pubblico alle opere dell’artista: visite guidate per adulti e laboratori per bambini e ragazzi, ideati e organizzati da MARTE e realizzate con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.
 
DOUBLE DRESS
a cura di Suzanne Landau
La mostra è organizzata dall’Israel Museum di Gerusalemme ed è curata da Suzanne Landau. L’edizione italiana, presentata al PAC, prevede 18 opere tra grandi installazioni di pittura, sculture e fotografie datate fra il 1994 e il 2001. Le opere provengono dall’Israel Museum di Gerusalemme, dalla Stephen Friedman Gallery di Londra, da collezioni private e da musei europei e americani, come la Tate Gallery di Londra e l’MCA di Chicago.
Nato nel 1962 a Londra, Yinka Shonibare è vissuto in Nigeria fino all’età di 18 anni trasferendosi poi a Londra per studiare. Nella sua ricerca si è rivolto con ironia alle tematiche legate all’identità culturale: dal dandy dalla pelle nera agli astronauti e agli alieni vestiti con stoffe a colori pseudo africani, l’artista è alla ricerca dell’elemento provocatorio e destabilizzante, che inneschi la riflessione sulla prospettiva da cui abitualmente si considera il mondo. Nella sua arte non smettono mai di convivere due anime diversissime: quella profondamente africana e quella anglosassone, occidentale.
Le installazioni, spesso spettacolari, prendono talvolta spunto da celebri dipinti europei del XVIII e XIX secolo. Uno dei lavori esposti al PAC, per esempio, ricostruisce in forma tridimensionale di un noto quadro di Jean-Honoré Fragonard, La balançoire, 1767.
I soggetti di Shonibare, guardano spesso, al mondo della moda e del costume, come campo di indagine per rimarcare la contaminazione tra cultura europea ed elementi della tradizione culturale africana: l’artista veste dei manichini con abiti dalla foggia tipicamente occidentale, usando tessuti considerati africani, i batik, che per la loro complessa origine sono la migliore metafora per affrontare criticamente la collisione di due culture. Queste stoffe infatti sono originarie dell’Indonesia e i colonizzatori olandesi sono stati i primi a produrle industrialmente utilizzando la tecnica indonesiana del batik, per poi cercare di rivenderle, senza successo, sullo stesso mercato indonesiano. Divennero invece molto popolari nell’Africa occidentale tanto che, dopo l’indipendenza conquistata negli anni ’60, paesi come il Ghana e la Nigeria le adottarono come simbolo di liberazione dal colonialismo e di affermazione d’identità nazionale. Shonibare le inserisce nei propri lavori, vestendo le sue sculture, con ironia e come strumenti di critica politica.
In altre opere, realizzate con il mezzo fotografico, Shonibare si pone al centro della rappresentazione nelle vesti del Dorian Gray di Oscar Wilde oppure si ispira alla serie A Rake’s Progress di William Hogarth. Il dandy è per Shonibare un leitmotiv, è colui che afferma la sua individualità sfidando il perbenismo della società con il proprio aspetto e atteggiamento.
Ormai noto a livello internazionale, Yinka Shonibare ha presentato nel 1989 a Londra la sua prima mostra personale, per poi esporre presso gallerie private e spazi pubblici in Europa, Stati Uniti, Canada, Sud Africa e Israele. Ha partecipato a importanti esposizioni collettive, come Sensation. Young British Art from the Saatchi Collection (1997) alla Royal Academy of Arts di Londra, oppure Authentic/Ex-centric: Conceptualism in Contemporary African Art nell’ambito della 49° Biennale di Venezia.
LESS. STRATEGIE ALTERNATIVE DELL’ABITARE
La mostra LESS – Strategie alternative dell’abitare, curata da Gabi Scardi, ha documentato il grande spazio che la questione dell’abitare ha avuto nell’ambito della ricerca degli ultimi decenni degli anni ‘90 e gli approcci diversi adottati da alcuni artisti internazionalmente noti. Da tempo, muovendosi tra micro-architettura e macro-design, essi indagano questo tema cercando di prefigurare, attraverso la progettazione di nuove modalità del vivere, un diverso, più sostenibile assetto del mondo.
Trasformandosi in costruttore e prefigurando simbolicamente il mondo (che è oggi), l’artista esprime infatti anzitutto la necessità di strategie e di scommesse progettuali per uno sviluppo collettivo.
Lo spazio abitativo è da un lato esigenza elementare, dall’altro catalizzatore di bisogni e di desideri. Per questo i temi della casa e dell’abitare attraversano ampiamente la ricerca artistica contemporanea e costituiscono campi di riflessione privilegiati per molti artisti che ambiscono ad affrontare criticamente la complessità della nostra società sin nelle sue istanze più cruciali ed urgenti.
Questi temi consentono loro di esprimere le profonde contraddizioni e le aspirazioni fondamentali del presente, l’attuale tensione tra senso di appartenenza e senso di estraneità, tra necessità di riappropriazione e necessità di salvaguardare le differenze.
Numerosi artisti hanno dato così forma a modelli abitativi in cui senso e funzione non risultano separati. Si tratta di situazioni di carattere provvisorio o permanente, privato o pubblico. In molti casi si tratta di spazi flessibili, polifunzionali, ad assetto variabile, adatti a situazioni di mobilità, eventualmente di crisi o di emergenza.
Sono state esposte installazioni di Vito Acconci, Keren Amiran, Siah Armajani, Atelier Van Lieshout, Mircea Cantor, Jimmie Durham, Carlos Garaicoa, N55, Lucy Orta, Maria Papadimitriou, MarjeticaPotrè, Michael Rakowitz, Luca Vitone, Dré Wapenaar, Krzysztof Wodiczko, Silvio Wolf, Wurmkos, Andrea Zittel.
Le attività didattiche e le visite guidate sono state realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia, seguite da concerti di musica contemporanea a tema, conferenze, performance e film. In occasione del Salone del Mobile di Milano (5-10 aprile 2006), l’iniziativa ha fatto parte degli eventi Fuori Salone della guida pubblicata da INTERNI.
Il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice 5 Continents Editions.
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S.
ULTIME NOTIZIE
La bella e intensa mostra di Christian Boltanski, celebrata dalla stampa e dalla critica come l’evento artistico della primavera milanese 2005, è stata visitata da più di 15.000 persone.
Christian Boltanski è l’artista francese (Parigi, 1944), oggi riconosciuto come uno dei più grandi artisti contemporanei, è ritornato in Italia con una mostra dedicata alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e alla sua percezione. L’evento si è svolto allo spazio espositivo milanese PAC dal 18 marzo al 19 giugno 2005 è curato da Jean-Hubert Martin.
Le opere presenti al PAC nel 2005 sono state costruite per permettere al visitatore di entrare in contatto con la personale elaborazione estetica del concetto di tempo elaborata da Boltanski durante tutta la sua attività artistica: non sviluppo storico, ma fragile e instabile passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. Il linguaggio artistico di Boltanski è concettuale come è concettuale l’arte funeraria di molte culture: un sistema di semplici segni e di suoni ripetitivi per dare forma all’inarrestabile flusso del tempo e quindi all’improrogabile appuntamento con la morte. Gli oggetti che Boltanski impiega nelle sue installazioni sono trattati come marionette, non sono usati per essi stessi, per la loro forma o per ciò che rappresentano, ma piuttosto per la loro arcana capacità di evocare e richiamare alla mente avvenimenti passati, strappandoli così all’oblio, alla dimenticanza.
Opere che si focalizzano sull’ultimo grande dubbio dell’uomo, che sprofondano nella paura della fine, sempre minacciosa all’orizzonte. E’ la sensazione del passaggio, della precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza.
Nella mostra milanese sono stati quindi affrontati due temi fondamentali per tutto il genere umano:
– il trascorrere del tempo è percepibile con forza e crudezza in diversi modi, dall’opera sonora Horloge Parlante che con una voce sintetizzata scandisce ininterrottamente l’orario, all’opera video Entre temps che propone in sequenza le immagini fotografiche del volto di Boltanski nelle diverse tappe della sua vita, o ancora dal video interattivo 6 septembre che ci presenta ad alta velocità consequenziale i fatti accaduti ogni 6 settembre, giorno di nascita dell’artista, con possibilità però di selezionarne uno da analizzare, da ricordare. I suoi lavori tendono essenzialmente a richiamare alla mente il passato, evidenziandone le tracce e l’azione sacralizzante;
– il tema della scomparsa, della morte viene evocato non solo da fotografie, ma anche dall’inequivocabile e lapidaria opera TOT (“morto” in tedesco) scritta a parete con l’impiego di lampadine luminose.
Il tempo – che siano pochi giorni o una vita intera – avvalora l’intento di documentare la realtà quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il sapore della Memoria.
Una mostra quindi di grande impatto, una sorta di memento mori dove la verità apparente delle cose fatta di istantaneità e transitorietà si ribalta nel suo opposto complementare e immerge i visitatori nell’implacabile fluire del tempo. Un trascorrere leggibile però solo attraverso la lente soggettiva del Ricordo.
L’esposizione è stata accompagnata da un raffinato libro d’artista pubblicato da Charta.
In occasione della personale di Boltanski, la Sezione Didattica del PAC ha organizzato delle iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. In programma inoltre la rassegna PACinConcerto e Appuntamenti contemporanei: conferenze e letture legate alle tematiche della mostra e visite agli studi di artisti, infine Apriti PAC!
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S.
CONDITIONS OF HUMANITY
Nel 1954 il PAC, progettato da Ignazio Gardella, inaugurava la sua prima mostra. Per celebrare i cinquant’anni dalla nascita della principale istituzione civica milanese destinata all’arte contemporanea, l’ingresso alla mostra “Kimsooja. Conditions of Humanity” è stato in programma durante l’estate 2004.
La mostra di Kimsooja è stata la prima importante personale tenuta dall’artista coreana in Italia. Nata nel 1957 a Taegu, nella Corea del Sud, dopo gli studi di pittura a Seoul e a Parigi, nel 1998 Kimsooja si è trasferita a New York, dove vive e lavora.
Le sue opere, estremamente poetiche e al tempo stesso contemplative, attingono al background culturale della terra d’origine dell’artista e il tema centrale di molte di esse verte sul ruolo dell’essere umano nel mondo globalizzato. Dagli anni ottanta il cucito, attività appresa al fianco della madre, è divenuto l’elemento essenziale del lavoro dell’artista consentendole di passare dalla superficie bidimensionale della pittura alla tridimensionalità degli oggetti. I Bottari, fagotti di tessuto realizzati a partire dal 1992 con coperte e vestiti usati, costituiscono ormai un elemento tipico del lavoro dell’artista. Presentati anche alla Biennale di Venezia del 1999, ammassati su un camion con il quale l’artista aveva ripercorso per 11 giorni itinerari a lei famigliari della Corea, questi fagotti di tessuto fanno riferimento alla tradizione coreana ma sono al tempo stesso una metafora universale di spostamento.
L’esposizione di Kimsooja al PAC includeva, oltre a diverse proiezioni video, la grande installazione A Laundry Woman (Lavandaia, 2000) con tessuti tradizionali coreani, grandi e coloratissimi, fitti di ricami dai motivi simbolici, sono fissati su sottili fili metallici tesi lungo il parterre del padiglione, come panni messi ad asciugare. Il visitatore è stato invitato ad aggirarsi fra i tessuti, che ondeggiano lievemente al passaggio, e a sperimentarne, da vicino e tangibilmente, la bellezza, la delicatezza e la grande energia cromatica. Percepiti nell’installazione dell’artista soprattutto come elementi estetici e simbolici, in Corea questi tessuti hanno una precisa funzione utilitaria: sono usati per il letto – una coperta per riposare, dormire, amare – per accogliere i defunti, ma anche per contenere e trasportare in un fagotto tutti i beni di una persona.
Se in A Laundry Woman sono i copriletto, talvolta confezionati cucendo insieme i tradizionali tessuti coreani, a rappresentare l’elemento centrale della creazione artistica di Kimsooja, nella video installazione A Needle Woman (Donna-ago, 1999-2001) è l’artista stessa ad “agire” come la punta di un ago. Kimsooja rimane immobile in mezzo alla folla dei passanti di metropoli come Shanghai, Tokio, New York o New Delhi, costringendo di conseguenza le fiumane di gente ad aggirarla e a deviare. Negli otto schermi della video installazione, esposta al PAC in due sale, l’artista si presentava di spalle e il visitatore poteva vedere i volti e le diverse reazioni delle persone che la evitano mentre, idealmente, le strade delle diverse città sembrano convergere al centro delle stanze.
Le attività dell’artista coreana, viaggi ed esposizioni, possono essere interpretate come una costante tessitura di nuove relazioni. Kimsooja: “È la punta dell’ago a penetrare il tessuto, e noi possiamo unire due diversi lembi di stoffa con il filo che passa per la cruna dell’ago. L’ago è un’estensione del corpo, il filo è un’estensione della mente. Nel tessuto rimangono sempre le tracce della mente, invece l’ago abbandona il campo non appena terminata la sua mediazione. L’ago è medium, mistero, realtà, ermafrodita, barometro, un momento, e uno Zen.”
In occasione della personale di Kimsooja, la Sezione Didattica del PAC ha organizzato “Gira il mondo con Kimsooja!”, iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. Si è tenuta inoltre la quarta edizione della rassegna PACinConcerto, cinque appuntamenti fra arte e musica contemporanea.
La mostra è stata accompagnata da un catalogo riccamente illustrato, con testi in italiano, francese e inglese, edito da 5 Continents Editions.
Nella galleria al primo piano, accanto alla mostra di Kimsooja, il PAC ospitava ACACIA, associazione amici arte contemporanea italiana, che presentava le opere Là ci darem la mano di Mario Airò e Francesco by Francesco di Francesco Vezzoli, vincitori rispettivamente del Premio ACACIA 2003 e 2004. Le opere sono state destinate alla collezione del Museo d’Arte Contemporanea di Milano.
SPAZI ATTI / FITTING SPACES
Il programma espositivo del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano nell’autunno 2004 ha proseguito con una mostra collettiva dal titolo SPAZI ATTI / FITTING SPACES: 7 artisti italiani alle prese con la trasformazione dei luoghi.
La mostra è stata curata da Jean-Hubert Martin e Roberto Pinto e proponeva opere di Mario Airò – Massimo Bartolini – Loris Cecchini – Alberto Garutti – Marzia Migliora (con la collaborazione di Riccardo Mazza) – Luca Pancrazzi – Patrick Tuttofuoco, sette artisti che, in questi ultimi anni, hanno lavorato intorno al concetto di spazio sensibile, da fruire mediante i sensi, da vivere e abitare. Nell’esposizione si tiene conto di differenti approcci a questo aspetto della ricerca e vengono realizzate installazioni ad hoc che riflettono il modo di costruire la percezione dello spazio e dei luoghi ed interagiscono con la struttura espositiva. Il PAC ha visto pertanto alternarsi spazi reali, risultato di vere e proprie costruzioni ideate dagli artisti trasformando gli ambienti preesistenti, a spazi virtuali creati con luci suoni e odori.
Esiste ormai una lunga tradizione artistica che, mettendo da parte la rappresentazione della realtà, impegna direttamente l’artista nella trasformazione della spazio che lo circonda. Tutte le esperienze di contaminazione tra arte e architettura, presenti quasi in ogni epoca storica, hanno concorso a formare questa tradizione. Ma se ci si sofferma soltanto in ambito contemporaneo si possono trovare radici molto precise nel lavoro di Lucio Fontana che con forme e luci trasforma gli spazi di gallerie e musei dando vita ai suoi ambienti spaziali.
Se poi si ragiona su Milano, non si può non rilevare come questa città abbia costruito gran parte della sua riconoscibilità internazionale su un’idea precisa di ‘immagine’ dovuta alla combinazione di sapienza artigianale/industriale e di raffinata capacità estetica. Questa combinazione si declina in diversi ambiti, dalla moda al design (e per certi aspetti anche nella pubblicità e nell’editoria) partendo dalla relazione che l’uomo ha con il proprio ambiente spaziale, per riprendere le parole di Lucio Fontana, relazione che si esplicita costruendo quella pellicola che ci protegge e ci rappresenta e che consiste negli abiti che indossiamo, in tutti quegli oggetti e forme con cui riempiamo i luoghi dove viviamo e che ci rendono più confortevole, piacevole e culturalmente ricca la vita.
Anche dal punto di vista architettonico questa città ha un’apparenza di grande uniformità: pur esistendo architetture di differenti tipologie o stili ed epoche storiche distanti tra loro, c’è un certo senso dell’ordine e una tonalità di fondo che amalgamano il paesaggio intorno a noi. Si può inoltre notare la tendenza a rendere più accogliente l’interno, la corte, piuttosto che l’esterno.
Alcuni tra i più interessanti artisti italiani, soprattutto quelli che gravitano intorno alla città lombarda, hanno approfondito e sviluppato la ricerca su questi concetti di spazio sensibile e la mostra allestita al PAC intendeva testimoniarne il lavoro.
C’è stata, inoltre, una sezione dedicata ad alcuni progetti degli stessi artisti presenti in mostra, sempre sul tema della trasformazione dello spazio. Un video a cura di Mario Gorni ha documentato il backstage della mostra con interviste agli artisti.
L’esposizione è stata accompagnata da un catalogo con testi in italiano e inglese, contenente un’introduzione del curatore, un testo di Jean-Hubert Martin e i saggi di sette diversi autori: Lorenzo Bruni (per Mario Airò); William S. Wilson (per Massimo Bartolini); Gianfranco Maraniello (per Loris Cecchini); Carlos Basualdo (per Alberto Garutti); Emanuela De Cecco (per Marzia Migliora); Elio Grazioli (per Luca Pancrazzi ); Gyonata Bonvicini (per Patrick Tuttofuoco).
In occasione della mostra la Sezione Didattica del PAC ha organizzato OcchiOrecchiOlfatto, iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. In aggiunta la rassegna PACinConcerto con 4 appuntamenti fra arte e musica contemporanea, e l’iniziativa Domenica out, 7.
La mostra è realizzata con il sostegno di TOD’S e Motorola. Media sponsor: Metro Pubblicità.
Comunicato dell’Assessore alla Cultura e Musei, Salvatore Carrubba.
CHEN ZHEN
a cura di Jean-Hubert Martin
Il PAC apre il 2003 con una mostra dedicata all’artista cinese Chen Zhen.
La mostra, prima tappa della nuova programmazione curata da Jean-Hubert Martin, critico e storico dell’arte esperto di culture extraeuropee, consiste in circa 70 opere tra installazioni e disegni, provenienti da collezioni private italiane e straniere, e dagli eredi dell’artista.
 
Nato a Shanghai nel 1955, Chen Zhen è considerato uno dei protagonisti del nostro tempo, che ha fatto della sua opera un esempio di pluralismo nell’arte, condensando nella nozione di trans-esperienza il fulcro del suo lavoro.
Formatosi nel periodo della Rivoluzione Culturale Cinese, Chen Zhen ha vissuto e lavorato fra Shanghai, New York e Parigi, città nella quale si è trasferito dal 1986, muovendosi sempre, senza barriere, tra il pensiero orientale e quello occidentale, nell’ottica della sintesi piuttosto che in quella della scelta e delle rigide classificazioni.
Il suo linguaggio artistico, che affronta molte questioni, dalla politica internazionale alla vita in sé, lo ha condotto a cercare una sintesi visiva della sua arte dove fosse riconoscibile, innanzitutto da un punto di vista estetico, il bisogno di farsi comprendere in un mondo dalle prospettive diverse da quelle che lo avevano circondato e cresciuto, di mescolare il sapore della sua Cina con quello dei Paesi che andava conoscendo.
Inizialmente orientato sulla pittura, Chen Zhen si è poi concentrato su installazioni di grandi e medie dimensioni, cominciando ad assemblare oggetti tratti dalla vita comune come letti, seggiole, tavoli, vasi da notte, culle e materassi, allestiti in composizioni che li privano della loro originaria funzione.
Ha spesso condotto progetti in luoghi e contesti atipici, coinvolgendo direttamente le popolazioni locali: con i bambini di Salvador de Bahia, nei quartieri neri poveri di Houston o con gli shakers del Maine.
Al centro della sua ricerca anche l’indagine sul diverso approccio alla medicina in oriente e occidente che emerge in alcune opere incentrate sulla figura del corpo umano e degli organi interni.
In particolare, fra le opere in mostra, sono esposte alcune grandi installazioni ricche di fascino realizzate fra il 1991 e il 2000 con tavoli, sedie, polistirolo, ventilatori, registratori di cassa, tessuti e candele colorate, come Obsession of Longevity, 1995; Un-interrupted Voice, 1998; Human Tower, 1999; Zen Garden, 2000; Lumière innocente, 2000.
Fra le più importanti esposizioni internazionali di Chen Zhen vanno ricordate: The New Museum of Contemporary Art, New York, 1994; Center for Contemporary Art, Kitakyushu, Giappone, 1997; Guggenheim Museum Soho, New York, 1998; Biennale di Venezia, 1999; Ludwig Museum, Colonia, 1999; GAM, Torino, 2000; Serpentine Gallery, Londra, 2001; Institute of Contemporary Art, Boston, 2002; PS1, New York, 2003
VITTORIO MATINO E ANTONIO TROTTA
 
a cura di Elena Pontiggia
 
Il PAC ospita una bipersonale di due artisti italiani: Vittorio Matino e Antonio Trotta, che pur appartenendo alla stessa generazione, provengono da esperienze e contesti culturali diversi.
Matino nato a Tirana (Albania) nel 1943 da genitori italiani, vive e lavora tra Milano e Parigi. Trotta è nato a Paestum (Salerno) nel 1937, ha vissuto a lungo in Argentina – nel 1968 è invitato alla biennale di Venezia a rappresentarne il Padiglione – si è stabilito in Italia alla fine degli anni Sessanta dividendosi tra Milano e Pietrasanta.
 
Anche le loro direzioni di ricerca sono diverse.
Vittorio Matino ha impostato il suo linguaggio pittorico su una geometria essenziale e rigorosa, animata da un colore sfuggente e intenso. Antonio Trotta pratica invece un concettualismo che si ispira ai repertori della classicità, indagando la finzione e l’ambiguità dell’immagine come nelle opere Autunno corinzio o Il patio.
L’opera di Matino si dichiara fedele alle possibilità dell’astrazione – di cui egli è uno degli interpreti più rigorosi – mentre quella di Trotta esplora territori figurativi.
Queste diversità nascondono però molti punti di contatto che la mostra si propone di individuare e far emergere.
 
La mostra è accompagnata da due esaurienti cataloghi che ricostruiscono organicamente l’attività dei due artisti e comprendono saggi di Vittorio Fagone (per l’opera di Matino) e di Elena Pontiggia (per l’opera di Trotta).
 
EX ORIENTE
 
a cura di Elena Pontiggia
 
Due grandi prime mostre antologiche dedicate Hidetoshi Nagasawa e Lee Ufan.
Il titolo Ex Oriente ha un duplice significato: il primo, più classico e comprensibile, vuole alludere alla provenienza dei due artisti; il secondo a metà tra lo scherzo e il gioco di parole potrebbe voler dire o richiamare l’idea di una definizione non più calzante o valida.
 
Hidetoshi Nagasawa, uno tra i più interessanti artisti giapponesi. Nato nel 1940, Nagasawa si è stabilito definitivamente a Milano alla fine del 1967, dopo un avventuroso viaggio in bicicletta e a piedi lungo l’Asia e l’Europa. Nelle sue opere il linguaggio e lo stile sono di matrice occidentale, mentre orientali restano le problematiche (il compenetrarsi di essere e non-essere, il valore del vuoto, gli equivoci dell’apparenza e della visione) e la filosofia che le ispira. Una scultura ricca di immagini straordinariamente evocative, tra memoria, sogno e mito.
 
Lee Ufan, considerato uno dei maggiori artisti coreani contemporanei, ha perseguito nelle sue ricerche una felice contaminazione tra avanguardia occidentale e tradizione orientale, portando il suo linguaggio ad una assoluta rarefazione. Pochi segni, di straordinaria intensità, costituiscono la sua pittura. Pochi segni (spesso lastre di pietra o di vetro, in singolare equilibrio tra Minimal Art e arte zen) costituiscono la sua scultura. Lee, come egli stesso ha dichiarato, non si propone di creare immagini, cioè di interpretare soggettivamente le cose, ma lascia che le cose stesse rivelino, indipendentemente dal soggetto, la loro verità.
 
PINO PASCALI
a cura di Fabrizio D’Amico, Simonetta Lux
 
A quasi vent’anni dalla scomparsa di Pino Pascali, il PAC gli dedica una grande retrospettiva: ironia, paradosso e fantasia sono le parole chiave.
Nella mostra vengono ricostruiti, attraverso la scelta di una ventina di opere – tra cui Decapitazione delle giraffe, 32 metri quadri di mare circa, 9 metri quadri di pozzanghere e Contro pelo – i passaggi esemplari del lavoro di Pascali come dissolutore di un mondo di certezze in favore di uno spettacolo mutante, e spesso geniale, di apparenze. L’iconografia come stereotipo e come svuotamento del senso, l’uso di materiali non storici, prelevati dalla realtà tecnologica e banale, un rapporto con lo spazio, complesso e di grande spessore ambientale, fanno di Pascali l’autentico iniziatore delle pratiche di combined-idiom che si diffondono in Europa, sotto il segno della neo-avanguardia.
 
Pascali è stato una delle figure chiave del clima che, negli anni Sessanta, ha portato a maturazione i germi problematici da cui sono scaturite vicende come il Concettuale e l’Arte povera. L’artista espone per la prima volta alla Tartaruga, a Roma, nel 1965: in un triennio folgorante ecco nascere serie straordinarie come i frammenti espansi d’anatomia femminile, le armi, gli animali, il mare.
L’OFFICINA DEL POSSIBILE
a cura di Flaminio Gualdoni
 
Il PAC ripercorre con installazioni, progetti, plastici, fotografie, l’intero arco di lavoro di Parisi, quasi a coronare un ciclo di mostre che lo ha visto protagonista alla Galleria Nazionale di Roma nel ’79, al Musée d’Ixelles nell’80, in Images Imaginaires al Centre Pompidou nell’84.
 
La figura di Ico Parisi è tra le più anomale e significative della ricerca architettonica contemporanea. Comasco, cresciuto alla scuola di Terragni, dalla fine degli anni Trenta Parisi si è impegnato in un’attività multiforme che ha toccato campi come la progettazione, l’architettura di interni, la scenografia, la cinematografia, il nascente design. Attività, tutte, svolte secondo un fertile principio di integrazione tra la propria figura e quella degli artisti, chiamati a collaborare pariteticamente al suo lavoro. Dagli anni Sessanta la sua attenzione si è concentrata non tanto su nuove forme architettoniche, ma sulla configurazione di nuovi modi di vivere lo spazio, dell’abitare. La Casa esistenziale, l’Operazione Arcevia, l’Apocalisse gentile, su su fino a Architettura dopo, sono le tappe di un lavoro di radicale ripercorrimento critico dell’architettura, non mirante – come troppe esperienze attuali – ad accettarne e viverne la perdita di identità, ma a trovare infine quella “officina del possibile” aperta, creativa, sempre mobile, che è l’unica dimensione esistenziale oggi accettabile.
 
JIŘÍ KOLÁŘ E CLAUDIO PARMIGGIANI
 
Per il ciclo Installazioni, Jiří Kolář e Claudio Parmiggiani espongono al PAC le loro opere dialogando sia tra di loro che con lo spazio.
 
Cecoslovacco (Protovin, 1914) e parigino d’adozione, Kolář è uno dei santoni indiscussi dell’arte europea del dopoguerra, in particolare di un filone di ispirazione dada-surrealista continuamente nutrito d0umori ironici e provocatori – ma anche di sottile poesia – che si è concretato nella realizzazione di collages, assemblaggi, effetti basati sullo straniamento dei caratteri convenzionali dell’immagine.
 
Parmiggiani (Reggio Emilia, 1943) fin dalla metà degli anni Sessanta ha legato la propria ricerca a un concettualismo di grande rarefazione mentale, nutrito di implicazioni colte – numerosi sono i suoi interventi e prelievi su materiali desunti dalla storia dell’arte – e addirittura ermetiche, che lo colloca sicuramente tra gli esponenti più continui e consapevoli dell’arte italiana oggi.
Paolo Icaro e Claudio Olivieri
 
Il ciclo delle Installazioni, che costituisce una delle iniziative portanti dell’attività del PAC, prosegue con le mostre di Paolo Icaro e Claudio Olivieri.
 
Torinese, da molti anni residente negli Stati Uniti, Paolo Icaro è una delle personalità di punta della scultura. I suoi lavori, basati sull’uso prevalente del gesso, hanno per definizione comune quella di unfinishing (non finito): di opere, cioè, che rinunciano deliberatamente ad assumere una forma riconoscibile per mantenere un grado di complessità ben più radiante, che coinvolge lo spazio in una dimensione sospesa, di forte atmosfera meditativa.
 
Claudio Olivieri appartiene a quell’area di ricerca che si è concentrata completamente sui puri valori della pittura, cioè sulla ricerca di eventi espressivi ricchi di un’autonoma capacità di senso e di fascinazione. Le sue grandi tele, sulle quali affiora una pittura intesa, disposta a stesure svarianti tra turgori densi e improvvise accensioni, ripercorrono in mostra uno degli itinerari artistici più serrati e coerenti dell’arte contemporanea.
 
ELISEO MATTIACCI
a cura di Zeno Birolli
Le 4 installazioni di Mattiacci, due delle quali inedite, vengono esposte insieme al PAC per la prima volta. Ad accogliere il visitatore nella prima sala 6 grembiuli da lavoro con altrettanti caschi appesi sopra, un conflitto tra il senso dell’affidamento (grembiuli come simbolo dell’operosità) e lo sgomento che scaturisce dalla presenza della maschera come volto finto. Il tema della maschera come controfigura/stuntman/finzione torna nella seconda sala, dove con una monumentale installazione Mattiacci colloca un motociclista senza volto in equilibrio su una barra di ferro, appoggiata su due colline create con dei mattoni. Sole, luna, volute, sagome ritorte, conchiglie e serpentine occupano la terza sala che riflette le teorie copernicane e la destabilizzazione di un mancato geocentrismo. Chiude la mostra una stanza con strumenti per la misurazione, parti del corpo umano dedite alla ricezione e invio dei messaggi e marchingegni in bilico su 9 tavoli inclinati, che eludono la nozione stessa di tavolo come sostegno.
Eliseo è un temperamento operoso, che scatena nebulosi trofei pronti a coronare o inchiodare i gesti inventivi più umili […]. Io non so se Eliseo Mattiacci è un pittore o scultore o che so io o che cos’altro, ma è certo il più scientifico e meticoloso autore; è il più tagliente, il più fondo, acceso e deciso, indovinatore.
Emilio Villa, catalogo della mostra
Eliseo Mattiacci è uno dei maggiori artisti che, assieme a Pascali e Kounellis, ha caratterizzato l’area romana dall’inizio degli anni sessanta, cominciando con lavori che chiamavano in causa lo spazio ambientale e orientandosi poi alla realizzazione di opere con una propria fisicità. Esemplare la sala alla Biennale di Venezia del 1972.
EXPLODING HOUSE
 
a cura di Zeno Birolli.
 
Vito Acconci presenta Exploding House al PAC. La mostra è a cura di Zeno Birolli, che all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato il ciclo “Installazioni” – una serie di interventi che prevedono il confronto diretto di opere, per la maggior parte nuove, di artisti scelti in ambiti diversi e tali da opporsi e/o interagire tra loro, con lo spazio e i visitatori – con i lavori Vincenzo Agnetti e Francesco Clemente.
 
In questo secondo appuntamento Acconci, cui è affiancato da Eliseo Mattiacci, occupa tutto il parterre del PAC con un lavoro che interessa lo spazio architettonico e le sue tensioni fino a sovrapporsi a esso.
 
Lungo la grande vetrata che si affaccia sul Giardino della Villa Reale viene allestita una grande casa nera. Intorno, delle biciclette invitano gli spettatori a pedalare verso la casa. Grazie all’azione del pubblico, la struttura si apre e all’interno della casa compaiono figure di legno, di colore diverso rispetto all’esterno, tra le quali una donna con un boa di struzzo rosa e un’altra figura con delle bandiere cucite insieme.
 
A partire da Instant House — esposta nel febbraio 1980 a New York e, a giugno, alla Biennale di Venezia — l’artista progetta opere che richiedono un diretto coinvolgimento dello spettatore. Dalle performance provocatorie degli anni Settanta (dove la sua figura è sempre presente, fisicamente o attraverso il video, la fotografia, le registrazioni della sua voce) il suo linguaggio si evolve già a partire dagli anni Ottanta verso la realizzazione di sculture, strutture smontabili, “mobile architectural unit”, il cui sviluppo, nel 1988, è la fondazione dello studio di progettazione architettonica Acconci Studio.
 
LETTURE PARALLELE IV
 
a cura di Germano Celant
L’artista Luciano Fabro, protagonista tra i più emblematici del rinnovamento artistico milanese negli anni Sessanta, allestisce al PAC la sua mostra Letture parallele IV creando per la prima volta uno dei suoi Habitat: le sue opere, create per essere esposte fino a quel momento in abitazioni o gallerie, dialogano con lo spazio museale e architettonico per restituire una dimensione più domestica.
All’esterno il visitatore veniva accolto dalla scultura Ruota (1964), per poi trovarsi di fronte, nella prima sala, la lunga tavola di Iconografie. Nel percorso delle sale si incontravano le strutture scultoree in acciaio Croce, Squadra e Asta (1965), insieme all’installazione Cielo e la superficie riflettente di Buco (1963).
Grandi teli sospesi sulle teste dei visitatori, sui quali l’artista crea simmetriche macchie di Rorschach, collegano tra loro le diverse sale. E’ al PAC che per la prima volta Fabro crea i suoi Habitat, eredità ma anche superamento degli Ambienti spaziali di Fontana, che diventeranno in seguito la sua via per ripensare il rapporto tra artista, opera e spettatore.
Poche settimane più tardi l’apertura della mostra al PAC, Fabro è invitato alla XXXIX Biennale di Venezia e ritenendo che le condizioni espositive non fossero adeguate per la realizzazione di un nuovo Habitat, si limita a scrivere il proprio nome a lettere cubitali con dei tubi al neon e con enormi didascalie alle pareti rimanda polemicamente il pubblico ad andare al PAC.
[fonte: catalogo del Museo del Novecento, 2010]
DAL COLORE ALL’ARCHITETTURA E RITORNO
 
a cura di Germano Celant
 
5 colori, centinaia di metri di carta da parati, migliaia di righe verticali larghe 8,7 cm.
Il PAC diventa un’opera d’arte grazie all’intervento di Daniel Buren, uno dei più grandi rappresentanti dell’arte concettuale.
Blu, giallo, marrone, rosso e verde sono i colori scelti a priori dal curatore Germano Celant, ignaro di come sarebbero poi stati utilizzati all’interno dello spazio espositivo.
Buren decide che i colori si sarebbero succeduti in ordine alfabetico, dalla prima all’ultima sala, e in modo crescente, partendo da terra: 1/5 di blu per la prima sala, 2/5 di giallo per la seconda, 3/5 di marrone per la terza, 4/5 di rosso per la quarta e la quinta tutta verde. In fondo ad ogni sala lascia dei riquadri vuoti o colorati, in corrispondenza delle finestre cieche che si trovano sul muro esterno del Padiglione in via Palestro. All’esterno ogni finestra viene ricoperta da una carta rigata di colore uguale a quello della sala interna corrispondente. Il nero invece è utilizzato per sottolineare (o rivelare) le strutture portanti dell’edificio o per ricoprire gli elementi decorativi già esistenti.
 
Nel corso della sua carriera Daniel Buren ha creato opere che implicano il rapporto tra l’arte e le strutture che la ospitano. Nel 1965 le strisce verticali larghe 8,7 cm diventano punto di partenza per la sua ricerca su cos’è la pittura, come viene presentata e, più in generale, sull’ambiente fisico e sociale in cui un artista lavora. Tutti i suoi interventi sono site specific: una ricerca meticolosa che a tratti può sembrare ripetitiva, ma che invece viene ridisegnata adattandosi perfettamente al luogo. Pochi anni dopo l’intervento al PAC l’artista partecipa alla 42a Biennale di Venezia (1986) aggiudicandosi il Leone d’Oro per il miglior Padiglione Nazionale. Mostre personali gli sono state dedicate dai più importanti musei internazionali e i suoi interventi hanno interessato musei, gallerie e luoghi pubblici in tutto il mondo, tra i più recenti quello a L’Avana (Cuba, luglio 2018).