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YURI ANCARANI

 

a cura di Diego Sileo e Iolanda Ratti

 

Dal 4 aprile il PAC presenta LASCIA STARE I SOGNI la prima mostra monografica in Italia dedicata alla ricerca visionaria e poetica di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972), le cui opere nascono da un’originale e accurata commistione fra cinema documentario e arte video. Con lo stesso sguardo lucido e imparziale che contraddistingue da sempre il punto di vista dell’artista, l’esposizione si propone di far emergere gli aspetti più autentici della SUA produzione, rivelandone le diverse sfumature e i codici linguistici attraverso una vasta selezione di lavori del passato e una nuova opera pensata appositamente per il PAC.

 

 

Il titolo della mostra, Lascia stare i sogni, è una citazione tratta dal suo ultimo film, Atlantide: è la frase che il protagonista Daniele dice alla giovane fidanzata Maila, e che diventa un invito a vedere la mostra senza far riferimento a quei sogni che spesso l’industria cinematografica è solita evocare.

 

Per la prima volta i film di Ancarani, presentati nei maggiori festival e nei più prestigiosi musei d’arte contemporanea del mondo, si potranno vedere riuniti in una sola sede, grazie ad una selezione che va dagli esordi ai giorni nostri. Immagini in movimento impalpabili, che esistono e si muovono in ogni ambito, attraversando i confini stabiliti tra arte visiva e cinema.

 

Promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra è curata da Diego Sileo e Iolanda Ratti, realizzata in partnership con il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna ed è evento di punta di Milano Art Week (11 – 16 aprile 2023).

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Yuri Ancarani è nato nel 1972 a Ravenna ma vive e lavora a Milano. Le sue opere nascono da un’originale e accurata commistione fra cinema documentario e arte contemporanea.
Artista vincitore del premio ACACIA 2023, Ancarani ha esposto i suoi lavori in prestigiosi musei e mostre nel mondo tra cui Kunstverein Hannover (Germania), Castello di Rivoli (Rivoli Torino, Italia), Manifesta 12 (Palermo, Italia), Kunsthalle Basel (Basilea, Svizzera), 55° Biennale di Venezia, Centre Pompidou (Parigi, Francia), Hammer Museum (Los Angeles, USA) e Palais de Tokyo (Parigi, Francia), ricevendo anche numerosi riconoscimenti come il “Premio speciale della giuria Cl+” Cineasti del presente, 69° Locarno Film Festival (Locarno, Svizzera), il “Grand Prix in Lab Competition”, Clermont Ferrand Film Festival (Clermont Ferrand, Francia) e arrivando tra i finalisti del David di Donatello 2022 per il miglior documentario.

 

Photo: Yuri Ancarani, Il Capo, 2010. Film still. Courtesy Studio Ancarani

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Con il sostegno di

 

QUANDO LA PAURA MANGIA L’ANIMA

 

a cura di Diego Sileo

 

Prima mostra personale in Italia di Artur Żmijewski, una delle figure radicali più importanti sulla scena artistica polacca.

 

La mostra, a cura di Diego Sileo, presenta una selezione di lavori storici e recenti, incluse tre nuove opere pensate appositamente per questo progetto milanese e prodotte dal PAC, come il nuovo film ispirato al cinema scientifico del neurologo Vincenzo Neri e la serie fotografica Refugees/Cardboards, un lungo murale fotografico in bianco e nero dal quale emergono figure umane che hanno l’aspetto di profughi, uomini e donne circondati dall’oscurità e dalla desolazione. Il riferimento è ai tanti rifugiati al confine polacco-bielorusso durante l’estate e l’autunno del 2021, ma che oggi inevitabilmente sono l’immagine anche delle attuali oppressioni belliche in Ucraina.

 

 

La sua opera riflette la preoccupazione per i problemi socio-politici della nostra contemporaneità e attraverso di essa l’artista esamina frequentemente i meccanismi del potere e dell’oppressione all’interno dell’ordine sociale esistente – così come i conflitti di vario tipo che rasentano la violenza – mentre espone l’istintiva inclinazione umana al male. I suoi lavori indagano la relazione tra le emozioni estreme e le loro espressioni fisiche, si occupano dell’interruzione del corpo umano e del funzionamento cognitivo in casi complessi come la malattia o la disabilità, analizzando anche i meccanismi della memoria e del trauma collettivo.

 

Usando la simbolizzazione, Zmijewski stabilisce un intricato sistema di rappresentazione in cui la paura si dispiega in termini di controllo sociale. Quando la paura diventa padrona della nostra vita, si può essere tentati da meccanismi travolgenti o si può accettare masochisticamente il giogo della sottomissione; oppure si possono interpretare i due ruoli contemporaneamente. O semplicemente si può provare a capire quando la paura divora la nostra anima. Come ci spiega Rainer Werner Fassbinder nel suo film del 1974 – cui il titolo della mostra vuole rendere omaggio – “la paura mangia l’anima” è un’espressione usata da arabi e nordafricani per descrivere la loro condizione di immigrati. Una vita piena di paura, una paura esistenziale di tutto e di tutti. Paura di un ambiente straniero e ostile, paura di non poter rivedere i propri cari, paura della solitudine, paura della morte, paura della povertà, paura di essere dimenticati, paura che nessuno ti amerà, paura di un razzismo di Stato. Nel progetto espositivo del PAC, la paura è anche quella della malattia, dei disturbi mentali e della disabilità, quella paura di non essere accettati, capiti, la paura del diverso da noi, la paura di ciò che non sappiamo e che ci spaventa.

 

Żmijewski ha esposto in mostre personali e collettive presso musei e istituzioni di tutto il mondo, tra cui documenta 12 e 14, Biennale di Venezia, MoMA di New York, Tel Aviv Museum of Art e Neuer Berliner Kunstverein. Nel 2012 ha curato la settima edizione della Biennale d’Arte Contemporanea di Berlino.

 

AUTORITRATTO

 

a cura di Diego Sileo e Douglas Fogle

 

Il PAC presenta la prima ampia mostra personale di Luisa Lambri in Italia, un progetto espositivo pensato e sviluppato appositamente per il padiglione milanese.

 

Concentrandosi principalmente sulla fotografia, il lavoro di Lambri è caratterizzato da un impegno con un esteso spettro di soggetti che ruotano attorno alla condizione umana e al suo rapporto con lo spazio, come la politica della rappresentazione, l’architettura, la storia della fotografia astratta, il modernismo, il femminismo, l’identità e la memoria.

L’installazione delle sue fotografie e lo spazio espositivo costituiscono una parte integrante del suo lavoro. Ogni nuovo luogo che accoglie una sua installazione presenta qualità uniche con le quali l’artista interagisce, rendendo ogni progetto un’opera site-specific. Le opere di Lambri non sono mai installate indipendentemente dalla struttura che le ospita.

 

Il titolo della mostra al PAC è un omaggio alla critica d’arte Carla Lonzi che nel 1969, prima di lasciare la professione per dedicarsi alla militanza femminista, pubblica sotto il titolo di “Autoritratto” una raccolta di interviste con quattordici artisti scelti da lei nell’esperienza dell’avanguardia anni ‘60. Il dialogo che ne deriva dà una dimensione degli artisti privata e che privilegia il loro ruolo attivo nel parlare in prima persona di sé e del proprio stare nell’arte e nel mondo. Allo stesso modo Lambri costruisce letture personali e intime dei soggetti da lei scelti per i suoi lavori e incoraggia un dialogo tra l’osservatore, l’opera d’arte e lo spazio in cui si trova nel loro complesso.

 

Il progetto al PAC si concentra sui rapporti tra le opere di Lambri e l’architettura di Ignazio Gardella. Le fotografie diventano una vera estensione dello spazio e, di conseguenza, l’architettura di Gardella e l’esperienza soggettiva dei visitatori una parte integrante del lavoro.

Una vasta selezione di opere, alcune mai presentate prima in Italia e realizzate tra il 1999 e 2017, sottolineano la sua tendenza a lavorare in serie. Lambri si pone in dialogo con il lavoro di artisti come Donald Judd, Robert Irwin, Lygia Clark e Lucio Fontana oltre che il lavoro di architetti come Álvaro Siza, Walter Gropius, Marcel Breuer, Mies van der Rohe, Luis Barragán, Rudolph Schindler, Paulo Mendes da Rocha e Giuseppe Terragni, tra gli altri.

 

L’allestimento della serie Untitled (Sheats-Goldstein House), 2007, nel parterre del PAC, coinvolge anche un altro importante architetto: l’italiana Lina Bo Bardi, che nel 1957 ricevette l’incarico per la progettazione del nuovo Museo di Arte Moderna di San Paolo del Brasile (MASP). Le dieci fotografie selezionate sono esposte sui cavalletti realizzati da Bardi per il museo brasiliano, qui riprodotti in collaborazione con l’Instituto Bardi di San Paolo.

 

Nata a Como nel 1969, Luisa Lambri attualmente vive a Milano. Il suo lavoro è stato esposto alla Quadriennale di Roma (2020 e 2005), alla Triennale di Cleveland (2018), alla Biennale di Architettura di Chicago (2017), alla Biennale di Liverpool (2010) e alla Biennale di Venezia (Architettura 2010 e 2004; Arte 2003 e 1999). Le hanno dedicato mostre personali il Met Breuer di New York (2017) e l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston (2012), l’Hammer Museum di Los Angeles (2010), il Baltimore Museum of Art (2007), la Menil Collection di Houston (2004) e Kettle’s Yard di Cambridge (2000), e le sue opere sono state esposte in numerose collettive, tra le tante al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh (2019 e 2006), alla Tate Modern di Londra (2018), al Museum of Contemporary Art di Chicago (2009). Il lavoro di Lambri è incluso inoltre in diverse collezioni, tra le quali il Museum of Modern Art di San Francisco, il J. Paul Getty Museum di Los Angeles e il Solomon Guggenheim Museum di New York.

 

La mostra è co-curata da Diego Sileo e Douglas Fogle, e sarà accompagnata da un catalogo bilingue che comprende le immagini delle opere esposte, le vedute di installazione e nuovi saggi critici.

LA VERITÀ ANCHE A SCAPITO DEL MONDO

a cura di Diego Sileo

 

Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta la prima mostra personale in Italia di Tania Bruguera, artista e attivista le cui performance e installazioni esaminano le strutture del potere ed esplorano i modi in cui l’arte può essere applicata alla vita politica quotidiana.

 

Durante la mostra  il pubblico al PAC sarà chiamato ad “esplorare” la verità attraverso una serie di installazioni e azioni – alcune delle quali attivate quotidianamente da performers.

Scopri gli orari di attivazione delle performance>>

 

La mostra al PAC presenta una selezione delle azioni più significative dell’artista e alcuni nuovi lavori pensati per lo spazio milanese, tra i quali un’opera realizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Ex Deportati nei Campi Nazisti (ANED) che denuncia le ingiustizie subite dai migranti.

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In meno di dieci anni l’Europa ha costruito chilometri di barriere di frontiera (l’equivalente di sei muri di Berlino) per ostacolare i flussi migratori. Nella nuova opera pensata per il PAC Tania Bruguera adotta un parallelismo storico: un filo spinato, cucito a mano da sopravvissuti e discendenti di deportati durante la Seconda Guerra Mondiale, unisce le stelle della bandiera europea e ci ricorda che “The poor treatment of migrants today will be our dishonor tomorrow”.

↓ Guarda il trailer ↓

 

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Il titolo della mostra è una citazione Hannah Arendt, punto di riferimento imprescindibile per la ricerca di Tania Bruguera. In una leggendaria intervista alla televisione della Repubblica federale tedesca, realizzata da Günter Gaus il 28 ottobre del 1964, alla domanda se ritenesse suo dovere pubblicare tutto quello di cui veniva a conoscenza o vi fossero motivi validi per tacere su alcune cose, Hannah Arendt rispose con la citazione latina fiat veritas et pereat mundus: sia detta la verità anche a scapito del mondo.

Premiata con riconoscimenti come il Premio Robert Rauschenberg, la Guggenheim Fellowship e il Prince Claus Fund Laureate, Bruguera ha esposto nelle istituzioni di tutto il mondo, tra cui la Tate di Londra, la Biennale di Venezia e documenta 11. Le sue opere si trovano nella collezione del Guggenheim Museum, del MoMA, del Van Abbemuseum, della Tate e del Museo Nacional de Bellas Artes de La Habana. Dal 2021 è Senior Lecturer in Media & Performance alla facoltà di Teatro, Danza e Media di Harvard.

CESARE VIEL

a cura di Diego Sileo

Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta PIÙ NESSUNO DA NESSUNA PARTE, la più ampia mostra personale di Cesare Viel in uno spazio pubblico, che ripercorre la pratica performativa dell’artista centrata sul connubio tra rappresentazione visiva e verbale.
Promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra è curata da Diego Sileo e inaugura in occasione della Quindicesima Giornata del Contemporaneo indetta da AMACI e dedicata all’arte italiana.

Attraverso azioni performative e installazioni ambientali Viel esplora sin dai primi anni Novanta i processi attraverso i quali l’identità si costruisce e si decostruisce, rivelandosi un luogo di attraversamento che conserva le tracce di ogni passaggio.
La mostra presenta lavori inediti e nuove versioni di installazioni e performance storiche, realizzate dall’artista in dialogo con l’architettura del PAC.
I luoghi dell’assenza evocati dal titolo rivelano discrete, silenziose e spesso fantasmatiche presenze che affiorano dal vissuto dell’artista in un racconto costantemente ridefinito dalla relazione con i fatti della storia recente, le convenzioni sociali, i pensieri e le parole degli autori o degli artisti prediletti, la vicinanza o la lontananza delle persone amate.
Performance, travestimento, trasformazioni, trucco, recite o canzoni: addentrandosi in altri corpi e altre storie, Viel immagina forme di soggettività altre che interpretano l’arte come momento di scambio emozionale e di relazione con la collettività.

In catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, nuovi testi del curatore, di Francesco Bernardelli, Emanuela De Cecco, Francesca Guerisoli, Laura Guglielmi, Antonio Leone e dello stesso Cesare Viel.

Ad accompagnare il pubblico tra le opere una guida gratuita alla mostra a cura di Paola Valenti, docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Genova.

RIATTIVAZIONE PERFORMANCE
Ogni giovedì h 18:30—20:30 e domenica h 17:30—19:30 vengono riattivate due performance di Cesare Viel
→ LOST IN MEDITATION
→ ALADINO È STATO CATTURATO

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Una mostra Comune di Milano – Cultura; PAC Padiglione d’Arte Contemporanea; Silvana Editoriale
In occasione della 15ª Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI
Sponsor PAC TOD’S Group
Con il contributo di Alcantara; Cairo Editore; Kartell
Con il supporto di Vulcano

UFFICIO STAMPA PAC
PCM Studio di Paola C. Manfredi T 02 36769480 press@paolamanfredi.com

UFFICIO STAMPA SILVANA EDITORIALE
Lidia Masolini T 02 45395111 press@silvanaeditoriale.it

UFFICIO STAMPA COMUNE DI MILANO
Elena Conenna elenamaria.conenna@comune.milano.it

Eva Marisaldi

a cura di Diego Sileo

 

Il 18 dicembre il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea riapre al pubblico con la personale di Eva Marisaldi, tra le artiste più rilevanti della generazione nata negli anni Sessanta verso la quale il PAC ha scelto di indirizzare una delle linee di ricerca della sua programmazione annuale: la promozione e la valorizzazione dell’arte contemporanea italiana.

 

Promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra è curata da Diego Sileo e aggiunge un’ulteriore tappa alla ricerca dell’artista con una nuova riflessione che parte dai suoi primi anni di produzione e arriva fino ai giorni nostri, attraverso un’ampia selezione di lavori passati e la creazione di nuove opere pensate appositamente per gli spazi del PAC.

 

Caratterizzate da una lirica vena narrativa, le opere di Marisaldi prendono spunto dalla realtà per concentrarsi sugli aspetti nascosti della nostra quotidianità. Fotografie, azioni, performance, video, animazioni, installazioni alternate a tecniche più tradizionali e artigianali come il disegno e il ricamo, ci trasportano in dimensioni altre, dove tutto può succedere e dove tutto rimane sospeso.

 

Quello evocato dal titolo è un trasporto ipotetico, metaforico, eccezionale nei mondi creati da Eva Marisaldi, popolati da suoni, narrazioni, emozioni, gioco e poesia, riferimenti al teatro, al cinema e alla letteratura, ma anche da viaggi che esplorano con la stessa curiosità territori lontani e complessità dell’essere umano.

 

In catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, testi inediti del curatore, di Emanuela De Cecco, Arabella Natalini ed Elena Volpato.

 

ANNA MARIA MAIOLINO

 

a cura di Diego Sileo

 
Dal 29 marzo al 9 giugno 2019 il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta la più ampia retrospettiva dell’artista italo-brasiliana Anna Maria Maiolino, la prima in un’istituzione pubblica italiana.

Traendo ispirazione dall’immaginario quotidiano femminile e dall’esperienza di una dittatura oppressiva e censoria – quella del Brasile negli anni Settanta e Ottanta – Maiolino realizza opere ricche di energia vitale, che fondono in uno stile inimitabile la creatività italiana e la sperimentazione delle avanguardie brasiliane.

Attraversata dal tema dell’amore per le sue origini, la sua famiglia, la sua terra d’adozione e il suo lavoro, l’opera di Maiolino indaga i rapporti umani, le difficoltà comunicative e di espressione, e percorre il labile confine tra fisicità e sfera intima e spirituale.

Con una selezione di oltre 300 opere dell’artista che spaziano dai primissimi disegni fino alle ultime creazioni, la mostra include anche le grandi pitture degli anni Novanta, mai esposte prima, e opere provenienti dai più importanti musei Brasiliani come il MAM di Rio de Janeiro, il MASP e la Pinacoteca di Stato di San Paolo. Disegni, dipinti, sculture, fotografie, video e installazioni – di cui una site specific realizzata interamente in argilla – raccontano per decadi una storia artistica iniziata nei primi anni Sessanta e ancora oggi vitale e fertile, in grado di influenzare molti artisti delle nuove generazioni.

Promossa dal Comune di Milano e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra si sposterà a Londra nel settembre 2019 grazie alla collaborazione con la Whitechapel Gallery.
 

 
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Una mostra Comune di Milano – Cultura; PAC Padiglione d’Arte Contemporanea; Silvana Editoriale
In collaborazione con Whitechapel Gallery
Sponsor PAC TOD’S Group
Partner mostra Tendercapital
Con il contributo di Alcantara; Cairo Editore
Con il supporto di Vulcano
Media partner Sky Arte

YA BASTA HIJOS DE PUTA. TERESA MARGOLLES

a cura di Diego Sileo

 

Il PAC di Milano presenta la personale di Teresa Margolles (Culiacán,1963), artista messicana che vive e lavora tra Città del Messico e Madrid. Con una particolare attitudine al crudo realismo, le sue opere testimoniano le complessità della società contemporanea, sgretolata da un’allarmante violenza che sta lacerando il mondo e soprattutto il Messico. Vincitrice del Prince Claus Award 2012, Teresa Margolles ha rappresentato il Messico nella 53° Biennale di Venezia nel 2009 e le sue opere sono state esposte in numerosi musei, istituzioni e fondazioni internazionali.

Con uno stile minimalista, ma di forte impatto e quasi prepotente sul piano concettuale, le 14 installazioni di Margolles in mostra al PAC esplorano gli scomodi temi della morte, dell’ingiustizia sociale, dell’odio di genere, della marginalità e della corruzione generando una tensione costante tra orrore e bellezza.

 

Promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra si inserisce nel calendario dell’Art Week, la settimana milanese dedicata all’arte contemporanea, in occasione della quale l’artista presenta una performance tributo a Karla, prostituta transessuale assassinata a Ciudad Juárez (Messico) nel 2016. Un gesto forte, che lascerà una ferita aperta sui muri del PAC e vedrà protagonista Sonja Victoria Vera Bohórquez, una donna transgender che si prostituisce a Zurigo.

 

La mostra si inserisce nella prima delle quattro linee di ricerca del PAC, quella che durante le settimane in cui Milano diventa vetrina internazionale con miart e Salone del Mobile e vede protagonisti i grandi nomi del panorama artistico internazionale: Teresa Margolles (2018) e Anna Maria Maiolino (2019).

 

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una mostra Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Silvana Editoriale

sponsor PAC TOD’S

con il contributo di Alcantara e Cairo Editore

con il supporto di Vulcano

IO, LUCA VITONE

a cura di Luca Lo Pinto e Diego Sileo

 

In occasione della Tredicesima Giornata del Contemporaneo dedicata all’arte italiana, il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta Io, Luca Vitone, la prima ampia antologica dedicata all’intensa e varia produzione dell’artista italiano nato a Genova nel 1964 e oggi di stanza a Berlino.

 

Partendo dall’architettura, fisica e storica, dei luoghi, Vitone analizza una dimensione personale costruita attraverso la stratificazione di diversi linguaggi legati all’identità e alle radici del luogo stesso. Come un viaggiatore curioso e instancabile, con uno spirito a metà tra l’anarchico e il nomade, il suo lavoro esplora i modi in cui i luoghi costruiscono la loro identità attraverso la cultura: arte, musica, architettura, politica e minoranze etniche.

 

Promossa da Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC di Milano con Silvana Editoriale in collaborazione con il Museo del Novecento e i Chiostri di Sant’Eustorgio, la mostra è curata da Luca Lo Pinto e Diego Sileo e apre in occasione della Tredicesima Giornata del Contemporaneo, indetta per sabato 14 ottobre 2017 da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani di cui il PAC è socio fondatore dal 2003.

 

La mostra resterà aperta nelle tre sedi ad ingresso gratuito per tutta la giornata con appuntamento speciale nel giardino tra il PAC e la GAM alle ore 17:00 insieme al gruppo di cantori del tradizionale Trallallero genovese La Squadra.

 

La Giornata del Contemporaneo vede impegnato il Padiglione milanese da oltre 10 anni nella promozione dell’arte contemporanea italiana con la progettazione di monografiche dedicate ad artisti italiani d’origine, o che hanno scelto il nostro Paese come luogo di formazione e lavoro, affermati ormai nel panorama internazionale, tra i quali Alberto Garutti, Silvio Wolf, Franko B, Adrian Paci, Armin Linke: una linea di programmazione che prosegue oggi con la mostra di Luca Vitone.

 

La mostra al PAC attraversa trent’anni di carriera artistica di Luca Vitone, riunendo per la prima volta i suoi progetti più significativi. Modulandosi sull’architettura dello spazio, l’allestimento si articola nelle diverse sale, ciascuna dedicata ad uno specifico corpo di opere installate nella loro versione originale. Pensando l’intera mostra come un medium, Vitone trasforma infatti lo spazio fisico dell’istituzione in un opera che funziona come un palinsesto attraverso il quale mostrare i suoi lavori, riproponendo per l’occasione un’opera degli esordi ricontestualizzata nello spazio espositivo e una nuova versione dei suoi lavori realizzati con la polvere. Allo stesso modo utilizza il catalogo come ulteriore espansione della mostra.

 

Il progetto si estende inoltre alla città di Milano in due sedi.

 

Il Complesso museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio – che comprende una delle basiliche più antiche di Milano fondata nel IV secolo – ospita infatti una sezione, curata da Giovanni Iovane, con opere realizzate tra la fine degli anni ‘80 a oggi, in armonia con uno dei luoghi dell’arte e dello spirito più importanti della città.

 

Il Museo del Novecento invece allestisce per la prima volta l’opera Wide City (1998), acquisita dal Comune di Milano nel 2004. Centro dell’installazione è un modellino della Torre Velasca, architettura simbolo della città, intorno a cui sono disposte 180 fotografie, scattate dall’artista, che ritraggono luoghi particolarmente significativi per alcune delle più numerose comunità di stranieri presenti a Milano.

 

La mostra è realizzata con il sostegno di TOD’S, sponsor dell’attività espositiva del PAC, con il contributo di Alcantara e  Cairo Editore e con il supporto di Vulcano.

 

Il catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, include una lunga conversazione tra Luca Lo Pinto e l’artista e i saggi di Barbara Casavecchia, Jörg Heiser, Giovanni Iovane e Diego Sileo. Concepito come un’ulteriore estensione della mostra, il volume racchiude le riproduzioni di tutte le opere realizzate dall’artista in dialogo con le recensioni delle mostre in cui le opere erano state originariamente esposte, introdotte dai contributi di: Martina Angelotti, Carlo Antonelli, Marco Belpoliti, Ilaria Bonacossa, Michela Casavola / Giacomo Zaza, Roberto Castello, Luca Cerizza, Stefano Chiodi, Giulio Ciavoliello, Simone Ciglia, Andrea Cortellessa, Roberto Costantino, Anna Daneri, Vincenzo De Bellis, Emanuela De Cecco, Elena Del Drago, Rebecca De Marchi, Arianna Di Genova, Giacinto Di Pietrantonio, Eva Fabbris, Paolo Falcone, Silvia Fanti, Giorgio Fasol, Paolo Finzi, Emi Fontana, Raffaella Frascarelli, Giorgio Galli, Gianni Garrera, Giuseppe Garrera, Daniele Gasparinetti, Michele Gialdroni, Elio Grazioli, Barbara Hess, Franco La Cecla, Andrea Lissoni, Enrico Lunghi, Teresa Macrì, Angela Madesani, Guido Mazzoni, Viktor Misiano, Christian Nagel, Alessandro Nieri, Francesca Pasini, Cesare Pietroiusti, Bartolomeo Pietromarchi, Roberto Pinto, Massimo Quaini, Alessandro Rabottini, Letizia Ragaglia, Federico Rahola, Iolanda Ratti, Sandro Ricaldone, Carlo Romano, Alberto Ronchi, Raphael Rubinstein, Claudio Ruggieri Pintapiuma, Gabriele Sassone, Gabi Scardi, Eva Scharrer, Roswitha Schieb, Marco Scotini, Marco Scotti, Diana Segantini, Giuliana Setari, Daniel Soutif, Martin Sturm/Maria Venzl, Francesco Tedeschi, Riccardo Venturi, Giorgio Verzotti, Cesare Viel, Mirko Zardini, Adachiara Zevi.

 

Un ricco public program ispirato alle opere in mostra coinvolgerà come sempre il pubblico di grandi e piccoli nell’universo dell’artista: laboratori olfattivi, workshop di canto polifonico, lezioni di arte contemporanea, visite guidate con i curatori, incursioni di teatro, letteratura, musica e botanica urbana.

 

 

una mostra Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Silvana Editoriale

in collaborazione con Museo del Novecento e Chiostri di Sant’Eustorgio

in occasione della Tredicesima Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI

sponsor PAC TOD’S

con il contributo di Alcantara e Cairo Editore

con il supporto di Vulcano

 

IL TERRITORIO DELL’ARCHITETTURA. Gregotti e Associati 1953_2017

A cura di Guido Morpurgo. Allestimento: Studio Cerri & Associati. Ordinamento: Sergio Butti

 

In occasione dei novant’anni di Vittorio Gregotti, il PAC celebra la carriera del grande architetto Italiano con una mostra antologica, raccontando la sua ampia attività e quella del suo studio in oltre sessant’anni di progetti in Italia e all’estero.

 

La mostra inaugura una nuova linea di programmazione con la quale il PAC, durante il periodo invernale, celebrerà i grandi maestri italiani dell’architettura e del design, ponendo il loro lavoro in relazione al Padiglione come esemplare monumento del nostro modernismo. La sequenza di mostre continuerà nel 2018 con l’antologica su Enzo Mari e nel 2019 con una mostra dedicata a  Ignazio e Jacopo Gardella.

 

Dal 1953 fino ad oggi Vittorio Gregotti ha condiviso il suo studio con diverse personalità tra cui Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino, Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui, Bruno Viganò, Carlo Magnani, Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi oltre a Partners esterni quali Manuel Salgado e Saad Benkirane, gli Associati e a una folta schiera di collaboratori.

 

La sua attività rappresenta una sorta di unicum nell’architettura europea, caratterizzata da un’unità metodologica e un impegno integrale in tutte le scale del progetto: architettura, disegno urbano, interni e allestimenti museali, arredi e prodotto industriale, grafica ed editoria.

 

Il titolo della mostra, tratto dal titolo di un suo omonimo libro, stabilisce un’ideale continuità e una forma di rispecchiamento con il territorio dell’architettura come superficie di incontro tra contributi provenienti da altre esperienze e discipline.

 

Con 60 disegni, 40 modelli originali in scala e 700 tra riproduzioni e fotografie, la mostra guiderà il visitatore all’interno del Territorio dell’architettura disegnato da Gregotti: dalle opere degli anni ’50, attraverso i progetti antropogeografici degli anni ’70 come le università di Firenze e della Calabria e quelli per le città europee degli anni ’80 come Berlino e il centro culturale di Belém a Lisbona, fino ai progetti più recenti in Africa e Pujiang in Cina.

 

Un percorso di ricerca, ma anche una forma di resistenza contro la dissoluzione dell’architettura nella comunicazione, per riportare la figura dell’architetto nell’alveo della grande cultura europea.

 

Il catalogo della mostra, edito da Skira Editore, comprende i contributi critici di Rafael Moneo, Joseph Rykwert e Franco Purini.

 

La mostra è realizzata con il sostegno di TOD’S, sponsor dell’attività espositiva del PAC, con il contributo di Alcantara e Cairo Editore e con il supporto di Vulcano.

 

 

una mostra Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Silvana Editoriale

MEA CULPA

a cura di a cura di Diego Sileo e Lutz Henke

 

Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano presenta MEA CULPA, la prima grande antologica in Italia dedicata all’artista concettuale Santiago Sierra. Nato nel 1966 a Madrid, da quasi trent’anni il suo lavoro si muove sul terreno impervio della critica alle condizioni sociopolitiche della contemporaneità.

 

Messaggero della cupa verità del nostro tempo, Sierra è spesso stigmatizzato per le sue performance intense ed ambigue. Eppure il loro linguaggio visivo, il simbolismo complesso ed energico, il loro essere calate nella realtà delle persone conferisce loro un raro impatto emozionale. Sierra ha esposto in prestigiosi musei ed istituzioni nel mondo e nel 2003 ha rappresentato la Spagna alla 50a Biennale di Venezia. La mostra al PAC riunisce per la prima volta le opere politiche più iconiche e rappresentative dell’artista, dagli anni Novanta a oggi, e la documentazione di sue numerose performance realizzate in tutto il mondo, insieme a nuove produzioni e riattivazioni di installazioni e azioni passate.

 

Con la mostra di Santiago Sierra il PAC attiva la prima delle quattro linee di racconto sulle quali si muove il suo palinsesto annuale, proponendo in occasione di miart mostre di artisti conosciuti e affermati nel panorama artistico internazionale.

Promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra apre il calendario di appuntamenti dell’Art Week, la settimana milanese dedicata all’arte contemporanea.

 

 

una mostra Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Silvana Editoriale

SO FAR SO GOUDE

Disegnatore, designer, fotografo, regista Jean-Paul Goude  è uno dei più brillanti creatori di immagini nel panorama creativo contemporaneo, capace di spaziare con agilità dalla moda alla fotografia, dalla pubblicità allo spettacolo dal vivo. Artista precursore, manipolatore d’immagini ma anche illustratore e direttore artistico, Jean-Paul Goude è prima di ogni altra cosa un genio creatore, capace di dar vita ad uno stile, un universo, quasi una mitologia personale.

 

Fin dall’inizio del  XX secolo la grafica pubblicitaria ha segnato la nostra cultura. I grandi creativi in questo settore hanno giocato un ruolo decisivo nella formazione dell’immaginario visivo di ciascuna epoca, dando corpo ed espressione al gusto del loro tempo e lasciando il segno nella nostra memoria.

 

In questa tradizione si inserisce il lavoro di Jean-Paul Goude,  che fin dagli anni Sessanta ha raffigurato le sue muse e utilizzato tecniche tanto originali da far sì che le sue creazioni diventassero opere d’arte e simbolo di un’intera epoca.

 

Attraverso più di 230 fotografie la mostra al PAC di Milano racconta l’universo onirico dell’artista, una visione unica che trasforma le sue campagne pubblicitarie in punti di riferimento di stile e plasma la fisicità delle modelle che lo hanno ispirato, Grace Jones e Farida Khelfa tra tutte. Un universo  femminile declinato attraverso i colori, modellato, amplificato, sublimato e divenuto negli anni leitmotiv del  lavoro del fotografo francese.

 

Dalle copertine della rivista Esquire alla New York di Warhol, dalla pubblicità per le grandi aziende e per le più importanti case di moda fino alla direzione artistica dell’eclatante sfilata sugli Champs Élysées in occasione del Bicentenario della Rivoluzione Francese a Parigi nel 1989, J.P. Goude ha saputo cogliere lo spirito del suo tempo e connotarlo attraverso un’espressione definitiva.

 

La potenza del linguaggio e la forza della fantasia di Goude al PAC trasporteranno il visitatore in un mondo dall’atmosfera magica, con un senso di mistero che lascia il segno e  allo stesso tempo è la migliore metafora visiva dell’epoca moderna.

 

Per avvicinare il pubblico al lavoro dell’artista, il PAC organizza come di consueto un programma di visite guidate gratuite, tutte le domeniche alle ore 17.30 previo acquisto del biglietto della mostra.

 

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Promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura e Tod’s, la mostra prosegue una collaborazione tra la prestigiosa azienda internazionale e il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea per la produzione di grandi mostre sugli artisti protagonisti del nostro tempo.

 

L’APPARENZA DI CIÒ CHE NON SI VEDE

a cura di Ilaria Bonacossa e Philipp Ziegler

 

In occasione della 12a Giornata del Contemporaneo dedicata all’arte italiana, il PAC presenta L’apparenza di ciò che non si vede, una mostra concepita come processo di attivazione attraverso il dialogo dell’archivio fotografico di Armin Linke  (Milano, 1966). L’artista ne ha impostato la struttura, invitando vari teorici provenienti da diversi ambiti di ricerca a vagliare un ampio campione della sua opera fotografica. Leggendo le immagini alla luce del proprio quadro teorico, ciascuna/o di loro ha prodotto una selezione, che illustra la sua specifica visione della società contemporanea.

 

Queste selezioni entrano nella mostra organizzate come una mutevole topologia di dialoghi, trasformandosi in relazione all’architettura modernista del PAC.

 

La mostra propone più di centosettanta immagini fotografiche accompagnate da testi e audio, selezionate tra le oltre ventimila fotografie che compongono l’archivio di Armin Linke. Da più di vent’anni l’artista viaggia per il mondo con l’intento di fotografare gli effetti della trasformazione globale delle infrastrutture e l’interconnessione della società postindustriale attraverso l’informazione digitale e le tecnologie della comunicazione. La sua opera può essere considerata un giornale di bordo dei profondi cambiamenti economici, ambientali e tecnologici che modellano il nostro mondo basato sui dispositivi.

 

Per le cinque installazioni del progetto presentate nel 2015/16 allo ZKM (Centro per l’arte e la tecnologia dei media) di Karlsruhe sono stati invitati a dialogare con l’archivio fotografico di Armin Linke gli studiosi: Ariella Azoulay (Tel Aviv, 1962), Bruno Latour (Beaune, 1947), Peter Weibel (Odessa, 1944), Mark Wigley (Palmerston North, 1956), Jan Zalasiewicz (Manchester 1954). Alla mostra del PAC di Milano si aggiungono i contributi di Franco Farinelli (Ortona, 1948), Lorraine Daston (East Lansing, Michigan, 1951) e Irene Giardina (Catania, 1971) e una nuova installazione dei precedenti interventi.

 

Il progetto e la sua struttura mettono a tema la leggibilità dell’immagine fotografica e l’approccio soggettivo a questioni globali, tenendo conto della natura individuale di metodologie e interessi di ricerca.

 

ARTE E ARCHITETTURA RADICALE

Il PAC presenta l’opera di Superstudio (1966-1978),  il collettivo fiorentino di architettura radicale e radical design che non solo ha influenzato il modo di pensare e progettare di grandi architetti come Zaha Hadid, Rem Koolhaas e Bernard Tschumi, ma ha definitivamente messo in discussione il confine tra arte e architettura, affermandosi come l’ultima grande avanguardia italiana.

 

L’allestimento ricostruirà i progetti più importanti di Superstudio,  riunendo i pezzi di design più iconici, le installazioni e i film e costruendo un dialogo con 19 opere realizzate da altrettanti artisti contemporanei che dalla ricerca del collettivo fiorentino hanno tratto materia per il proprio lavoro.

 

Curata da Andreas Angelidakis, Vittorio Pizzigoni e Valter Scelsi, la mostra ricostruirà i progetti più importanti di Superstudio,  riunendo i pezzi di design più iconici, le installazioni e i film e costruendo, come parte del modello di urbanizzazione totale proposto da Superstudio, un dialogo con le opere di 21 artisti contemporanei che dalla ricerca del collettivo fiorentino hanno tratto materia per il proprio lavoro: Danai Anesiadou, Alexandra Bachzetsis, Ila Beka and Louise Lemoine , Pablo Bronstein, Stefano Graziani, Petrit Halilaj and Alvaro Urbano, Jim Isermann, Daniel Keller and Ella Plevin, Andrew Kovacs, Rallou Panagiotou, Paola Pivi, Angelo Plessas, Riccardo Previdi, RO/LU, Priscilla Tea, Patrick Tuttofuoco, Kostis Velonis, Pae White.

 

STARDUST

Con oltre 300 scatti in mostra, Stardust celebra uno dei più grandi fotografi viventi e offre al pubblico uno sguardo inedito su un artista iconico, che ha ritratto in modo creativo e sempre stimolante soggetti e gruppi, catturati nel corso degli ultimi cinque decenni: molti di loro famosi, alcuni sconosciuti, tutti coinvolgenti e memorabili.

 

Promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura e Tod’s, la mostra segna l’inizio di una collaborazione pluriennale tra la prestigiosa azienda internazionale e il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea per la produzione di grandi mostre sugli artisti protagonisti del nostro tempo.

 

Universalmente riconosciuto come uno dei padri fondatori della fotografia contemporanea, David Bailey ( Londra, 1938) è l’autore di alcuni tra i ritratti più iconici degli ultimi cinque decenni. I suoi primi lavori hanno definito, e allo stesso tempo catturato, l’atmosfera degli anni Sessanta a Londra, quando con i suo scatti ha fatto nascere stelle di una nuova generazione, tra cui Jean Shrimpton e Penelope Tree. Scardinando le rigide regole che avevano guidato la precedente generazione di fotografi ritrattisti e di moda, Bailey ha saputo incanalare nel suo lavoro la novità e l’energia della street culture londinese, creando quella freddezza casual che ha contrassegnato il suo stile.

 

Curata dallo stesso artista e realizzata in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra e con il magazine ICON, la mostra contiene una vasta serie di fotografie, selezionate personalmente da Bailey come le immagini più significative o memorabili della sua carriera, che ha attraversato più di mezzo secolo.

 

Innovativa e provocatoria, l’opera d Bailey include immagini intense ed evocative di attori, scrittori, musicisti, registi, icone della moda, designer, modelli, artisti e persone incontrate nel corso dei suoi viaggi.

 

Il coinvolgimento tra artista e soggetto è palpabile e presente in tutti i suoi scatti: da quelli realizzati con celebrities come Meryl Streep, Johnny Depp, Jack Nicholson e Kate Moss, ai nudi di sconosciuti volontari che hanno posato per il suo progetto “Democracy” tra il 2001 e il 2005; dalle icone della musica come i Beatles o i Rolling Stones, a grandi protagonisti delle arti visive come Salvador Dalì ritratto insieme ad Andy Warhol, ma anche Francis Bacon o Damien Hirst.

 

Il percorso della mostra non procede cronologicamente, ma per temi, mettendo a confronto generei molto diversi: dalla fashion photography agli still lives, fino alla fotografia di viaggio. La mostra ripercorre per capitoli ritratti, luoghi e personalità insieme agli scatti raccolti da Bailey intorno al mondo: immagini dell’India, dell’Australia, della Papua Nuova Guinea e del Sudan convivono così in un continuum con quelle dell’East End londinese e quelle più glamour delle “Pin-Up”.

 

Per questa esposizione, l’artista ha realizzato nuove stampe in gelatina d’argento, che gli hanno permesso di rivedere ogni singola immagine. Il suo stile inimitabile e senza tempo cattura lo Zeitgeist e la vitalità della cultura moderna attraverso la sua peculiare interpretazione: le immagini trasmettono una creatività e un temperamento che sono inequivocabilmente targati Bailey.

ASHMAN

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In esclusiva per Milano la prima personale dell’artista cinese contemporaneo in un’istituzione pubblica italiana. La mostra ha ripercorso l’intera ricerca artistica di Zhang Huan riunendo 42 opere provenienti da importanti collezioni internazionali: dalle sue performance di inizio anni Novanta alle sue più recenti opere realizzate con la cenere, pezzi tra i più significativi della sua intera produzione artistica.
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«Ashman» ha affermato Zhang Huan prima della mostra «è l’eroe che porto nel cuore, la personificazione di molti desideri e anime molteplici. Ashman sogna, sostiene la giustizia, definisce un nuovo ordine internazionale, persegue la pace per sconfiggere la guerra terroristica, interagisce con la Terra in maniera ecosostenibile, rende l’umanità più pacifica, più libera. Porterà a Milano una profonda, universale, armonia per l’umanità».
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Il percorso della mostra rifletteva sul tema della spiritualità, tema centrale nella poetica e nella vita di questo protagonista della scena artistica contemporanea internazionale.
Le sue opere prendono vita dall’intrinseco legame tra pratiche spirituali buddhiste ed alcune tecniche tradizionali cinesi, fonti iconografiche e culturali da cui l’artista prende ispirazione, unite ad una estrema versatilità espressiva, propria della contemporaneità. Performance, fotografia, scultura, video, pittura sono in Zhang Huan strumenti per recuperare le proprie radici e le tradizioni della cultura cinese, esprimendo un rapporto intimo con il passato, con la natura, con la storia e con se stesso. Nelle opere di Zhang Huan si ritrovano le antiche tecniche dell’intaglio e della calligrafia, la pratica religiosa di bruciare l’incenso, la scultura in ferro battuto, la raffigurazione di Buddha e di parti sacre del suo corpo, la riproduzione fedele della natura, l’iconografia popolare di propaganda Comunista.
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Tre sculture di grande dimensioni – Buddha Hand, Peace 1 nel cortile esterno del PAC e Berlin Buddha – hanno segnalato la centralità e l’importanza del Buddhismo nella ricerca di Zhang Huan e il suo forte legame con l’iconografia sacra tradizionale. L’affascinante installazione Berlin Buddha, un grande Buddha in cenere collocato di fronte al suo calco in alluminio (al PAC esposto per la prima volta in un’istituzione pubblica) rappresenta il più imponente impiego “scultoreo” della cenere, derivata dalla combustione dell’incenso bruciato nei templi e successivamente raccolto in diversi luoghi di preghiera intorno a Shanghai. L’enorme figura di Buddha in cenere si sgretolava lentamente con il trascorrere della mostra, la scultura si decomponeva pian piano a seconda del contesto circostante: i tremolii del terreno, piccoli spostamenti d’aria, il passaggio di visitatori modificano l’opera fino a far interamente cadere a terra la cenere.
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La mostra ha presentato alcuni tra i più significativi Ash paintings di soggetti diversi – ritratti, scene militari, bandiere, teschi – realizzati con la cenere d’incenso, una palette di sfumature dal bianco al nero che Zhang Huan ha utilizzato come un vero e proprio colore. L’importanza di questo medium risiede nel potere lirico e spirituale di questa “polvere”, resti di un atto di devozione fortemente radicato nella cultura cinese, segno di preghiera e di speranza. Il fascino poetico dell’incenso amplifica la carica emozionale dei dipinti, riportando alla luce ricordi personali e collettivi, come in Samsara, Zhong-Shan-Suit, Winter Night, Felicity No. 5 e i due ritratti di Mao (Mao Portrait No. 1 e Mao Portrait No. 2).
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BIOGRAFIA | Zhang Huan è nato nel 1965 a An Yang City, provincia di Henan, Cina; ha vissuto dal 1998 al 2005 a New York, per trasferirsi nel 2006 a Shanghai, dove attualmente vive e lavora. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei al mondo, come The Museum of Modern Art, Salomon R. Guggenheim Museum e il Metropolitan Museum a New York; lo S.M.A.K. Museum a Gent, Belgio; il Centre Georges Pompidou a Parigi; l’Hara Museum of Contemporary Art di Tokyo e l’Israel Museum di Gerusalemme. Tra le principali esposizioni, ricordiamo la mostra Altered States, Asia Society, New York, 2007, allestita l’anno successivo al Vancouver Art Gallery, Vancouver e la recente prima personale cinese Dawn of Time, Shanghai Art Museum, 2010.
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OPEN OBSCURA

Il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ha presentato la mostra TONY OURSLER. OPEN OBSCURA, curata da Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni.
La mostra presentava un’ampia selezione di lavori, tra cui alcune grandi installazioni realizzate da Oursler. Questa di Milano, che ha aperto in concomitanza con l’edizione di MiArt 2011, è stata una delle più ampie antologiche dedicate al noto artista americano, considerato dalla critica di tutto il mondo una figura di spicco della storia recente della video arte e definito l’ideatore della video-scultura. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dai più grandi musei d’arte moderna e contemporanea internazionale, dal MOMA di New York alla Tate di Londra.
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Tony Oursler è tra gli artisti più innovativi e sperimentali tra quelli che utilizzano il video come mezzo espressivo, convinto che le immagini in movimento, più di quelle statiche, siano estremamente rappresentative della nostra cultura contemporanea. Grazie a lui la video arte si è affrancata dai limiti specifici dello schermo televisivo e dell’immagine proiettata su una superficie uniforme, interagendo in maniera originale con la scultura vera e propria e con il pubblico. La sua arte non si limita cioè a esprimersi attraverso l’immagine video in senso stretto, ma utilizza e sovrappone scultura, design, installazione e performance.
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Il lavoro dell’artista, fin dagli inizi della sua carriera, è dominato da temi quali la violenza, il rapporto con i media, le droghe, le malattie mentali, la cultura pop, la compulsione consumistica, il sesso, l’inquinamento. L’analisi di Oursler si concentra su come tutto questo incida sulla fisicità dell’uomo e sulle relazioni sociali e interpersonali.
Negli anni Novanta, le sue istallazioni includevano sculture-screens (proiezioni su sculture): visi deformati che declamavano monologhi dai risvolti intimisti e in qualche modo deliranti venivano proiettati su volumi irregolari, ma anche su bambole, alberi o nuvole di vapore. Questa serie, intitolata Talking Heads, si è poi evoluta nella serie Eyes (che sarà presentata al PAC in una versione appositamente realizzata e composta da dieci “occhi”), in cui invece l’artista proietta occhi su sfere sparse per lo spazio espositivo. Questi occhi, nei quali si possono vedere pupille che si dilatano, il riflesso dell’iride, il battito delle palpebre, sembrano fissare lo spazio o osservare il visitatore. Questo scambio di sguardi inquietanti tra l’opera e il suo pubblico, il ridurre simbolicamente l’uomo a un occhio, è uno dei temi centrali dell’opera dell’artista americano, imperniata sul rapporto dell’individuo con una dimensione virtuale nella quale si confondono i confini tra realtà e finzione.
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Tony Oursler affronta questioni condivise da artisti a lui vicini, primo tra tutti Mike Kelley, con il quale ha fondato il gruppo punk-rock The Poetics e condiviso la volontà di “creare un guasto nella cultura estetica.” Artista trasversale e poliedrico, voluto da David Bowie per la performance del concerto 50th Birthday Bash al Madison Square Garden del ‘97, Oursler ha dimostrato fin dall’inizio l’interesse per la musica e le interazioni possibili con quest’ambito espressivo attraverso il video: alcune importanti collaborazioni con musicisti di fama internazionale sono stati visibili in mostra.
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Al PAC è stata presentata tra l’altro una serie di installazioni ispirate all’esplorazione dello spazio cosmico in relazione all’immaginazione della cultura popolare (Cosmic Cloud e Purple Dust), ai disagi mentali rappresentati in chiave super–pop (come Crunch e Sss). Tra le grandi installazioni c’era Lock 2,4,6 appositamente rielaborata dall’artista per il PAC utilizzando alcune installazioni del 2009 che hanno una inusuale capacità di coinvolgere il pubblico. Questi lavori sono stati affiancati da altri recentissimi. Il primo è un progetto che Oursler ha realizzato per l’Adobe Virtual Museum (The Valley, 2010). Attraverso alcune postazioni multimediali il pubblico ha avuto l’opportunità di interagire con la mostra digitale con cui l’artista ha inaugurato il museo virtuale di Adobe.
Il secondo è la serie Peak (2010), microsculture costituite da proiezioni su assemblaggi di oggetti e materiali grezzi, quali vetri, metalli, argilla. Anche in questa recente serie l’artista ha sviluppato la sua esplorazione circa i modi in cui la tecnologia incide sulla psiche umana.
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L’attività espositiva annuale del PAC è stata realizzata grazie al sostegno di TOD’S.
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La mostra è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e prodotta da PAC, 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e MiArt su progetto di Madeinart e realizzata anche grazie al contributo di UniCredit.
Le attività didattiche per il pubblico, ideate e organizzate da MARTE, sono realizzate con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.
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TONY OURSLER (1957) è nato a New York, dove vive e lavora. I suoi lavori sono presenti nelle collezioni dei maggiori musei del mondo, tra cui MOMA New York, Whitney Museum, Metrpolitan Museum of Art, Musèe d’Orsay, Centre Georges Pompidou, Tate Gallery London, MoCA Chicago, LACMA Los Angeles, Eli Broad Family Foundation Los Angeles, Hirschorn Museum Washington, National Museum of Osaka, Staatsgalerie Moderner Kunst Munich e altri.
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SULLA SOGLIA

La prima mostra personale in uno spazio pubblico italiano di Silvio Wolf, realizzata in esclusiva per il Padiglione d’Arte Contemporanea è stata curata da Giorgio Verzotti e ha fatto parte delle iniziative organizzate in occasione della 7° Giornata del Contemporaneo dell’8 ottobre 2011.
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Sette distinte sezioni espositive hanno presentato la sintesi di trent’anni di attività artistica. Silvio Wolf ha progettato un percorso che pone il visitatore al centro di un’esperienza visiva e sensoriale: installazioni ambientali, opere fotografiche e videoproiezioni sono state pensate come stazioni di un viaggio che sin dall’ingresso hanno coinvolto il pubblico attraverso immagini senza tempo, nelle quali la luce è stata l’elemento primario, espressione di un’arte che amplifica la percezione e gli stimoli sensoriali, ponendo il pubblico in una condizione che l’artista definisce “di ascolto”.
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La prima sezione presentava Light Wave, l’opera realizzata per la 53a Biennale di Venezia: la grandiosa scrittura di luce posta sulla soglia del percorso espositivo siglava la dimensione sensoriale della mostra e introduceva alle successive stazioni di questo viaggio. Nelle tre sale seguenti si sono susseguiti i cicli di opere fotografiche: Soglie (immagini simboliche di architetture), Orizzonti (astrazioni del linguaggio fotografico) e Icone di Luce (apparizione e scomparsa dell’oggetto- immagine), che affrontano le principali tematiche dell’artista nel medium fotografico.
Attraverso questi cicli di opere Silvio Wolf ha esaminato con modalità differenti il rapporto di soglia fra reale visibile, superficie e soggetto. L’immagine fissa di queste quattro sezioni ha interagito con quella fluida delle video-proiezioni, che nella quinta sala hanno esplorato in soggettiva spazi pubblici dalla forte connotazione simbolica, e con le suggestioni delle due grandi installazioni site-specific per il parterre al piano terra e la galleria al primo piano.
Le opere ambientali, attraverso l’uso d’irradiazione luminosa, suono, fotografia e superfici specchianti, hanno coinvolto attivamente lo spettatore all’interno dello spazio architettonico. La loro natura e il loro particolare allestimento hanno richiesto al visitatore ora una posizione immobile e contemplativa, ora d’essere consapevolmente presente in spazi pensati come luoghi attivi di esperienza.
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A compimento dell’intero percorso espositivo l’artista ha progettato, in collaborazione con Cinzia Bauci, contralto, e Pier Gallesi, musicista, la performance La Via del Cuore, che è stata presentata dal vivo la sera dell’inaugurazione e la sera dell’8 ottobre per la Giornata del Contemporaneo. La performance è stata successivamente riproposta in forma di registrazione sonora nel corso della mostra. Nata come vera e propria opera nell’opera, essa interpreta acusticamente e performativamente la grande opera-vetrata del parterre, le cui dieci sezioni retro-illuminate hanno accolto simbolicamente lungo altrettante stazioni l’azione dei corpi, la voce umana e il mistico suono dello Shofar, l’antico strumento musicale della tradizione ebraica.
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La mostra è stata accompagnata da un libro-catalogo edito da Silvana Editoriale, con testi di Giorgio Verzotti, Silvio Wolf e un’antologia critica di altri autori.
La mostra è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e prodotta dal PAC, mentre la Giornata del Contemporaneo da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiana, di cui il PAC è socio fondatore.
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L’attività annuale del PAC è stata realizzata grazie al sostegno di TOD’S.
Le attività didattiche per il pubblico, ideate e organizzate da MARTE, sono state realizzate con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.
La mostra è stata realizzata grazie al contributo di VHERNIER, da sempre in prima linea per promuovere e sostenere l’arte contemporanea, che è fonte di continua ispirazione per le sue opere d’alta gioielleria.
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L’evento è stato reso possibile anche grazie all’apporto di DVR CAPITAL e del light-designer Marco Pollice e con il sostegno delle riviste Arte e Zoom come media partner.
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BIOGRAFIA ARTISTA | Silvio Wolf (Milano, 1952), Visiting Professor alla School of Visual Arts di New York e docente all’Istituto Europeo di Design di Milano, realizza opere fotografiche, installazioni e interventi ambientali utilizzando il video, la luce, la proiezione e il suono.
Ha esposto in musei, spazi pubblici e gallerie in diversi paesi oltre all’Italia, tra i quali Belgio, Canada, Germania, Inghilterra, Lussemburgo, Spagna e Stati Uniti. Ha partecipato a Documenta VIII a Kassel e alla 53a Biennale di Venezia.
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PIXAR. 25 ANNI DI ANIMAZIONE

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Dopo il MOMA a New York e un tour internazionale, dall’Australia all’Estremo Oriente, la mostra è arrivata finalmente in Europa e in anteprima a Milano nel Novembre 2011. Un percorso costruito con oltre 500 opere, un viaggio attraverso la creatività e la cultura digitale come linguaggio innovativo applicato all’animazione e al cinema: dal primo lungometraggio dedicato a Luxo Jr.(1986) ai grandi capolavori come Monster & Co (2001), Toy Story (1, 2 e 3), Ratatouille (2007), WALL•E (2008), Up (2009) sino a Cars 2 (2011) e con un’anticipazione di Brave (che era in uscita proprio nel 2012).
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In mostra lo spettacolare patrimonio artistico creato per ciascun film, fatto di disegni a matita e pennarello, dipinti in acrilico, guazzo e acquarelli, dipinti digitali, calchi, modelli fatti a mano e pezzi in media digitali, tutti lavori che raramente vengono mostrati al di fuori dello Studio, ma nei quali l’arte tradizionale e il design giocano un ruolo essenziale e danno vita, insieme all’animazione digitale, al prodotto finale.
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«Molti non sanno che la maggior parte degli artisti che lavorano in Pixar utilizzano i mezzi propri dell’Arte – il disegno, i colori a tempera, i pastelli e le tecniche di scultura – come quelli dei digital media. La maggior parte delle loro opere» – scrive John Lasseter, chief creative officer di Walt Disney and Pixar Animation Studio e fondatore di Pixar (insieme a Steve Jobs) – «prendono vita durante lo sviluppo di un progetto, mentre stiamo costruendo una storia o semplicemente mentre guardiamo un film. La ricchezza del patrimonio artistico che viene plasmato per ogni film raramente esce dai nostri studi, ma il prodotto finale – il lungometraggio – che raggiunge ogni parte del mondo, non sarebbe possibile senza questa fase artistica e creativa».
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Maria Grazia Mattei, curatrice della mostra ed esperta di cultura digitale, ha raccontato con soddisfazione prima della mostra: «Conosco John Lasseter da vent’anni e condivido da allora la sua visone del mondo e della creatività digitale. Sono felice che arrivi in Italia, di persona, ad inaugurare la mostra della “sua” Pixar. E Milano è la realtà più pronta ad accogliere innovazione».
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La mostra ha presentato finalmente al grande pubblico la fase creativa e nascosta dei maestri dell’animazione mondiale in quattro sezioni – Personaggi, Storie, Mondi e Digital Convergence – e due speciali installazioni l’Artscape e lo Zoetrope, che utilizzano la tecnologia digitale per far rivivere le opere esposte nel percorso espositivo, progettato da Fabio Fornasari, e ricreare l’emozione dell’animazione
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La mostra è stata promossa dal Comune di Milano – Cultura, Expo, Moda, Design e prodotta dal PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE e da Mattei Digital Communication/ Meet The Media Guru.
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I WANT TO LIVE FOREVER

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Un evento unico, in esclusiva assoluta per l’Italia, dedicato alla protagonista indiscussa dell’arte contemporanea giapponese Yayoi Kusama. Oltre a dipinti figurativi e astratti di recente realizzazione, sculture di grandi dimensioni e installazioni create nell’ultimo decennio, è stata esposta una selezione di disegni formativi dell’artista risalenti agli anni ’50 e ’60.
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Yayoi Kusama è nata a Matsumoto City, Giappone, nel 1929. Il suo lavoro è presente nelle collezioni dei più prestigiosi musei di tutto il mondo: dal Museum of Modern Art di New York alla Tate Modern di Londra, dal Centre Pompidou di Parigi al National Museum of Modern Art di Tokyo, città dove l’artista vive e lavora.
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Kusama ha prodotto i suoi primi enormi dipinti “infinity” alla fine degli anni ’50 a New York, dove si era trasferita come giovane artista. L’intrinseco paradosso filosofico di questi lavori – che “l’infinito” possa essere quantificato all’interno della cornice arbitraria di una tela preconfezionata – insieme alle implicazioni più soggettive e ossessive della loro genesi, li distinsero dall’astrattismo minimalista che avrebbe dominato la scena artistica locale parecchi anni dopo.
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Oggi Kusama compone i dipinti Infinity Net come campi isotropi pieni di elementi uniformemente distribuiti, siano essi austere monocromie o vibranti contrasti a tinte psichedeliche, come lo spettacolare dipinto a cinque pannelli I Want to Live Forever (2008). I suoi ultimi dipinti figurativi, come Cosmic Space (2008) dove occhi, amebe e altre forme biomorfe indeterminate abbondano, riflettono un’ossessione per la mortalità, oltre che per l’illuminismo, la solitudine, il vuoto, e i misteri dell’universo fisico e metafisico.
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La scultura di Kusama invece mostra un altro approccio alla visualizzazione dell’infinito attraverso il continuo uso di specchi, come nella scultura autoportante Passing Winter (2005) o nel complesso ambiente Aftermath of Obliteration of Eternity (2008), che utilizza un sistema di semplici ma ingegnosi strumenti ottici per creare un’interazione senza fine di luce riflessa. Il più recente gruppo di sculture monumentali di Kusama Flowers that Bloom at Midnightsono fiori barocchi dai colori accesi, che misurano in altezza tra 1.5 e 5 metri.
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Al PAC anche Narcissus Garden, l’installazione-scultura presentata per la prima volta alla XXXIII edizione della Biennale di Venezia (1966). Kusama ha prodotto questo ambiente interattivo composto da 1500 sfere metalliche con l’assistenza di Lucio Fontana. In una presentazione improvvisata sul prato del Padiglione Italiano, Kusama, vestita in kimono, puntò l’attenzione sugli aspetti commerciali usualmente velati della Biennale, vendendo ogni sfera a 1.200 lire. Più di quaranta anni dopo, Narcissus Garden è arrivato a Milano per la prima volta.
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Kusama ha completato numerose sculture da esterno su commissione, la maggior parte delle quali nella forma di piante e fiori giganteschi dalle tinte accese, realizzate per istituzioni pubbliche e private quali il Fukuoka Municipal Museum of Art e Matsumoto City Museum of Art in Giappone; Eurolille a Lille, Francia; e il Beverly Hills City Council a Los Angeles.
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ACTUALITY

La prima retrospettiva in Italia del grande artista e fotografo canadese. Quarantadue opere in mostra, alcune presentate per la prima volta in Italia, che tracciano il percorso creativo di uno fra gli artisti contemporanei più innovativi degli ultimi trenta anni.
Il 19 Marzo 2013 è stata presentata la mostra Actuality, la prima grande retrospettiva italiana del fotografo canadese Jeff Wall (Vancouver 1946), al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. L’esposizione è stata curata da Francesco Bonami
Quarantadue le opere in mostra, alcune presentate per la prima volta in Italia e che tracciano il percorso creativo di uno fra gli artisti contemporanei più innovativi degli ultimi trenta anni. Jeff Wall è stato presente nel 2013 a Documenta Kassel e alla Biennale di Venezia e protagonista di mostre personali nei principali musei del mondo, come il MoMA di New York (2007), il Deutsche Guggenheim di Berlino (2007), il San Francisco Museum of Modern Art (2008) e la Tate Modern di Londra (2005).
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Entrato ormai a far parte di importanti collezioni internazionali, Jeff Wall “ha trascinato la fotografia fuori dai confini del proprio mondo, facendola approdare all’arte contemporanea”, ha affermato il curatore della mostra Francesco Bonami “ed è stato forse il primo artista ad usare la fotografia avvalendosi delle nuove tecnologie digitali, pur non mostrandole mai nel proprio lavoro”.
I suoi famosi “lightbox”, mutuati dal linguaggio pubblicitario tipicamente americano, sono solo una parte della vastissima produzione del fotografo che inizia nel 1978. Pioniere della fotografia concettuale o post-concettuale della cosiddetta “ Scuola di Vancouver”, con le sue riflessioni Wall ha aperto la strada ad innumerevoli altri artisti influenzandoli con il suo lavoro.
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Le opere di Wall esplorano campi diversi, che spaziano dai temi sociali a quelli politici. La violenza urbana, il razzismo, la povertà, le tensioni sociali, la storia: sono tutti soggetti che l’artista osserva e rappresenta con precisione e profondità, “mantenendo però un approccio molto simile a quello dei pittori dell’Ottocento”, ha sottolineato Bonami, perché “le foto di Wall hanno sempre una dimensione pittorica e fisica che spesso riporta ai quadri di Manet, Courbet e di altri protagonisti dell’arte Moderna”. Alcuni infatti lo hanno definito “pittore della vita moderna“, citando la definizione che Charles Baudelaire aveva dato agli artisti del suo tempo.
All’iniziale interesse per paesaggi al limite tra natura e realtà urbana, si è aggiunta la riproduzione di scene drammatiche ritratte in uno stile narrativo. Nel corso degli anni Wall ha lavorato sulla concettualizzazione di scenari e fenomeni della vita quotidiana, da quelli apparentemente insignificanti a quelli più mondani. Dai suoi scatti emerge una predilezione per gli angoli che sembrano dimenticati e abbandonati fino alla riproduzione di dettagli che passano inosservati. In mostra insieme ai lightbox ci sono state anche le stampe fotografiche, alcune scelte tra le produzioni in bianco e nero.
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Come di consueto il PAC ha avuto in programma attività didattiche gratuite, per avvicinare grandi e piccoli al lavoro dell’artista.
La mostra è inoltre stata accompagnata da un public program curato da Giovanna Silva (fotografa) e da Stefano Graziani (docente di fotografia e fotografo) per approfondire i temi dell’esposizione: dal 15 al 22 aprile si è svolto un Workshop, rivolto agli studenti di fotografia in Italia, al PAC e al Palazzo Reale; tra aprile e maggio in aggiunta si è tenuta una serie di talk al PAC con studiosi di diversa formazione che hanno analizzato alcuni aspetti del lavoro di Jeff Wall.
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La mostra è stata prodotta da Comune di Milano – Cultura Moda Design e CIVITA, mentre le attività didattiche sono state ideate e organizzate da MARTE e realizzate con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.

I STILL LOVE

In occasione della 6° Giornata del Contemporaneo indetta da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiana di sabato 9 ottobre 2010, il PAC ha ospitato, per la prima volta in uno spazio espositivo pubblico italiano, una mostra dedicata a Franko B, artista coraggioso ed eclettico, da anni protagonista della scena live internazionale, che ha espresso nell’arte il tormento dell’esistenza con intensità e genialità inventiva senza eguali, rendendo nelle sue performance sopportabile l’insopportabile.

 

Le azioni spettacolari con cui Franko B incontra il pubblico londinese negli anni ‘90 usando il proprio corpo come strumento, supporto e ipertesto, realizzate alla Tate Modern, all’ICA e alla South London Gallery, diventano immediatamente famosissime. Oggetto del desiderio, usato come una tela, malato o senza difese, tagliato, bucato, steso o ripiegato dalla sofferenza, violato, umiliato o a sua volta minaccioso, denudato o coperto, il corpo dell’artista diventa corpo sociale che azzera ogni separazione tra opera e artista, soggetto e oggetto, arte e vita.

 

“Ciò che mi tocca profondamente delle performance di Franko B – ha dichiarato Marina Abramović nel 2006 – è la sua totale apertura, vulnerabilità e, allo stesso tempo, l’incondizionato amore dato al suo pubblico”.

 

Al PAC Franko B ha presentato l’inedita performance Love in times of pain, strettamente legata all’omonima installazione Love in times of pain del 2009. In mostra per la prima volta in Italia, l’opera, ha rievocato alcuni dei temi centrali del lavoro di Franko B quali la morte, l’erotismo, il dolore e la compassione, proposti in una chiave inedita attraverso l’utilizzo esclusivo del colore nero: una dimensione monocromatica a tratti impenetrabile, elegante oblio che ricopre animali imbalsamati e tele di un denso strato di colore.

 

L’uso del colore nero ha creato una tensione dialettica con la produzione in cui l’artista utilizzava il bianco per coprire i tatuaggi che campeggiano su tutto il suo corpo e farne una sorta di tela, una pagina incontaminata sulla quale inscrivere i segni del proprio linguaggio. Con l’uso dell’acrilico nero l’artista ha ricreato invece la tensione tra la vita e la morte, tra luce e ombra, tra presenza e assenza che ritorna anche nella serie di dipinti in mostra dal titolo Black Painting (2007).

 

Dall’uso dell’acrilico nero alla nuova serie di “cuciti”, ricami inediti che raffigurano animali, corpi, volti e ragazzi che si amano, la cui fragile bellezza è delineata sulla tela bianca da un tratteggio di cotone rosso, dove il filo colorato rimanda formalmente al sangue sul corpo imbiancato dell’artista delle performance degli anni novanta.

 

Hanno completato l’esposizione i video e le fotografie delle performance più famose, e l’installazione Golden Age (2009), una serie di inginocchiatoi totalmente ricoperti d’oro.

 

Il progetto di allestimento, che ha stravolto la consueta percezione visiva all’interno del padiglione milanese restituendo ai visitatori un PAC inedito, è stato affidato a Fabio Novembre, architetto e designer di fama internazionale che ha curato, con il suo studio, per la prima volta l’allestimento di una mostra d’arte.

 

BIOGRAFIA | Nato a Milano nel 1960 e trasferitosi a Londra giovanissimo, Franko B si diploma al Chelsea College of Art and Design e inizia a produrre le proprie opere fin dai primi anni Novanta, spaziando dal video alla fotografia, dalle performance alla pittura fino alla scultura. Protagonista indiscusso dell’ICA, epicentro londinese dei progetti artistici più radicali e d’avanguardia, il suo background è il romantic punk della capitale inglese degli anni ’90. Docente di scultura all’Accademia di Belle Arti di Macerata dal 2009, ha tenuto corsi e lezioni in alcune delle più importanti scuole d’arte internazionali. Ha eseguito le sue performance in prestigiose sedi internazionali per l’arte contemporanea: Tate Modern, Londra, 2003; ICA, Londra, 2008; South London Gallery, Londra, 2004; Palais des Beaux- Arts /Palais voor Schone Kunsten, Bruxelles, 2005; Beaconsfield, Londra 2001; e ancora a Città Del Messico, Berlino, Copenhagen, Madrid e Vienna. La sua performance più recente si è tenuta al Royal College of Art di Londra nel 2010. Ha esposto inoltre a: RuArts Foundation, Mosca, 2007; Victoria And Albert Museum, Londra, 2006; Tate Liverpool, 2003; Contemporary Art Center, Copenhagen, 2002. Le sue opere sono presenti nelle collezioni della Tate, del Victoria and Albert Museum, della South London Gallery e del Modern Art Museum di Tel Aviv.

DIDASCALIA

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La prima retrospettiva dell’artista italiano tra i più rilevanti della scena artistica contemporanea curata da Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist.
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Un arcipelago di oltre 30 opere di differente natura, tra cui una nuova produzione concepita appositamente per il PAC, una serie di lavori storici, alcune riattivazioni di opere recenti e i modelli di progetti mai realizzati, hanno ricostruito al PAC il lavoro di Garutti attraverso le sue opere più significative. Fotografia, scultura, scrittura, installazione, disegno, suono, video, pittura, conversazione e insegnamento: una molteplicità di linguaggi per capire l’evoluzione spesso sorprendente della ricerca dell’artista dagli anni Settanta ad oggi.
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Le opere di Garutti innescano meccanismi di partecipazione e dialogano a più livelli con differenti tipologie di pubblico insieme con le istituzioni politiche ed economiche della città. Questo aspetto è ritornato nella mostra-paesaggio del PAC, nella quale lo spettatore è stato invitato a costruire nuove relazioni e percorsi tra opere, oggetti, immagini e frammenti in esposizione.
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L’artista ha presentato il progetto alla Serpentine Gallery di Londra il 14 ottobre 2012, partecipando alla Memory Marathon: una sequenza di conferenze, performance e testimonianze curate da Hans Ulrich Obrist. L’incontro ha anticipato, in forma poetica e allusiva, alcuni temi e progetti della mostra, introdotti dal curatore all’interno del padiglione disegnato da Herzog & de Meuron e Ai Weiwei.
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Autore di alcuni tra i più efficaci progetti di arte pubblica in Italia e in Europa, dalla seconda metà degli anni Settanta e in più di trent’anni di carriera Alberto Garutti (Galbiate, Como, 1948) ha esplorato la dimensione narrativa e immateriale dell’opera d’arte, la relazione tra la produzione di oggetti e il loro rapporto con lo spazio sociale e i temi strutturanti la pratica stessa dell’arte.
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L’intreccio di mercato e committenza è al centro di lavori come Campionario: stampe digitali su fondo monocromo ( 2007 – 2012) sulle quali una sottile linea nera ricama distanze e relazioni tra luoghi della città cari al potenziale collezionista. Nella serie Orizzonti – dipinti a partire dal 1987 su vetro in bianco e nero, in diverse dimensioni, ognuno dei quali porta il nome del suo committente – Garutti testimonia l’interesse per la sfera di relazioni sentimentali e professionali che formano “l’orizzonte vero della mia vita”.
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A partire dalla metà degli anni ’90 riflette sul ruolo dell’artista nella città come nodo cruciale della sua pratica e lavora come un antropologo, capace di restituire il manufatto architettonico alla comunità, di interrogare se stesso attraverso lo studio degli altri, riattivando la memoria storica ed emotiva del luogo e costringendo lo spettatore a ragionare sulla relazione tra arte, politica e società civile. Nascono così lavori-manifesto come quello a Peccioli tra il 1994 e il 1997, dove restaura la facciata del teatro del borgo vicino a Pistoia e installa la didascalia in pietra “Dedicato ai ragazzi e alle ragazze che in questo piccolo teatro si innamorarono” ; o come “Ai Nati Oggi” ( realizzato in varie città dal 1998 al 2005) dove l’artista collega alcuni lampioni presenti in aree pubbliche ai reparti di maternità cittadini in modo che la nascita di un bambino coincida con l’intensificarsi della luce, che aumenta per poi decrescere lentamente.
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Tutta la mostra è stata attraversata da uno degli elementi caratterizzanti il lavoro dell’artista, l’uso multiforme della didascalia come modalità di diffusione delle opere al pubblico e come meccanismo attivatore di relazioni tra lo spettatore e i contenuti dell’opera.
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L’evento è entrato in stretta relazione con Fuoriclasse. 20 anni di arte italiana nei corsi di Alberto Garutti, la collettiva a cura di Luca Cerizza che è stata allestita nel 2012 alla GAM di Milano. L’unicità dell’approccio didattico sviluppato da Garutti in decenni di insegnamento è parte integrante del suo lavoro e viene raccontata attraverso le opere di 60 artisti che hanno frequentato i suoi corsi.
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Con il contributo della banca BSI è stato realizzato un libro edito da Mousse Publishing e Walther Koenig Verlag, ideato in stretta collaborazione con l’artista, che raccoglie un’ antologia di saggi, le interviste e le conversazioni tra l’artista e Hans Ulrich Obrist e un primo regesto delle opere dal 1974 a oggi.
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La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S, sponsor dell’ attività espositiva annuale del PAC.
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Il PAC ha avuto inoltre in programma attività didattiche gratuite per avvicinare il suo pubblico alle opere dell’artista: visite guidate per adulti e laboratori per bambini e ragazzi, ideati e organizzati da MARTE e realizzate con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.
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IL DESIGN DELLE IDEE

Inaugurata nel 2010 al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea la grande retrospettiva di Armando Testa, che riportava alla ribalta il lavoro di questo poliedrico artista. La mostra presentava un aspetto meno noto della sua opera, quello della sua attività di designer, in concomitanza con gli eventi targati Salone del Mobile che hanno animato Milano nella settimana dell’inaugurazione.
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L’iniziativa ha arricchito una serie di importanti antologiche del maestro: le retrospettive presentate al Museo del Castello di Rivoli e a Castel Sant’Elmo a Napoli nel 2001; la mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di Londra nel 2004. Armando Testa è stato nuovamente protagonista al PAC, dopo la personale che gli era stata dedicata nel 1984, ormai già universalmente riconosciuto come grande creativo e padre della pubblicità italiana.
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Curata da Gemma De Angelis Testa e da Giorgio Verzotti, la mostra non è stata una mera celebrazione dell’estro del grande pubblicitario, autore di personaggi e situazioni da tempo entrate nell’immaginario collettivo di gran parte degli italiani; ha voluto, piuttosto, lasciar emergere alcuni aspetti meno considerati della creatività del grande maestro, dando spazio alle sue realizzazioni come progettista di oggetti, connotati dall’ironia e dalla fantasia che caratterizzano ugualmente la sua attività nell’ambito pubblicitario.
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Armando Testa è stato infatti anche un designer, come dimostrano gli elementi di arredo presenti in mostra, e molte sue idee grafiche dovevano – come testimoniano i progetti – arrivare a uno sviluppo plastico. Questa tensione ha accompagnato tutto il lavoro di Testa, sia quello più specificamente dedicato alla pubblicità sia quello più libero e praticato parallelamente, nella sua attività di pittore e scultore.
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L’interesse di Testa per l’arte visiva, l’architettura e il design condiziona sin dalle origini la sua attività: il primo manifesto importante ICI, datato 1937, si rifà esplicitamente all’astrazione geometrica. Esso era presente in mostra insieme a una campionatura delle maggiori invenzioni effettuate nel corso di almeno cinquant’anni di attività, prima da solo e poi a capo di un’agenzia che ha fatto storia nel linguaggio pubblicitario italiano e non solo, anticipando innovazioni formali e concettuali di importanti artisti contemporanei. La scelta delle opere ha permesso ai visitatori di verificare la “persistenza” della tensione verso la resa plastica del segno, cogliendo insieme l’evoluzione del linguaggio dell’artista: le sfere di Punt e Mes realizzate come bassorilievo, i personaggi conici di Carmencita e Caballero che hanno iniziato il cinquantennale connubio fra Armando Testa e Lavazza e che qui son diventate sculture accanto a diversi altri oggetti inediti, fino a giungere alle croci del 1990, vera reinvenzione del simbolo religioso.
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Un altro aspetto poco noto è quello del disegno: Testa è stato un assiduo disegnatore, questa pratica accompagnava quasi interamente il suo tempo di lavoro, fino a consentirgli di realizzare una mole amplissima di piccole carte, che potremmo definire “appunti” in vista di realizzazioni maggiori. Una selezione molto stringata di disegni inediti a pastello o di acquerelli era parte integrante del percorso espositivo al PAC.
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In mostra anche il cortometraggio che Pappi Corsicato ha dedicato ad Armando Testa dal titolo Povero ma moderno, presentato con successo e premiato alla Mostra Cinematografica di Venezia 2009. Il documentario, diretto da uno dei più inventivi registi italiani, vale come documentazione creativa dell’opera del maestro, introducendoci al lato umano di questo autorevole sognatore, alla sua ironia, alla sua fantasia, al suo anticonformismo.
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Il catalogo, pubblicato da Silvana Editoriale, contiene i testi dei due curatori e i preziosi contributi di Germano Celant e del semiologo Ugo Volli.
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Come di consueto si e svolto un programma di attività didattiche per il pubblico ideato e realizzato da MARTE.
L’attività espositiva annuale del PAC è stata realizzata grazie al sostegno di TOD’S.
La mostra è stata realizzata anche grazie al contributo di Lavazza e dell’agenzia Armando Testa, che collaborano insieme, forse unico caso in Italia, da più di 50 anni.

VERSO UNA NUOVA IMMAGINE

Curata da Alessandro Rabottini, la mostra è stata la prima monografica che un’istituzione italiana abbia dedicato al lavoro di Elad Lassry (1977, Tel Aviv; vive e lavora a Los Angeles): la più ampia panoramica mai realizzata sul lavoro dell’artista israeliano, che il pubblico italiano aveva già avuto modo di apprezzare nell’edizione della Biennale di Venezia del 2011.
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Il lavoro di Lassry è caratterizzato da una riflessione sull’ubiquità dell’immagine nella società contemporanea e sulla possibilità di ridefinire codici visivi conosciuti e abitudini interpretative. A partire dalla sua comparsa sulla scena internazionale, il lavoro di Elad Lassry ha subito attratto l’attenzione di pubblico e critica tanto per la forza visiva quanto per il rigore concettuale che lo contraddistinguono.
Se all’inizio della sua carriera i principali mezzi espressivi utilizzati da Lassry erano la fotografia e il film in 16 mm, la sua più recente produzione include anche la scultura, l’intervento architettonico, il disegno e la performance.
La maggior parte di questi media sono stati presenti al PAC in un dialogo reciproco attraverso un’ampia selezione di opere a parete, quattro film, nuove opere di scultura e un’installazione, che ha fuso fotografia, scultura e architettura, realizzata appositamente per il PAC.
Nel lavoro di Lassry tutto esiste all’interno di un regime di orizzontalità, all’interno del quale ogni gerarchia tra figura, oggetto e ambiente è eliminata: persone, cose, animali e luoghi sembrano provenire da un universo dove la spontaneità è bandita e dove la memoria si confronta con un senso di fine imminente.
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LE FOTOGRAFIE di Elad Lassry presentano soggetti all’apparenza familiari – persone, animali, luoghi e oggetti più o meno banali – ma è il modo in cui l’artista li ritrae a produrre un effetto ambiguo e straniante. Le pose delle persone sono artefatte, gli animali e, più in generale, la natura appaiono del tutto artificiali mentre gli oggetti – molti dei quali sono arrangiati in composizioni che ricordano la fotografia pubblicitaria – sembrano non appartenere al dominio della funzionalità, nonostante non sia chiaro se abbiano un significato simbolico.
Tra l’immagine e la sua cornice Lassry stabilisce corrispondenze cromatiche che rafforzano l’oscillazione tra bidimensionalità e tridimensionalità, trasformando l’immagine stessa in un oggetto che sembra prossimo alla scultura, mentre l’assenza di luce naturale produce un’intensità cromatica che acuisce la tattilità delle immagini.
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L’UNIVERSO VISIVO di Elad Lassry è privo di parole: non soltanto i suoi film sono muti ma, più in generale, la perfezione formale delle sue immagini e la loro elaborata costruzione fanno sì che la possibilità che un’immagine significhi o racconti qualcosa venga per un attimo sospesa. Più che lo spazio di una narrazione, le immagini di Lassry sono una superficie sulla quale si riflettono seduzione e repulsione, ambiguità e straniamento.
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Nei film in 16 mm, di cui la mostra milanese ha presentato una selezione di quattro opere prodotte tra il 2007 e il 2010, il movimento esiste soltanto come attenta coreografia, mentre tra figura e ambiente si stabilisce, ancora una volta, un’osmosi visiva che riporta tutto sul piano di un’esistenza ottica e percettiva.
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Gran parte del lavoro di Elad Lassry consiste in una riflessione sull’atto stesso del vedere, sulla costruzione della rappresentazione e su come noi stessi guardiamo le immagini, proiettando su di esse significati che sono loro estranei e che provengono dalla nostra stessa esperienza autobiografica e culturale. Per Lassry, infatti, l’atto dell’inquadratura non è soltanto un dispositivo formale nelle mani dell’artista ma è anche, e soprattutto, un dispositivo interpretativo che fa appello alla posizione dello spettatore: è per questo motivo che le sue immagini non sono accompagnate da una precisa spiegazione né la loro origine è in alcun modo chiarita.
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In mostra erano inoltre presenti interventi spaziali che rafforzano il discorso sulla visione come forma di costruzione, tanto nella produzione delle immagini quanto nella loro lettura.
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Nella sua pratica artistica Lassry conduce a una nuova sintesi le premesse contenute in una serie di esperienze ormai storicizzate: dalla fusione tra otticità e tattilità presente nelle fotografie di László Moholy-Nagy, fino alla natura concettuale dell’immagine che attraversa il lavoro di artisti come Richard Prince, Louise Lawler e Sharon Lockhart, passando per la frizione tra iper-realismo e finzione che caratterizza certe forme di Robert Gober e Richard Artschwager.
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ELAD LASSRY ha realizzato mostre personali presso prestigiose istituzioni internazionali come il Whitney Museum of American Art di New York, la Kunsthalle di Zurigo e il Contemporary Art Museum di St. Louis. Ha inoltre preso parte all’ultima edizione della Biennale di Venezia e a mostre collettive presso il MoMa e il New Museum di New York, la Schirn Kunsthalle di Francoforte, il CAPC di Bordeaux, l’Institute of Contemporary Art di Philadelphia, la GAM di Torino.
La mostra è stata promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Moda, Design e dal PAC.

THE ABRAMOVIC METHOD

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Marina Abramovic è tornata a Milano con un lavoro ideato per il PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea.
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Il PAC di Milano è stato lo spazio espositivo prescelto da Marina Abramovic per il suo nuovo attesissimo lavoro, il primo dopo la grande retrospettiva del 2010 al MoMA di New York. L’evento, è stato curato da Diego Sileo ed Eugenio Viola.
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Icona di tutte le forme di espressività legate al corpo, Marina Abramovic è oggi uno dei protagonisti più affascinanti e magnetici del nostro tempo, dalla cui vicenda artistico-esistenziale è imprescindibile la storia stessa delle arti performative. Pioniera della performance dagli anni ‘70, premiata con il Leone d’Oro alla Biennale del 1997, l’artista ha spesso superato i propri limiti fisici e psicologici, ha messo in pericolo la sua incolumità, infranto schemi e convenzioni, scavato nelle proprie paure e in quelle di chi la osservava, portando l’arte a contatto con l’esperienza fisica ed emotiva, collegandola alla vita stessa. The Abramovic Method nasce da una riflessione che Marina Abramovic ha sviluppato partendo da sue tre performance: The House With the Ocean View (2002), Seven Easy Pieces (2005) e The Artist is Present (2010), Esperienze che hanno segnato profondamente il suo modo di percepire il proprio lavoro in rapporto al pubblico. ”Nella mia esperienza, maturata in quaranta anni di carriera, sono arrivata alla conclusione che il pubblico gioca un ruolo molto importante, direi cruciale, nella performance”, dichiara Marina Abramovic. ”Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perchè, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”.
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Con The Abramovic Method, è stato proprio il pubblico, guidato e motivato dall’artista, a vivere e sperimentare le sue ”installazioni interattive”. Le opere – con cui il pubblico ha interagito rimanendo in piedi, seduto o sdraiato – sono state impreziosite da vari minerali: quarzo, ametista, tormalina. Un percorso fisico e mentale che ha trasformato gli spazi del PAC in un’esperienza fatta di buio e luce, assenza e presenza, percezioni spazio-temporali alterate. Un percorso dove le persone hanno espanso i propri sensi, hanno osservato, hanno imparato ad ascoltare e ad ascoltarsi.
Per enfatizzare il ruolo ambivalente di osservatore e osservato, di attore e spettatore, Marina Abramovic ha scelto di mettere alla prova il pubblico anche nell’atto apparentemente semplice dell’osservazione distante: una serie di telescopi, hanno permesso ai visitatori di osservare dal punto di vista macroscopico e microscopico coloro i quali hanno scelto di cimentarsi con le interactive installations.
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E’ questo il ”Metodo Abramovic”, che l’artista ha sperimentato su se stessa in anni di dedizione e ferreo autocontrollo. Un processo il cui climax è rappresentato dall’estenuante performance realizzata al MoMA nel 2010, dal titolo The Artist is Present. In questa pièce, il più lungo assolo realizzato da Abramovic fino a quel momento, l’artista si esibiva ogni giorno nelle ore di apertura del museo: seduta in assoluto silenzio a un tavolo nell’atrio, invitava i visitatori a sedersi di fronte a lei per tutto il tempo desiderato, nell’ambito degli orari del museo. L’artista non aveva alcuna reazione di fronte ai partecipanti, tuttavia il loro coinvolgimento costituiva il completamento dell’opera, permettendo loro di vivere un’esperienza personale con l’artista e con la performance stessa. Un’installazione monumentale, proposta per la prima volta in Europa, ha ricostruito questa performance memorabile, accogliendo i visitatori e al tempo stesso introducendo lo scenario del ”Metodo Abramovic”.
Questo metodo è nato dalla consapevolezza che l’atto performativo è in grado di operare una trasformazione profonda in chi lo produce, ma anche nel pubblico che lo osserva. In un’epoca in cui il tempo è un bene davvero prezioso, ma altrettanto raro, Marina Abramovic chiede allo spettatore/attore di fermarsi e fare esperienza del ”qui e ora”, di ciò che prima di tutto lo riguarda: se stesso e il modo di relazionarsi con ciò che lo circonda.
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Una selezione di opere del passato, che ne condividono gli stessi principi, ha aiutato i visitatori ad approfondire il ”Metodo Abramovic”. Da Dozing Consciousness (1997) a Homage to Saint Therese (2009), i suoi lavori sono accomunati dalla ricerca instancabile di un’espansione ”energetica” della percezione, che contamina tradizioni e saggezze arcaiche con la realtà contemporanea.
In mostra è stato proiettato un estratto del film ”MARINA ABRAMOVIC – THE ARTIST IS PRESENT”, diretto
da Matthew Akers, in anteprima a Milano il 22 marzo 2012, in contemporanea con l’apertura della mostra al PAC. Il film ha vinto nel febbraio 2012 il Premio del pubblico al Festival di Berlino 2012.
Anche ”The Abramovic Method” è stato oggetto di un film-documentario diretto dalla regista Giada Colagrande e realizzato con il sostegno della Fondazione Furla. “Siamo felici di contribuire alla realizzazione
di questo progetto” ha dichiara Giovanna Furlanetto, Presidente della Fondazione “in quanto siamo molto legati a Marina, artista straordinaria e madrina della settima edizione del Premio Furla, e apprezziamo la grande sensibilità di Giada Colagrande”.
L’opera è stata pubblicata in due volumi di un catalogo. Il primo, Italian Works, contiene le performance realizzate in Italia da Marina Abramovic. Un gruppo di opere che si snoda lungo quarant’anni di carriera a testimoniare il rapporto privilegiato che l’artista ha avuto con il nostro paese, dove ha realizzato alcuni dei suoi lavori più famosi, più coraggiosi, più innovativi nonché i più celebrati. Dall’esordio romano con Rhythm 10 (1973) all’unica performance milanese, Rhythm 4 (1974), dalla pericolosa Rhythm 0 realizzata a Napoli nel 1975, alla provocatoria Imponderabilia (Bologna, 1977), dal Leone d’Oro veneziano di Balkan Baroque (1997) alla struggente Mambo a Marienbad (Volterra, 2001) e a tanti altri ancora. Il secondo invece, è incentrato unicamente su tutto il processo che ha portato alla realizzazione del ”Metodo Abramovic” e include tutte le sue fasi di realizzazione, dall’allestimento all’esperienza diretta di chi ha avuto la fortuna di ripercorrere quel metodo unico del fare arte performativa, che ha reso Marina Abramovic una tra le artiste più rappresentative del nostro tempo.
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L’attività espositiva del PAC è realizzata annualmente grazie al sostegno di TOD’S. “La mostra” dichiara Antonio Scuderi, amministratore delegato di 24 ORE Cultura “è coprodotta dalla nostra società che raccoglie con molto entusiasmo una nuova sfida, dopo il grande successo di ”Artemisia Gentileschi. Storia di una passione” a Palazzo Reale di Milano, presentando un altro evento unico questa volta con la protagonista dell’arte contemporanea”.
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L’Accademia di Brera, università ufficiale della mostra, ha selezionato un gruppo di studenti che sono stati formati da Marina Abramovic e hanno guidato il pubblico come depositari del suo Metodo. Il progetto è stato coordinato da MARTE, che ha ideato e organizzato anche le attività didattiche in mostra con il contributo del Gruppo COOP Lombardia.
L’evento al PAC è stato promosso dall’Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Milano e prodotto dal PAC Padiglione d’Arte Contemporanea e da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, realizzato con il sostegno di Rottapharm|Madaus. I telescopi sono stati messi a disposizione da AURIGA, mentre il catalogo che racchiude i lavori di Marina Abramivić è stato curato da Diego Sileo ed Eugenio Viola, e pubblicato da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE con testi dei due curatori, di Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Gillo Dorfles, Antonello Tolve, Angela Vettese e Neville Wakefield.
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A Milano ”il Metodo Abramovic” si è articolato anche in alcuni imperdibili appuntamenti:
Martedì 20 marzo, alla Galleria Lia Rumma, è stata inaugurata una seconda mostra di Marina Abramovic dal titolo With Eyes Closed I See Happiness, i cui lavori offrono una sorta di chiave di lettura del suo ”Metodo”.
Mercoledì 21 marzo al Teatro dal Verme di Milano Marina Abramovic ha incontrato il pubblico per raccontare The past, future and present of performance art, proiettando alcuni suoi lavori passati e svelando retroscena e particolari inediti di una intera vita dedicata all’arte performativa.
Giovedì 22 marzo, all’Apollo spazio Cinema di Milano è stato presentato in anteprima nazionale il film ”MARINA ABRAMOVIC – THE ARTIST IS PRESENT”, diretto da Matthew Akers, una produzione Show of Force per HBO, in coproduzione con AVRO Television e in collaborazione con GA&A Productions, distribuito in Italia da GA&A Productions e Feltrinelli Real Cinema.

ESTOY VIVA

Guatemala City, luglio del 2003. Una giovane donna cammina dalla Corte Costituzionale fino al Palazzo Nazionale del Guatemala lasciando una scia di impronte di sangue umano con il quale si è sporcata i piedi poco prima, in memoria delle vittime del conflitto armato in Guatemala.

 

É Regina José Galindo, oggi tra le artiste più rappresentative del magmatico continente latinoamericano. Due anni dopo verrà premiata con il Leone d’Oro alla 51° Biennale di Venezia come migliore artista under 35 “per aver saputo dare vita a un’azione coraggiosa contro il potere”.

 

L’artista indaga la dimensione soppressa e rimossa della sofferenza, utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica per riattivare i traumi del rimosso e le rovine della storia. Partendo dal microcosmo del suo paese, il Guatemala, teatro di perenne instabilità e violenza, l’artista realizza opere scomode e drammatiche. Il suo corpo minuto e all’apparenza fragile è esposto ad una serie di azioni pubbliche che usano lo spazio metaforico dell’arte per denunciare le implicazioni etiche legate alle ingiustizie sociali e culturali, le discriminazioni di razza e di sesso e più in generale tutti gli abusi derivanti dalle relazioni di potere che affliggono la società contemporanea.

 

Le sue performance sono realizzate in un’ottica di coinvolgimento totale. Rannicchiata nuda sotto una campana di plexiglass o sopra uno scoglio a picco sul mare, nascosta sotto un letto, appesa ad un albero dentro una rete da pesca, sdraiata immobile sull’erba con i capelli nella terra come radici , legata e accovacciata sul pavimento di un motel. Spalmata di carbone o di fango, con la testa sott’acqua fino ai limiti della resistenza o esposta nuda a getti violenti di acqua fredda. Immobile, respirando appena, a volte mani e piedi immobilizzati. In bilico tra la vita e la morte l’artista indaga la paura, l’angoscia e le loro conseguenze, affrontandone in prima persona il rischio fisico e psicologico, spingendosi oltre i propri limiti con performance radicali, spiazzanti ed eticamente scomode.

 

La mostra racconta in cinque macro emergenze tematiche – Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte –  l’ultima produzione dell’artista e raccoglie un’ampia selezione dei suoi lavori più rappresentativi, dalle origini ad oggi. Un viaggio emozionale raccontato attraverso fotografie, video, sculture e disegni.  Un percorso costruito attraverso cortocircuiti e slittamenti, che affianca ad alcune delle sue azioni più emblematiche e conosciute opere più recenti e numerosi lavori inediti o mai esposti prima in Italia, come l’intensa Descensión (2013) o la toccante La Verdad (2013).

 

 

In occasione dell’opening, il 24 marzo su invito, l’artista guatemalteca realizzerà Exalatión (Estoy viva), una performance inedita pensata per il PAC e per Milano. Un’azione intensa e poetica, un gesto di sospensione e di scambio simbolico tra artista e pubblico, metafora del legame, sempre presente nel lavoro di Galindo, tra arte, vita e morte.

 

La ricerca dell’artista sulla violenza, la privazione dei diritti e della libertà individuale è universale e incontra storie di ogni continente e realtà. Per questo tutti i visitatori potranno sostenere attraverso la mostra l’attività di Amnesty International scegliendo all’ingresso il biglietto donazione.

 

BIOGRAFIA

REGINA JOSÉ GALINDO è nata nel 1974 a Guatemala City, dove vive e lavora. Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 2005 nella categoria giovani artisti, nel 2011 ha ricevuto il Prince Claus Award in Olanda e ha vinto il premio speciale alla 29° Biennale di Lubiana. I suoi lavori sono presenti in numerose collezioni pubbliche,  tra cui Centre Pompidou, Parigi; MEIAC- Museo Extremeño e Iberoamericano de Arte Contemporáneo, Badajoz; Fondazione Galleria Civica, Trento; MMKA, Budapest; Castello di Rivoli, Torino; Daros Foundation, Zurigo; Blanton Museum, Austin; UBS Art Collection, Basilea; Miami Art Museum; Cisneros Fountanal Art Foundation, Miami;  Madco-Museum of Contemporary Art, Costa Rica.
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ADRIAN PACI. Vite in Transito

Un blocco di marmo viene estratto da una cava in Cina, lavorato in mare ad opera di artigiani cinesi a bordo di un’enorme nave-officina e trasformato in una colonna in stile classico. La destinazione è ignota. E’ la nuova opera filmica di Adrian Paci, The Column, un racconto visionario che parla di de-localizzazione del lavoro, trasformazione delle tradizioni e confronto tra culture: una potente metafora con un linguaggio visivo di enigmatica bellezza.

 

Prodotta dallo Jeu de Paume di Parigi, dal PAC di Milano, dal Röda Sten Konsthall di Göteborg e dal Trondheim Kunstmuseum di Trondheim insieme ad altri sostenitori, l’opera è il cuore di una grande retrospettiva che il PAC ha dedicato ad Adrian Paci (1969, Scutari), artista albanese che sin dal 1997 ha scelto Milano come sua città di adozione.

 

Promossa e prodotta da Comune di Milano – Cultura, PAC e CIVITA, la mostra ha inaugurato in occasione della IX Giornata del Contemporaneo indetta sabato 5 ottobre 2013 da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiana, di cui il Padiglione milanese è socio fondatore: come da tradizione il PAC ha aperto gratuitamente al pubblico dalle 18.00 alle 24.00. Dal 6 febbraio 2014 la mostra si trasferisce in parte al Musée d’art Contemporain de Montréal, in Canada.

 

Disegno, fotografia, pittura, installazione, video, scultura: la mostra, a cura di Paola Nicolin e Alessandro Rabottini, presentava un’ ampia selezione di opere realizzate dall’artista a partire dalla metà degli anni Novanta fino alla produzione più recente, in un percorso che racconta la varietà di linguaggi che Adrian Paci utilizza nel suo lavoro.
L’artista combina narrazione, rigore formale e riflessione sociale per creare visioni poetiche e problematiche delle trasformazioni politiche e umane. Nelle opere prodotte da Paci all’inizio della carriera, influenzate dal clima culturale che i paesi dell’ex blocco sovietico respiravano dopo la caduta del Muro di Berlino, il tema dell’immigrazione si univa alla riflessione sul ruolo delle immagini nel raccontare le esistenze. A partire da questo nucleo – in cui autobiografia e cultura si sovrappongono – l’artista ha ampliato negli anni i confini reali e metaforici del proprio lavoro, esplorando temi universali come la perdita, il movimento delle persone nello spazio e nel tempo, la ricerca di un altrove umano e geografico.

 

Il titolo Vite in transito è un riferimento ai temi più importanti della produzione artistica di Paci: la figura umana occupa un ruolo centrale nel suo lavoro e diventa fonte di narrazione, immaginazione e speranza, insieme con il motivo del movimento costante, sia quello dei popoli attraverso le frontiere geo-politiche sia quello della memoria personale. In questo universo di significati prendono vita le storie e i personaggi protagonisti delle opere video: i disoccupati silenziosi di Turn On (2004), gli uomini in marcia verso un aereo pronto a decollare in Centro di Permanenza Temporanea (2007); ai volti estatici dei fedeli raccolti di fronte all’icona sacra di pilgrIMAGE (2005), i lamenti della prefica che celebra il passaggio dalla morte alla vita in Vajtojca (2002), la simbiosi tra uomo e animale di Inside the Circle (2011), fino all’artista stesso che entra in contatto con il pubblico stringendo ad una ad una le mani dei presenti in The Encounter (2011).
Nel lavoro di Adrian Paci si contaminano linguaggi differenti: video e film possiedono spesso la sintesi visiva della pittura e vicecersa questa sembra avere il ritmo narrativo del cinema, ricorrendo spesso al formato del fotogramma, al flusso continuo delle immagini, alla struttura in serie. Al PAC erano esposti anche acquerelli, la serie di disegni su carta e le gouaches montate su tela, insieme ad acrilici su bobina di legno.

 

La mostra era arricchita da un’installazione di Giovanni De Lazzari (Lecco, 1977), artista formatosi con Adrian Paci durante gli anni del suo insegnamento all’Accademia di Belle Arti di Bergamo, che raccontava gli esordi della carriera di Paci e approfondiva la dimensione delle fonti e il loro montaggio all’interno del discorso espositivo.

VB65

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Quella di Vanessa Beecroft al PAC è stata la prima mostra in uno spazio pubblico milanese della grande artista italiana di fama internazionale formata presso l’Accademia di Belle Arti di Brera agli inizi degli anni Novanta.
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In mostra una nuova performance dal titolo VB65 appositamente ideata per il PAC, e 16 video di precedenti performances dell’artista ( Genova 1969; vive a Los Angeles), tra cui le più recenti VB61 e VB62, ma anche alcune dei suoi esordi come VB16 e VB35, rieditate su dvd e proposte al pubblico in anteprima mondiale. Un’occasione davvero unica e inedita per vedere insieme un così nutrito gruppo di lavori della star italiana dell’arte contemporanea, molti dei quali mai mostrati prima.
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La performance VB65
I drammi dell’immigrazione sono al centro di VB65, la prima performance in cui l’artista ha utilizzato solo uomini. Venti immigranti africani stavano seduti a una tavola trasparente di dodici metri come a un’ultima cena, con abiti da sera, smoking, vestiti formali neri eleganti, ma a volte fuori misura, strappati, impolverati o vecchi. Di fronte a un pubblico di invitati mangiavano carne e pane nero senza piatti, senza posate, e bevevano acqua e vino. I commensali sedevano silenziosamente durante la performance. Il pubblico appariva come ospite non invitato alla loro cena. Mangiavano cibo intero, non tagliato. L’immagine ha una sacralità ben evidente e chiari riferimenti pittorici, ma rimanda anche alla cruda realtà che questi uomini vivono ogni giorno nel nostro Paese. Il PAC appariva come la loro casa in cui noi siamo stati gli ospiti che non si siedono con loro. Questi uomini erano veri immigrati che arrivarono dall’Africa a bordo di una barca. È stato chiesto loro di lavorare due giorni interi, preparati anche a comprendere il concetto e il fatto che quest’immagine fosse una finzione, una metafora e che doveva comunicare un certo messaggio al pubblico. Era importante che i performer non rompessero il silenzio e la tensione tra loro e il pubblico, affinché l’immagine rimanesse intatta. Il video dell’opera è stato donato dall’artista alle Civiche Raccolte d’Arte del Comune di Milano.
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“Vanessa Beecroft ha proposto al mondo dell’arte una serie di performance che affondano le radici nella pittura e nella scultura antica, scegliendo e prendendo per questo all’inizio, ma non solo, performer dalla strada, non alla stregua del neorealismo del cinema italiano, ma piuttosto ispirandosi alla fase successiva, a quel realismo pittorico che fu di Pier Paolo Pasolini. Difatti, le modelle, quasi sempre tutte donne, venivano impiegate anche per fare un commento sul consumo del corpo femminile nella società dello spettacolo contemporaneo che del corpo e della sua estetica ha fatto il centro della riflessione sociale” disse G. Di Pietrantonio, curatore della mostra.
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Che si trattasse di un’azione con cui l’arte entrava nel sociale era reso evidente anche dalle performance degli ultimi anni in cui l’artista ha impiegato sempre più donne di colore in riferimento alle prostitute nigeriane che costellano il centro storico di Genova. VB48, nel 2001, nella stessa sala di Palazzo Ducale dove si sarebbe tenuto il G8, vide trenta modelle di colore disposte come in una composizione pittorica antica; commento dell’artista in occasione del ritorno alla città natale e frutto del suo interesse per la luce di Caravaggio e per le composizioni monocromatiche, in questo caso nero su nero.
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VB54 è la performance del 2004 tenutasi nel Terminal 5 del Kennedy Airport di New York: una cinquantina di modelle sempre di colore stavano nella lounge incatenate ai piedi con manette uguali a quelle usate dagli uffici dell’immigrazione a memoria della deportazione degli schiavi e difatti l’autorità aeroportuale non tardò ad interrompere l’azione. Performance che, partita da una composizione geometrica, via via perse la sua forma originaria.
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Con questo l’artista passa ad inserire nel suo lavoro anche i riferimenti all’espressionismo astratto che si rese più evidente nella performance VB61 presso la Pescheria di Rialto a Venezia, nel 2007, durante la Biennale. Qui corpi di donne di colore giacciono distesi a terra schizzati dall’artista stessa con colore rosso per mettere in atto un’opera che sta tra mattanza e action painting, un modo per riflettere sui drammi di sempre della libertà dell’esistenza a seguito di soggiorni che Vanessa ha intrapreso in Sudan, terra di costanti guerre etniche.
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La donna è ancora al centro della performance VB62 realizzata da Vanessa Beecroft a Lo Spasimo di Palermo. Ventisette donne dipinte di bianco si sono confuse a tredici statue in gesso con un richiamo alla scultura siciliana barocca ed in particolare a quella dell’artista Giacomo Serpotta (1656 – 1732, Palermo). Una ricerca voluta dalla Beecroft ed enfatizzata dallo spazio di accoglienza, la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, che ha rappresentato una nuova occasione per indagare la condizione femminile nell’arte e nella vita attraverso il corpo.
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La performance VB65 è stata realizzata con il sostegno di TOD’S ed accompagnata da un catalogo edito da Electa con un testo critico di Giacinto Di Pietrantonio e un ricco apparato di immagini.
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La performance è stata prodotta dal Comune di Milano-Cultura e da MiArt, in esclusiva assoluta per il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano.

ROBERT INDIANA A MILANO

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Al PAC è stata presentata una mostra dedicata a Robert Indiana, uno dei più noti e celebrati esponenti dell’arte contemporanea statunitense.
Nonostante la sua fama Robert Indiana (nato Clark nel 1928, l’artista scelse come nome d’arte quello del proprio stato d’origine) ha avuto in Italia pochissime occasioni espositive e la mostra al PAC ha rappresentato un’opportunità unica per apprezzare la complessità di un artista il cui corpus di opere è stato ingiustamente messo in secondo piano dalla straordinaria notorietà del suo lavoro più celebre: la scritta tridimensionale LOVE. Oggi fra le immagini più diffuse al mondo LOVE è divenuta negli anni un simbolo il cui significato va oltre il riferimento originario, quello al movimento pacifista degli anni Sessanta, per assumere un significato universale. Al PAC era esposta una versione in marmo, scolpita a Pietrasanta, alta 100 cm.
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La selezione di opere al PAC ha permesso di ripercorrere la carriera dell’artista nel suo complesso. La mostra si apriva con il dipinto The Slips, del 1959, con cui l’artista gettò un ponte fra immaginario Pop e l´allora nascente movimento minimalista. L’opera unisce infatti una figurazione rigidamente geometrica a riferimenti alla cultura urbana. Alla fine degli anni Cinquanta Indiana risiedeva infatti nel distretto newyorchese di Coenties Slip insieme agli artisti che avrebbero contribuito a definire la fisionomia di pop art e minimalismo come Ellsworth Kelly, Agnes Martin, James Rosenquist e Jack Youngerman e la sua opera riflette e interpreta in modo del tutto originale una moltitudine di influssi diversi.
La mostra del PAC restituì tale complessità presentando accanto ai dipinti dell’artista i suoi assemblaggi, le colonne percorse da brevi iscrizioni, per giungere infine alle recenti tele in cui le lettere sono sostituite da ideogrammi, a dimostrazione di una inesausta capacità di rinnovamento e sensibilità sociale.
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E’ la grande forza comunicativa tipica della pop-art ad accomunare l’opera di Robert Indiana in tutte le sue declinazioni. Questa ha avuto modo di esprimersi appieno, oltre che nei lavori ospitati al PAC, attraverso le sculture monumentali esposte in diversi luoghi della città di MIlano: in Piazzetta Reale, Piazza della Scala e Corso Vittorio Emanuele II. Tali lavori, in acciaio corten e alluminio verniciato hanno messo in luce l’interesse dell’artista per parole, numeri ed elementi tipografici in genere, e l’abilità dell’artista nel tradurre tale fascinazione attraverso la scelta di forme e materiali. La serie delle grandi cifre metalliche, allo stesso tempo riferimenti ai segni che popolano il paesaggio urbano e imponenti solidi geometrici, rappresenta un ulteriore e interessantissimo esempio di coniugazione di scultura minimalista e Pop-Art.
L’interesse per la tipografia rappresenta inoltre il trait d’union fra l’artista e la tradizione artistica statunitense del Novecento e in particolare a uno dei suoi pittori più rappresentativi: Charles Demuth. L’apparente immediatezza di Indiana nasconde infatti una straordinaria ricchezza di significati e rimandi alla cultura americana in tutti i suoi aspetti: alla sua storia, alla sua letteratura, alla sua cultura sociale, antropologica e visiva.
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Un esempio molto interessante di tale stratificazione di significati è stato rappresentato al PAC da Decade Autoportrait 1968, del 1972. La grande tela che ha come antecedente un’altra opera di tema numerico, il celebre dipinto Figure Five in Gold di Demuth si articola – come si conviene a un autoritratto – in riferimenti al suo autore e al contesto sociale. Bouwerie allude alla zona di New York in cui Indiana aveva trasferito il proprio studio a metà degli anni Sessanta; la stella, simbolo ricorrente nell’opera di Indiana, allude allo stesso tempo alla fama e al patriottismo, cui fa riferimento anche la combinazione di colori rosso e blu, ecc.
In occasione di un’intervista al New York Times nel dicembre 2002, Indiana disse: “Ci sono più segni che alberi in America. Ci sono più segni che foglie. Per questo penso a me stesso come a un pittore del paesaggio americano”.
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La mostra è stata organizzata dal Comune di Milano – Cultura, in collaborazione con la galleria Gmurzynska di Zurigo.
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LA SCENA DELL’ARTE

La mostra Ugo Mulas. la scena dell’arte tenutasi al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea illustrava l’evoluzione della ricerca fotografica di Ugo Mulas (1928 – 1973), una delle figure più importanti nel panorama della fotografia contemporanea.

L’esposizione era strutturata in due mostre parallele, rispettivamente al PAC di Milano e al MAXXI di Roma, per poi confluire, a giugno, negli spazi della GAM di Torino.

La mostra al PAC ha ricostruito l’evoluzione del percorso artistico di Mulas tra gli anni Sessanta e Settanta e il passaggio dal reportage sociale alla fotografia analitica, attraverso 250 opere disposte in un itinerario espositivo articolato in sezioni parallele: una struttura aperta che segue il doppio filo della documentazione dell’arte e dell’evoluzione linguistica dell’opera di Mulas.

Il percorso della mostra si apriva con le immagini di New York, arte e persone (1964 – 1967), uno dei lavori più celebri del fotografo milanese. Nella grande metropoli americana Mulas ebbe due guide d’eccezione: il gallerista Leo Castelli e Alan Solomon, entrambi conosciuti alla Biennale del ’64 , che lo introdussero nella scena dell’arte tra critici, studi di artisti e galleristi, happening e serate negli atelier. Mulas incontra e ritrae Duchamp, Warhol, Lichtenstein, Johns, Christo, Segal, Rosenquist, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Cage, superando definitivamente la tradizione del reportage classico. Nei suoi ritratti non c’è interesse alla mera documentazione, alla narrazione dei fatti. “..quello che mi interessa é dare un’idea del personaggio in rapporto al risultato del suo lavoro, cioé di capire quale dei suoi modi e atteggiamenti é decisivo rispetto al risultato finale.”(Ugo Mulas). Il tentativo è quello di rendere la disposizione mentale dell’artista e non la mera registrazione dell’evento, del gesto, dell’istante.

La sezione dedicata alle Nuove Ricerche (1967 – 1969) testimoniava lo straordinario lavoro di riflessione critica che Mulas dedica alla fotografia. La crisi del reportage e del linguaggio fotografico, che in quegli anni viene travolto dall’avvento delle immagini televisive, spingono il fotografo milanese alla sperimentazione e ad esplorare le diverse possibilità comunicative del mezzo fotografico. Gli scatti non sono più solo destinate alle riviste illustrate, ma diventano opere create per essere pubblicate su libri e cataloghi (Vitalità del Negativo,Calder, Melotti); esposte come grandi provini (Johns, Newman, Noland); raccolte in cartelle fotografiche (Fontana, Duchamp e Montale) oppure utilizzate per scenografie teatrali (Wozzeck, Giro di Vite). I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l’uso dell’iconografia del provino, sono tutti elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare, dalle sperimentazioni pop e new dada e da un’attenta rilettura della storia della fotografia: una risposta creativa e innovativa di fronte ai cambiamenti radicali apparsi alla fine del decennio. In questa sezione è stato esposto Campo Urbano (Como, 1967) restaurato grazie al contributo del Comune di Milano e restituito al pubblico dopo oltre vent’anni di oblio.

Al PAC il pubblico ha potuto ammirare infine le Le Verifiche, una delle opere fondamentali nella storia della fotografia contemporanea italiana.
“…Ho chiamato questa serie di foto Verifiche, perché il loro scopo era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in se stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico.” (Ugo Mulas)
Con la consapevolezza di vent’anni di esperienza pratica Mulas affronta i temi tecnici e i dettagli pragmatici del fare fotografia. L’uso dell’obiettivo, gli effetti del grandangolo, la pellicola e le proprietà della sua superficie sensibile diventano soggetti e allo stesso tempo spunti di riflessione critica sulla propria arte, sul ruolo del fotografo e sul suo rapporto con la macchina.

Completava la mostra una selezione di immagini sulla Milano degli anni Cinquanta – le Periferie. Sono i primi lavori di un Mulas autodidatta, che si fa interprete di una città complessa e piena di contraddizioni: dai dormitori ricovero dei senza casa ai quartieri borghesi, dalle case degli operai ai volti dei lavoratori. Immagini di una Milano ormai dimenticata, oggi stravolta dalla modernità e dai paradossi della tecnologia. Una serie di foto che permetterà al pubblico di tornare alle origini del lavoro di Mulas, contestualizzando l’evoluzione di vent’anni di ricerca.

Le tre mostre sono state accompagnate da un unico catalogo che ha riprodotto il corpus complessivo dell’opera di Mulas.

Grazia Toderi

Il PAC ha voluto proseguire la programmazione 2006 con la mostra di Grazia Toderi che presentava nuove opere create per l’occasione e un’ampia raccolta dei suoi video.

Nella ricerca di Grazia Toderi (Padova, 1963), una delle più interessanti personalità emerse nella generazione artistica italiana del primo decennio del 2000, il teatro lirico italiano è un elemento fondamentale, presente al PAC con un lavoro (nel 2006 inedito) realizzato con la collaborazione del Teatro alla Scala di Milano nell’estate 2006.
Grazia Toderi ha dedicato alcuni video di grande bellezza al Teatro La Fenice di Venezia, al Teatro Rossini di Pesaro, al Teatro Massimo di Palermo, al Teatro Comunale di Ferrara e a quello di Modena e ad altri più periferici, piccolissimi e preziosi. Attraverso la rilettura di questi luoghi decisivi nella cultura musicale, artistica e architettonica italiana Grazia Toderi ha proposto un’interazione tra il patrimonio storico e il linguaggio contemporaneo dell’arte visiva. Ha inoltre, spesso, preso a tema le architetture a pianta centrale, arene e stadi italiani, europei e americani. Le sue immagini di queste architetture, rielaborate e arricchite da luci e movimenti, si trasfigurano in corpi siderali che si fanno tramite e luogo di sintesi tra lo spazio cosmico e quello umano. Al PAC un flusso continuo coinvolge tutto lo spazio ed evoca appunto il rapporto tra terra e cielo.
Nelle due proiezioni del video Scala nera, 2006, l’immagine del Teatro alla Scala è virata in una tonalità che allude al buio nel momento in cui sta per iniziare lo spettacolo. In una proiezione l’immagine è frontale; nell’altra il teatro, raddoppiato in modo da costituire una ellissi circondata dai palchi, ruota attorno al proprio asse. L’ovale nero, nucleo germinale e segreto, crea un’attrazione ipnotica. Da un lato la sua forma ellittica ci riporta al lavoro sugli stadi; dall’altro evoca una grande bocca che ricorda i ritratti dei personaggi delle commedie di Plauto, o del Giardino di Bomarzo. Questa ellissi nera diventa simbolo di una sedimentazione così profonda da diventare imperscrutabile.
L’altro lavoro si intitola Rosso Babele, 2006, due proiezioni video. Attraverso la sovrapposizione di riprese di città appare una materia rossastra, brulicante di luci, dalla quale si innalza, si sgretola, sprofonda una torre, formata dalla stratificazione di centinaia di livelli di trasparenza. Una moderna Torre di Babele che si intreccia alla moltitudine di città indistinte dove, sempre più spesso, il significato profondo del linguaggio fluttua tra crescita, moltiplicazione e distruzione, tra eccesso di informazione e impoverimento del messaggio. Il titolo si collega a quella tonalità notturna delle lampade ai vapori di sodio dell’illuminazione stradale. Un colore rossastro che non esiste nella tavolozza e che Toderi chiama “Rosso Babele”, proprio per la sua mobilità e indefinitezza per lo sguardo, ma anche per l’ossessivo sovrapporsi di livelli che attornia la Babele che stiamo attraversando.

La mostra si articolava in un’ampia sequenza di proiezioni tra le quali: Zuppa dell’eternità e luce improvvisa, 1994, dove l’artista tenta di camminare e aprire un ombrello completamente immersa in una piscina, sperimentando l’assenza di gravità, tema che ritroveremo poi nel video dedicato alle riprese televisive dello sbarco sulla Luna, Nata nel ’63, 1996, e in Ragazzi caduti dal cielo, 1998, che collega lo spazio dell’immaginazione filmica – il video è dedicato al film “Il Mago di Oz” – a quello cosmico.
Il legame con la televisione e i media riappare nei video dedicati alle riprese televisive degli stadi, Il decollo, 1998, San Siro, 2000, Diamante, 2001, e in Q, 2003, ispirato invece al famoso quiz televisivo italiano “Rischiatutto”. Il rapporto reale e simbolico con lo spazio siderale trova un’ulteriore lettura nelle immagini prese dall’alto di Milano, 2005, dove le luci intermittenti che brillano tra il tessuto urbano creano un collegamento con le costellazioni e in Empire, 2002, dove nell’immagine satellitare notturna degli Usa, anch’essa brulicante di luci, sembra quasi che quei punti luminosi provengano dalla terra stessa e si immergano nel firmamento. L’attenzione ai monumenti architettonici storici ritorna in Rendez-vous, 2005, che riprende, in una doppia proiezione, la cupola della chiesa – progettata da Juvarra – di Sant’Uberto nella Reggia della Venaria Reale, vicino a Torino. Catalogo a cura di Skira con testi di Joao Fernandes e di Francesca Pasini.

Come di consueto, la mostra è stata accompagnata da un programma di attività didattiche per ragazzi, visite guidate per singoli visitatori e gruppi. Iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. Si è tenuta inoltre l’undicesima rassegna di PAC in Concerto – concerti di musica contemporanea legati ai contenuti della mostra.
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S ed Epson Italia.

DOUBLE DRESS

a cura di Suzanne Landau

 

La mostra è organizzata dall’Israel Museum di Gerusalemme ed è curata da Suzanne Landau. L’edizione italiana, presentata al PAC, prevede 18 opere tra grandi installazioni di pittura, sculture e fotografie datate fra il 1994 e il 2001. Le opere provengono dall’Israel Museum di Gerusalemme, dalla Stephen Friedman Gallery di Londra, da collezioni private e da musei europei e americani, come la Tate Gallery di Londra e l’MCA di Chicago.

 

Nato nel 1962 a Londra, Yinka Shonibare è vissuto in Nigeria fino all’età di 18 anni trasferendosi poi a Londra per studiare. Nella sua ricerca si è rivolto con ironia alle tematiche legate all’identità culturale: dal dandy dalla pelle nera agli astronauti e agli alieni vestiti con stoffe a colori pseudo africani, l’artista è alla ricerca dell’elemento provocatorio e destabilizzante, che inneschi la riflessione sulla prospettiva da cui abitualmente si considera il mondo. Nella sua arte non smettono mai di convivere due anime diversissime: quella profondamente africana e quella anglosassone, occidentale.

 

Le installazioni, spesso spettacolari, prendono talvolta spunto da celebri dipinti europei del XVIII e XIX secolo. Uno dei lavori esposti al PAC, per esempio, ricostruisce in forma tridimensionale di un noto quadro di Jean-Honoré Fragonard, La balançoire, 1767.

 

I soggetti di Shonibare, guardano spesso, al mondo della moda e del costume, come campo di indagine per rimarcare la contaminazione tra cultura europea ed elementi della tradizione culturale africana: l’artista veste dei manichini con abiti dalla foggia tipicamente occidentale, usando tessuti considerati africani, i batik, che per la loro complessa origine sono la migliore metafora per affrontare criticamente la collisione di due culture. Queste stoffe infatti sono originarie dell’Indonesia e i colonizzatori olandesi sono stati i primi a produrle industrialmente utilizzando la tecnica indonesiana del batik, per poi cercare di rivenderle, senza successo, sullo stesso mercato indonesiano. Divennero invece molto popolari nell’Africa occidentale tanto che, dopo l’indipendenza conquistata negli anni ’60, paesi come il Ghana e la Nigeria le adottarono come simbolo di liberazione dal colonialismo e di affermazione d’identità nazionale. Shonibare le inserisce nei propri lavori, vestendo le sue sculture, con ironia e come strumenti di critica politica.

 

In altre opere, realizzate con il mezzo fotografico, Shonibare si pone al centro della rappresentazione nelle vesti del Dorian Gray di Oscar Wilde oppure si ispira alla serie A Rake’s Progress di William Hogarth. Il dandy è per Shonibare un leitmotiv, è colui che afferma la sua individualità sfidando il perbenismo della società con il proprio aspetto e atteggiamento.

 

Ormai noto a livello internazionale, Yinka Shonibare ha presentato nel 1989 a Londra la sua prima mostra personale, per poi esporre presso gallerie private e spazi pubblici in Europa, Stati Uniti, Canada, Sud Africa e Israele. Ha partecipato a importanti esposizioni collettive, come Sensation. Young British Art from the Saatchi Collection (1997) alla Royal Academy of Arts di Londra, oppure Authentic/Ex-centric: Conceptualism in Contemporary African Art nell’ambito della 49° Biennale di Venezia.

IL DITO NELLA PIAGA | THE MORGUE

Il PAC di Milano ha celebrato l’estro creativo di un grande interprete dei nostri tempi – Andres Serrano – con un duplice appuntamento: la mostra Il dito nella piaga, a cura di Oliva María Rubio, in collaborazione con La Fábrica di Madrid, una selezione di alcune delle sue più significative fotografie degli ultimi vent’anni, e la mostra The Morgue, a cura di Alessandro Riva e realizzata in collaborazione con Tomaso Renoldi Bracco, dieci lavori inediti dell’artista tratti dalla controversa omonima serie fotografica del 1992. Immagini macabre e scioccanti a lungo tenute nascoste per volere dello stesso artista e che vennero presentate per la prima volta, in esclusiva assoluta, a Milano nel 2007.

 

Artista maledetto e grande provocatore: questa l’immagine che Serrano ha sempre dato di sé. In realtà, ad un’analisi più approfondita, la sua opera appare complessa e ricca di sfumature. Genio ribelle per eccellenza, Serrano esprime la sua critica nella sottile dicotomia che sottende le sue immagini fotografiche, patinate e perfette, terrificanti e trasgressive, rifiutando le finzioni del mondo contemporaneo e illustrandone i turbamenti interiori e le manie.
Dai suoi esordi – agli inizi degli anni ottanta – le fotografie di Andres Serrano (New York, 1950) non hanno mai smesso di rappresentare i temi più controversi e polemici del convulso mondo in cui viviamo. La religione, il fanatismo, la corporeità, la xenofobia, la malattia e la morte, sono stati oggetto della sua meticolosa attenzione in serie come Bodily Fluids, The Morgue, Nomads, Ku Klux Klan, The Church, A History of Sex… Ciò che sembra una forma di provocazione si manifesta come una vocazione: quella di trattare temi e problematiche che ci riguardano come esseri umani attraverso immagini che si distinguono, inoltre, per la loro bellezza. La bellezza è una componente essenziale del lavoro di Serrano. Attraverso di essa, l’artista intensifica la tensione che seduce lo spettatore con il fascino proibito dei temi tabù. Di fatto, Serrano ha confessato che il suo obiettivo come artista è sempre stato quello della bellezza: “Credo che sia necessario cercare la bellezza anche nei luoghi meno convenzionali o nei candidati meno insospettabili. Se non incontro la bellezza non sono capace di scattare alcuna fotografia”.

 

L’efficacia delle sue immagini trova riscontro nei meccanismi della pubblicità: il ricorso ad una illuminazione dichiaratamente caravaggesca, i colori accesi, la precisione dei titoli, e, soprattutto, l’uso di un linguaggio breve, ma sempre eloquente. Serrano non ha un interesse specifico per il processo fotografico; è, piuttosto, un formalista che si identifica fortemente con la tradizione e con i grandi maestri della pittura barocca, definendosi un artista religioso del passato con idee contemporanee.
Le sue composizioni sono rigorose e i simboli allegorici appaiono in ognuna delle sue serie fotografiche. Costruisce elaborati tableaux che adottano la qualità e il virtuosismo manierista dei grandi dipinti seicenteschi. Serrano non censura mai le sue foto e non scende mai a compromessi. Muovendosi sulla sottile linea che separa il sacro e il profano, il morale e l’immorale, il lecito e l’illecito, l’opera di Serrano ha evitato i limiti del puro decorativismo. L’artista travalica i confini del permissibile – tanto nell’ambito personale quanto in quello sociale – per adescare e sorprendere gli spettatori, mettendoli a confronto con immagini che, come primo impulso, farebbero chiudere gli occhi se non fossero presentate in modo bello e pittorico.

 

Le iniziative didattiche e le visite guidate sono state realizzate con il sostegno del Gruppo COOP.

VOLTI/LABIRINTI

Sotto il titolo ARTAUD, Volti / Labirinti il PAC ha presentato un “montrage” – dalle parole francesi montage (montaggio) e montrer (mostrare) – multimediale dedicato all’artista/poeta/attore e regista teatrale Antonin Artaud (1896-1948), considerato una delle personalità più sovversive della sua epoca, direttore artistico per l’occasione è stato Jean-Hubert Martin. Nel mondo contemporaneo, Artaud esercita un’influenza rimarchevole non solo negli ambiti dell’arte, della letteratura, del teatro e del cinema, ma anche nel campo della cultura psichiatrica. Si può dire che abbia rivoluzionato e ridefinito le nozioni stesse di cultura, linguaggio, salute mentale e arte teatrale.

 

Questo “montrage”, concepito da Jean-Jacques Lebel e realizzato con la partecipazione di Dominique Païni, ha offerto una visione complessiva di tutte le attività creative di Artaud, connettendole l’una all’altra e testimoniando la loro stupefacente molteplicità. Accanto ad un’esclusiva selezione di disegni – fra i quali figura un buon numero di autoritratti – di preziosi manoscritti, di lettere, di documenti a stampa, di fotografie, vi erano anche alcuni ritratti di Artaud eseguiti dai suoi amici: Jean Dubuffet, Man Ray, Balthus, Eli Lotar, Armand Salacrou, Denise Colomb, Georges Pastier, per citarne alcuni. Una sezione a parte è stata dedicata al rapporto tra Artaud e il teatro.

 

Un’installazione di Jean-Jacques Lebel ricostruiva la stanza dell’ospedale psichiatrico di Rodez dove, a partire dal 1943, Artaud è stato sottoposto, su decisione del medico primario dell’istituto, a cinquantuno sedute di elettroshock che gli hanno procurato una sofferenza indicibile, oltre a fratturargli una vertebra lombare. La tragedia della schizofrenia – una tragedia che è insieme personale e sociale, e che generalmente viene censurata dalle istituzioni museali – ha trovato qui la rilevanza che le spetta.

 

A tutto ciò si aggiunga il repertorio completo – nel 2006 per la prima volta in Italia – delle ventidue apparizioni cinematografiche di Artaud, presentato da Dominique Païni con un complesso sistema di schermi che riflettono gli uni sugli altri i ruoli interpretati da Artaud, dando vita a un magma incandescente. Si è visto Artaud non solo nei film più celebri a cui ha preso parte – La Passione di Giovanna d’Arco (1927-28) di Carl T. Dreyer, Napoleone (1927) e Lucrezia Borgia (1935) di Abel Gance, La Leggenda di Liliom (1933) di Fritz Lang, L’Opera da tre soldi (1930) di Georg Wilhelm Pabst – ma anche in numerose altre pellicole, nella maggior parte misconosciute e introvabili, mai viste dopo gli anni Venti e Trenta.

 

Un’attenzione particolare è stata riservata ai suoi testi, compresi quelli scritti nella lingua di sua invenzione, sotto l’egida del filosofo Gilles Deleuze che dell’opera di Artaud ha fornito una lettura innovatrice.
Questa mostra di un genere inconsueto, o piuttosto questo montrage positivo, ha avuto l’ambizione di rendere omaggio a un pensiero che occupa una posizione di estrema rilevanza nella cultura della nostra epoca.

 

Il catalogo riccamente illustrato include, oltre ai testi dei due curatori, un’intervista ad André Berne-Joffroy – l’ultima persona ad aver fatto visita ad Artaud all’ospedale psichiatrico di Rodez – e un importante testo inedito di Paolo Fabbri su Artaud e Van Gogh. Il catalogo è stato pubblicato dalla casa editrice 5 Continents Editions.
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S
In occasione della mostra si son tenuti concerti di musica contemporanea a tema, conferenze e uno spettacolo teatrale tratto da un testo di Artaud, Per farla finita col giudizio di dio, messo appositamente in scena per questa mostra a cura di OUTIS – Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea.
Inoltre, nel mese di gennaio 2006, si son tenuti due rassegne cinematografiche.
La mostra è stata accompagnata come di consueto da attività didattiche e visite guidate realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia.

ULTIME NOTIZIE

La bella e intensa mostra di Christian Boltanski, celebrata dalla stampa e dalla critica come l’evento artistico della primavera milanese 2005, è stata visitata da più di 15.000 persone.

 

Christian Boltanski è l’artista francese (Parigi, 1944), oggi riconosciuto come uno dei più grandi artisti contemporanei, è ritornato in Italia con una mostra dedicata alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e alla sua percezione. L’evento si è svolto allo spazio espositivo milanese PAC dal 18 marzo al 19 giugno 2005 è curato da Jean-Hubert Martin.

 

Le opere presenti al PAC nel 2005 sono state costruite per permettere al visitatore di entrare in contatto con la personale elaborazione estetica del concetto di tempo elaborata da Boltanski durante tutta la sua attività artistica: non sviluppo storico, ma fragile e instabile passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. Il linguaggio artistico di Boltanski è concettuale come è concettuale l’arte funeraria di molte culture: un sistema di semplici segni e di suoni ripetitivi per dare forma all’inarrestabile flusso del tempo e quindi all’improrogabile appuntamento con la morte. Gli oggetti che Boltanski impiega nelle sue installazioni sono trattati come marionette, non sono usati per essi stessi, per la loro forma o per ciò che rappresentano, ma piuttosto per la loro arcana capacità di evocare e richiamare alla mente avvenimenti passati, strappandoli così all’oblio, alla dimenticanza.
Opere che si focalizzano sull’ultimo grande dubbio dell’uomo, che sprofondano nella paura della fine, sempre minacciosa all’orizzonte. E’ la sensazione del passaggio, della precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza.

 

Nella mostra milanese sono stati quindi affrontati due temi fondamentali per tutto il genere umano:
– il trascorrere del tempo è percepibile con forza e crudezza in diversi modi, dall’opera sonora Horloge Parlante che con una voce sintetizzata scandisce ininterrottamente l’orario, all’opera video Entre temps che propone in sequenza le immagini fotografiche del volto di Boltanski nelle diverse tappe della sua vita, o ancora dal video interattivo 6 septembre che ci presenta ad alta velocità consequenziale i fatti accaduti ogni 6 settembre, giorno di nascita dell’artista, con possibilità però di selezionarne uno da analizzare, da ricordare. I suoi lavori tendono essenzialmente a richiamare alla mente il passato, evidenziandone le tracce e l’azione sacralizzante;
– il tema della scomparsa, della morte viene evocato non solo da fotografie, ma anche dall’inequivocabile e lapidaria opera TOT (“morto” in tedesco) scritta a parete con l’impiego di lampadine luminose.

Il tempo – che siano pochi giorni o una vita intera – avvalora l’intento di documentare la realtà quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il sapore della Memoria.
Una mostra quindi di grande impatto, una sorta di memento mori dove la verità apparente delle cose fatta di istantaneità e transitorietà si ribalta nel suo opposto complementare e immerge i visitatori nell’implacabile fluire del tempo. Un trascorrere leggibile però solo attraverso la lente soggettiva del Ricordo.
L’esposizione è stata accompagnata da un raffinato libro d’artista pubblicato da Charta.

 

In occasione della personale di Boltanski, la Sezione Didattica del PAC ha organizzato delle iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. In programma inoltre la rassegna PACinConcerto e Appuntamenti contemporanei: conferenze e letture legate alle tematiche della mostra e visite agli studi di artisti, infine Apriti PAC!
La mostra è stata realizzata con il sostegno di TOD’S.

CONDITIONS OF HUMANITY

Nel 1954 il PAC, progettato da Ignazio Gardella, inaugurava la sua prima mostra. Per celebrare i cinquant’anni dalla nascita della principale istituzione civica milanese destinata all’arte contemporanea, l’ingresso alla mostra “Kimsooja. Conditions of Humanity” è stato in programma durante l’estate 2004.

 

La mostra di Kimsooja è stata la prima importante personale tenuta dall’artista coreana in Italia. Nata nel 1957 a Taegu, nella Corea del Sud, dopo gli studi di pittura a Seoul e a Parigi, nel 1998 Kimsooja si è trasferita a New York, dove vive e lavora.

 

Le sue opere, estremamente poetiche e al tempo stesso contemplative, attingono al background culturale della terra d’origine dell’artista e il tema centrale di molte di esse verte sul ruolo dell’essere umano nel mondo globalizzato. Dagli anni ottanta il cucito, attività appresa al fianco della madre, è divenuto l’elemento essenziale del lavoro dell’artista consentendole di passare dalla superficie bidimensionale della pittura alla tridimensionalità degli oggetti. I Bottari, fagotti di tessuto realizzati a partire dal 1992 con coperte e vestiti usati, costituiscono ormai un elemento tipico del lavoro dell’artista. Presentati anche alla Biennale di Venezia del 1999, ammassati su un camion con il quale l’artista aveva ripercorso per 11 giorni itinerari a lei famigliari della Corea, questi fagotti di tessuto fanno riferimento alla tradizione coreana ma sono al tempo stesso una metafora universale di spostamento.

 

L’esposizione di Kimsooja al PAC includeva, oltre a diverse proiezioni video, la grande installazione A Laundry Woman (Lavandaia, 2000) con tessuti tradizionali coreani, grandi e coloratissimi, fitti di ricami dai motivi simbolici, sono fissati su sottili fili metallici tesi lungo il parterre del padiglione, come panni messi ad asciugare. Il visitatore è stato invitato ad aggirarsi fra i tessuti, che ondeggiano lievemente al passaggio, e a sperimentarne, da vicino e tangibilmente, la bellezza, la delicatezza e la grande energia cromatica. Percepiti nell’installazione dell’artista soprattutto come elementi estetici e simbolici, in Corea questi tessuti hanno una precisa funzione utilitaria: sono usati per il letto – una coperta per riposare, dormire, amare – per accogliere i defunti, ma anche per contenere e trasportare in un fagotto tutti i beni di una persona.

 

Se in A Laundry Woman sono i copriletto, talvolta confezionati cucendo insieme i tradizionali tessuti coreani, a rappresentare l’elemento centrale della creazione artistica di Kimsooja, nella video installazione A Needle Woman (Donna-ago, 1999-2001) è l’artista stessa ad “agire” come la punta di un ago. Kimsooja rimane immobile in mezzo alla folla dei passanti di metropoli come Shanghai, Tokio, New York o New Delhi, costringendo di conseguenza le fiumane di gente ad aggirarla e a deviare. Negli otto schermi della video installazione, esposta al PAC in due sale, l’artista si presentava di spalle e il visitatore poteva vedere i volti e le diverse reazioni delle persone che la evitano mentre, idealmente, le strade delle diverse città sembrano convergere al centro delle stanze.

 

Le attività dell’artista coreana, viaggi ed esposizioni, possono essere interpretate come una costante tessitura di nuove relazioni. Kimsooja: “È la punta dell’ago a penetrare il tessuto, e noi possiamo unire due diversi lembi di stoffa con il filo che passa per la cruna dell’ago. L’ago è un’estensione del corpo, il filo è un’estensione della mente. Nel tessuto rimangono sempre le tracce della mente, invece l’ago abbandona il campo non appena terminata la sua mediazione. L’ago è medium, mistero, realtà, ermafrodita, barometro, un momento, e uno Zen.”

 

In occasione della personale di Kimsooja, la Sezione Didattica del PAC ha organizzato “Gira il mondo con Kimsooja!”, iniziative realizzate con il sostegno del Gruppo COOP Lombardia. Si è tenuta inoltre la quarta edizione della rassegna PACinConcerto, cinque appuntamenti fra arte e musica contemporanea.

 

La mostra è stata accompagnata da un catalogo riccamente illustrato, con testi in italiano, francese e inglese, edito da 5 Continents Editions.
Nella galleria al primo piano, accanto alla mostra di Kimsooja, il PAC ospitava ACACIA, associazione amici arte contemporanea italiana, che presentava le opere Là ci darem la mano di Mario Airò e Francesco by Francesco di Francesco Vezzoli, vincitori rispettivamente del Premio ACACIA 2003 e 2004. Le opere sono state destinate alla collezione del Museo d’Arte Contemporanea di Milano.

THE RECORD OF THE TIME

a cura di Suzanne Landau

 

Con la mostra The Record of the Time il PAC rende omaggio alla multiforme produzione della musicista e artista newyorkese Laurie Anderson, icona dell’arte multimediale, in quella che è la sua prima retrospettiva in Italia.
L’esposizione comprende circa novanta opere sculture, oggetti, disegni, fotografie e installazioni che interagiscono e si coniugano con una straordinaria presenza visiva del suono.
Laurie Anderson, che si autodefinisce una “narratrice”, area installazioni in cui abbina poesie e canzoni, collage di suoni e musica, basandosi su episodi della propria vita, sui suoi sogni, su poemi, miti e leggende.

 

Mi sono concentrata soprattutto sulla musica e sulla performance. Ho sempre combinato diverse forme artistiche. […] Le opere presentate nella mostra The Record of the Time riflettono soprattutto il lavoro che ho fatto con il suono e il rumore. Ci sono numerosi motivi conduttori: il violino, la voce, le parole, spazi sonori e alter ego.

 

Una caratteristica dell’opera di Laurie Anderson è il suo speciale cocktail di teatro, musica pop, azione e immagini, elementi che vengono miscelati elettronicamente con l’uso del computer e che danno origine a performance e installazioni audiovisive spettacolari, producendo un universo molto personale di immagini e suoni.
Con questa combinazione, unica nel suo genere, di sofisticata tecnologia, immaginativi mondi pittorici, musica innovativa e testi di grande effetto, Laurie Anderson e diventata un punto di riferimento ineludibile sulla scena dell’arte multimediale internazionale.

 

In alcune installazioni interattive presentate nella mostra i visitatori hanno l’opportunità di esplorare fisicamente iI mondo dell’artista: Handphone Table (1978) per esempio, invita a percepire i suoni lungo le ossa delle braccia. Altre esperienze audiovisive sono proposte dalle opere Tape Bow Violin del 1977 e Neon Violin (1983) basata sullo strumento così spesso usato da Laurie Anderson da diventare per lei una sorta di “seconda voce”; uno strumento di cui l’artista ha alterato e manipolato elettronicamente il suono in ogni maniera possibile.

 

Laurie Anderson esordisce come performer nel 1972, con un concerto di clacson. Dalla metà degli anni settanta si dedica alla performance, lavorando con la musica e il suono. A Londra, nel 1981, la sua canzone 0 Superman giunge in testa alle classifiche e diventa un successo a livello internazionale. Negli anni seguenti l’artista presenta performance sempre più complesse e lavora in collaborazione con registi cinematografici a musicisti come Brian Eno, Wim Wenders e Peter Gabriel, realizzando fra l’altro il film-concerto Home of the Brave. Nei primi anni novanta il suo lavoro assume una connotazione più politica e parecchie sue creazioni affrontano i temi della violenza, del conflitto e della censura.

CHEN ZHEN

a cura di Jean-Hubert Martin

 

Il PAC apre il 2003 con una mostra dedicata all’artista cinese Chen Zhen.
La mostra, prima tappa della nuova programmazione curata da Jean-Hubert Martin, critico e storico dell’arte esperto di culture extraeuropee, consiste in circa 70 opere tra installazioni e disegni, provenienti da collezioni private italiane e straniere, e dagli eredi dell’artista.
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Nato a Shanghai nel 1955, Chen Zhen è considerato uno dei protagonisti del nostro tempo, che ha fatto della sua opera un esempio di pluralismo nell’arte, condensando nella nozione di trans-esperienza il fulcro del suo lavoro.

 

Formatosi nel periodo della Rivoluzione Culturale Cinese, Chen Zhen ha vissuto e lavorato fra Shanghai, New York e Parigi, città nella quale si è trasferito dal 1986, muovendosi sempre, senza barriere, tra il pensiero orientale e quello occidentale, nell’ottica della sintesi piuttosto che in quella della scelta e delle rigide classificazioni.
Il suo linguaggio artistico, che affronta molte questioni, dalla politica internazionale alla vita in sé, lo ha condotto a cercare una sintesi visiva della sua arte dove fosse riconoscibile, innanzitutto da un punto di vista estetico, il bisogno di farsi comprendere in un mondo dalle prospettive diverse da quelle che lo avevano circondato e cresciuto, di mescolare il sapore della sua Cina con quello dei Paesi che andava conoscendo.
Inizialmente orientato sulla pittura, Chen Zhen si è poi concentrato su installazioni di grandi e medie dimensioni, cominciando ad assemblare oggetti tratti dalla vita comune come letti, seggiole, tavoli, vasi da notte, culle e materassi, allestiti in composizioni che li privano della loro originaria funzione.
Ha spesso condotto progetti in luoghi e contesti atipici, coinvolgendo direttamente le popolazioni locali: con i bambini di Salvador de Bahia, nei quartieri neri poveri di Houston o con gli shakers del Maine.

 

Al centro della sua ricerca anche l’indagine sul diverso approccio alla medicina in oriente e occidente che emerge in alcune opere incentrate sulla figura del corpo umano e degli organi interni.
In particolare, fra le opere in mostra, sono esposte alcune grandi installazioni ricche di fascino realizzate fra il 1991 e il 2000 con tavoli, sedie, polistirolo, ventilatori, registratori di cassa, tessuti e candele colorate, come Obsession of Longevity, 1995; Un-interrupted Voice, 1998; Human Tower, 1999; Zen Garden, 2000; Lumière innocente, 2000.

 

Fra le più importanti esposizioni internazionali di Chen Zhen vanno ricordate: The New Museum of Contemporary Art, New York, 1994; Center for Contemporary Art, Kitakyushu, Giappone, 1997; Guggenheim Museum Soho, New York, 1998; Biennale di Venezia, 1999; Ludwig Museum, Colonia, 1999; GAM, Torino, 2000; Serpentine Gallery, Londra, 2001; Institute of Contemporary Art, Boston, 2002; PS1, New York, 2003

MORE THAN REALITY. 30 sculture più vere del vero

a cura di Thomas Buchsteiner, Otto Letze

 

Il PAC ospita per la prima volta in Italia la più grande retrospettiva dello scultore americano Duane Hanson.

 

Attraverso le opere esposte, tutte realizzate tra il 1967 e il 1995, il messaggio dell’artista si codifica nella tridimensionalità dei suoi personaggi, individui non specifici, gente comune colta per strada, un mondo malinconico fatto di disincanto e abbandono, ma che riesce a provocare simpatia e sincera emozione: nei luoghi dell’arte, infatti, i racconti di vita di Hanson permettono di identificarci, a prescindere da quanto siano lontani da noi.

 

Io non riproduco la vita, faccio una dichiarazione sui valori umani. La mia opera si occupa di persone che conducono un’esistenza di pacifica disperazione. Mostro il vuoto, la fatica, l’invecchiamento, la frustrazione. Queste persone non sanno reggere la competitività. Sono gli esclusi, degli esseri psicologicamente handicappati.
Martin bush, Sculptures by Duane Hanson, Wichita 1985

 

Duane Hanson per oltre trent’anni si è preoccupato di raccontare la rassegnazione, il vuoto, la solitudine dei ceti medio-bassi americani, traducendo le sue osservazioni in sculture viventi.
“Ma poi ci mettevo sempre dentro un pezzetto di braccio o di naso” così commentava Hanson la propria incapacità di allinearsi alle tendenze artistiche astratte o dell’espressionismo astratto dominanti negli anni della sua formazione.

 

L’artista crea le sue sculture prendendo a modello casalinghe, operai edili, cameriere, venditori d’auto, custodi, ovvero i rappresentanti dei ceti medi e bassi della società americana, che in queste biografie scultoree evidenziano il “fiato corto” del sogno americano.
Realizza figure a grandezza naturale, partendo da calchi di persone in carne e ossa, sui quali interviene modificandone artisticamente i particolari. La sua ricerca dei soggetti è lenta e accurata, la loro essenza l’ordinarietà. Gli stessi atteggiamenti dei personaggi devono essere naturali, riflettere le loro tipiche attività. Hanson quindi sceglie pose statiche, con il corpo a riposo tra un’attività e l’altra. I suoi soggetti assumono un’aria un po’ sognante, che permette di catturare il loro ripiegamento interiore e la loro malinconia.

 

Hanson raggiunge il successo internazionale nel 1972 con Bowery Derelicts (1969) e Seated Artist (1971), opere che segnalano definitivamente il bisogno dell’artista di guardare alla vita di tutti i giorni.
Tutt’altro che copie della realtà, come qualche critico ha sostenuto. Duane Hanson ha sempre cercato un effetto realistico che andasse oltre la realtà stessa, curando ogni aspetto in modo quasi maniacale: dall’incidenza della luce che è mutevole allo spessore psicologico che anche una maglietta o una macchina fotografica possono rimandare. Hanson non riproduce la vita, come egli stesso scrive, la sua è una dichiarazione sui valori umani.

KURT SCHWITTERS (1887 – 1948)

a cura di Luigi Sansone

 

Il PAC presenta una grande antologica dedicata a Kurt Schwitters, uno fra i maggiori esponenti del modernismo classico.

 

Sono stato messo al mondo da bambino piccolo piccolo. Mia madre mi ha regalato a mio padre perché fosse felice. Quando mio padre apprese che ero un uomo non seppe più contenersi e cominciò a saltellare per la stanza dalla gioia, perché per tutta la vita non aveva desiderato che uomini. Ma la massima gioia per mio padre fu che non fossi un gemello
Da Das Literarische Werk, a cura di Friedhelm Lach

 

La mostra proposta ripercorre i momenti salienti della sua carriera artistica la cui data chiave è il 1919, quando, sezionando la parola Kommerz, Schwitters diede un nome, Merz, a quella che altri chiamavano la “pittura dell’immondizia”.

 

Oli, acquarelli, i celebri collages di stampo dadaista, sculture e una ricostruzione del Merzbau, installazione ante litteram, consentono di ricostruire il percorso artistico, originalissimo e anticipatore di Schwitters, la cui opera ha costituito un fondamentale punto di riferimento per molta sperimentazione artistica del secondo dopoguerra, dal neo-dadaismo alla pop art, attraverso gli happening e gli environment, fino alla poesia visiva e fonetica e a certe forme di arte concettuale.
In mostra è anche presente una nutrita documentazione sull’attività grafica di Kurt Schwitters: sono presenti alcune riviste (tra cui vari numeri di Merz e Der Sturm), la raccolta di poesie Anna Blume, Die Kathedrale, contenente otto litografie, e il volume Dada Almanach.

OMAGGIO A GILLO DORFLES

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a cura di Martina Corgnati
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Il PAC presenta al pubblico la mostra antologica Omaggio a Gillo Dorfles con l’esposizione di un centinaio di opere dell’artista e critico triestino – eseguite dal 1935 al 2000 – e di diverse opere di alcune grandi figure di riferimento.
La rassegna, a cura di Martina Corgnati, vuole restituire la ricchezza e l’unicità della figura artistica ed intellettuale di Gillo Dorfles, ripercorrendo tutte le tappe del suo percorso.
Una sezione a parte è riservata all’attività del MAC (Movimento Arte Concreta) e alla partecipazione di Dorfles al movimento: in mostra le preziose cartelle di grafica edite dalla Galleria Salto nel 1948 e 1949 (cartella di 12 stampe a mano, e 24 litografie originali), la cartella di linoleum di Dorfles, Monnet, Veronesi (Salto, 1956), la serie completa dei Bollettini del MAC e dei successivi Documenti d’Arte d’Oggi, oltre ad alcune opere originali del membri fondatori, Soldati, Munari e Monnet.
Un’altra sezione della mostra è invece riservata agli artisti con cui Dorfles si confronta, direttamente o no, e da cui prende spunto, specie negli anni Trenta e Quaranta, per l’elaborazione del proprio linguaggio pittorico. Un confronto fino ad oggi mai tentato e che conferma l’anomalia della figura di Dorfles nel contesto dell’arte italiana nell’epoca che precede la Seconda Guerra Mondiale e per tutto il decennio successivo; e per contro i suoi legami con i protagonisti del Surrealismo e del Blaue Reiter. In questa sezione trovano posto fra l’altro opere di Klee, Kandinsky, Arp, Sophie Täuber, Matisse, Mirò, Tanguy. La rassegna è completata dalle edizioni originali di tutti i testi critici e teorici pubblicati da Dorfles, oltre che da una selezione di fotografie e da alcuni video.
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Gillo Dorfles è uno dei personaggi più interessanti nella cultura critica ed artistica del secolo scorso in Italia. Nato a Trieste nel 1910, Dorfles si laurea in medicina (specializzazione in psichiatria), ma sin dai primi anni Trenta associa alla formazione scientifica un profondo interesse e una speciale apertura verso la pittura, l’estetica e, in generale, le arti. Nel 1934 si reca a Dornach per seguire una serie di conferenze di ambito steineriano al Goetheanum; contemporaneamente incomincia a dipingere, realizzando numerose tele influenzate in parte dall’ambiente antroposofico. Complessa e multidisciplinare, dunque, l’indagine sulle strutture e sulle espressioni umane ed artistiche impostata da Dorfles già nella fase iniziale della sua attività; sostanzialmente estranea alle tendenze dominanti della cultura italiana di quel momento, e associabile invece piuttosto al clima mitteleuropeo (culla, nei trent’anni precedenti, della psicoanalisi freudiana come della teoria steineriana e di un ambiente artistico cosmopolita e ricettivo, ben rappresentato dal Blaue Reiter come dal primo Bauhaus) e ad alcune componenti del Surrealismo.
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Nel 1948, dopo il trasferimento a Milano, Dorfles è fra i fondatori del MAC insieme ad Atanasio Soldati, Gianni Monnet, Bruno Munari. Fino alla fine degli anni Cinquanta partecipa a tutte le mostre del gruppo in Italia e all’estero, accompagnando i propri interventi pittorici, assai originali rispetto al concretismo classico, con una vivace attività teorica, a base di articoli, manifesti, testi e saggi, a sostegno e precisazione delle posizioni del gruppo. E’ questa una fase d’intensa ed ininterrotta produzione pittorica che comprende numerosi oli e tempere caratterizzati per lo più da un linearismo sinuoso e liberissimo, di matrice organica, e da un cromatismo curioso e sperimentale, oltre ai famosi Monotipi risalenti alla fine del sesto decennio.
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Poi, l’attività teorica e gli impegni universitari (ricopre la cattedra di Estetica presso l’Università di Milano, poi di Cagliari e di Trieste) prendono momentaneamente il sopravvento: del Dorfles pittore si perdono le tracce fino al 1986, data della mostra personale allo Studio Marconi di Milano. Da questo momento Dorfles non ha più abbandonato l’attività pittorica senza tuttavia rallentare quella critica: per citare soltanto alcune delle pubblicazioni più importanti apparse negli ultimi anni, si ricordano qui Elogio della disarmonia (Garzanti, 1986), Il feticcio quotidiano (Feltrinelli, 1990), Fatti e fattoidi (Neri & Pozza, 1997), Conformisti (Donzelli, 1997).
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Del Dorfles pittore hanno scritto fra l’altro Mirella Bandini, Luciano Caramel, Luigi Cavadini, Claudio Cerritelli, Martina Corgnati, Maria Cristina Di Geronimo, Ugo Di Pace, Marco Meneguzzo, Patrizia Serra, Emilio Tadini, Enrica Torelli Landini. Nel 1986 è uscita un’importante raccolta di testi, poesie e immagini per i tipi di Taide (Salerno), Materiali minimi 1938-85.

LUCIO FONTANA. IDEE E CAPOLAVORI

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parte della rassegna Lucio Fontana. Centenario dalla nascita. Cinque mostre a Milano
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a cura di Antonella Negri
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A cento anni dalla nascita di Lucio Fontana, Milano propone il più grande e completo itinerario mai realizzato sulle sue opere: oltre 400 lavori e 5 sedi espositive coinvolte.
La mostra al PAC Lucio Fontana. Idee e capolavori a cura di Antonella Negri intende proporre un panorama antologico dell’opera di Fontana facendo perno su alcuni “capolavori”, ciascuno dei quali rappresenti un momento o un aspetto della sua vicenda artistica.
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Il percorso è articolato in sezioni costruite ognuna intorno ad un “capolavoro”: si inizia con la sala Primordio e utopia in cui la Signora seduta del 1934 con la sua materia agitata e vibrante, raccoglie già le tracce dei gesti e di un’idea di spazio cercata e precisa; la seconda Uomini neri prende nome dall’omonima scultura, riflesso dell’altro che è in noi ed è parte della nostra esistenza che rimane nell’oscurità. La terza Equilibri comincia a delinearsi la sua ricerca di forma non chiusa e spezzata; segue Tecnica e idea che si concretizza nell’idea di manipolazione della materia implicata nella ceramica e che vede le origini nell’opera Il ballerino di Charleston. La penultima sezione, Riguadagnare il cielo, tratta il tema dell’opera ambientale che rappresenta la sperimentazione di nuovi mezzi, evocazione dell’ignoto e atto di liberazione dell’uomo dai condizionamenti legati al tempo. Chiude la mostra “La luna, l’uomo ci va e vi fa un segno” prende il nome da un articolo di Raffaele Carrieri intitolato Fontana ha toccato la Luna: di questa sezione fanno parte i Concetti spaziali e le Attese.
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BLUE CARNAC E STORIE SIMILI

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a cura di Lea Vergine
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Irma Blank, artista tedesca ma milanese d’adozione, progetta appositamente per gli ambienti del PAC Bleu Carnac: un’opera che occupa l’intera balconata e composta da 77 lunghe tele (207×75 cm cad.) allineate in fila a parete in dialogo serrato tra loro.
L’opera sottolinea la principale caratteristica dello spazio del PAC, anch’esso stretto e lungo, e offre una nuova declinazione del suo lavoro Abecedarium.
Il colore bleu, furtivo e grandioso allo stesso tempo, non è un colore sfondo o ornamento o suggestione: è lo spazio-pulsione, è desiderio.
Gli elementi fondamentali del suo originale linguaggio vengono messi a fuoco fin dal 1968: la pittura come segno; il segno come traccia della complessità dell’autore; la traccia come grafia personale, sempre diversa eppure uguale; la grafia come pura energia, come andamento scritturale svuotato di ogni referente esterno a sé. Le circa 130 opere esposte, tra cui si contano diversi libri d’artista, documentano le fasi più salienti dell’elaborazione e dello sviluppo di queste componenti di base.
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Accompagna la mostra un catalogo edito da Leonardo De Luca Editori con un testo di Lea Vergine, un ricostruzione del percorso artistico a cura di Elisabetta Longari ed una ricerca antologica critica che comprende scritti di Accame, Caramel, Dorfles, Fagoni, Fossati, Griffi, Gualdoni, Meneguzzo, Serra, Spatola, Veca, Verzotti, Vescovo, Weinzapflen.
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Irma Blank pratica la scrittura come strumento di conoscenza intuitiva e riduce i segni linguistici a “Urzeichen”, segni primordiali. In oltre quarant’anni di attività, ha esposto le sue opere in musei, gallerie e rassegne internazionali come Documenta di Kassel (1977), la Biennale di venezia (1978, 2017), Quadriennale di Roma (2005), Centre Pompidou di Parigi (2010), Kunsthaus Hamburg (2016), MAMbo Bologna (2016).
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OLTRE L’ESPRESSIONISMO ASTRATTO

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a cura di Dore Ashton
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Con una trentina di grandi tele, provenienti da musei americani ed europei e da collezioni private, il PAC dedica una mostra a Morris Louis, la prima mostra monografica in uno spazio pubblico italiano.
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Idealmente legata alla rassegna su Robert Motherwell, con la quale il PAC ha aperto la stagione artistica 1989-90 che segna i suoi 10 anni d’attività, la mostra di Louis prosegue la riflessione dull’espressionismo astratto americano e i successivi sviluppi verso la pittura “color field”.
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La selezione delle opere, curata da Dore Ashton, documenta le fasi essenziali della produzione dell’artista (nato a Blatimora nel 1912 e morto a Washington nel 1962) e ne rivela, insieme al febbrile sperimentalismo, il temperamento profondo e lirico.
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Le sue opere si collocano nel momento in cui l’Action Painting sta esaurendo la sua carica propulsiva e l’idea dell’azione non sembra più soddisfare tutte le sue esigenze, andando così oltre l’espressionismo.
La selezione delle opere, curata da Dore Ashton, documenta le fasi essenziali della produzione dell’artista e ne rivela, insieme al febbrile sperimentalismo, il temperamento profondamente lirico.
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Il percorso al PAC si apre con opere come Silver del 1953 ed Untitled del 1956 che testimoniano il suo contatto con l’Action Painting: sono lavori molto carichi, attraversati da intricati arabeschi, da sovrapposizioni di colore, da esplosioni di forme in un esuberante disordine espressionista, ancora legato alla pittura di Jackson Pollock.
Dalla metà degli anni cinquanta Louis realizza una serie di opere definite dai suoi contemporanei “dipinti a campi cromatici” (color field painting): fanno parte di questo rigoroso e originalissimo percorso di ricerca i celebri Veils (Veil).
Successivamente ai Veils, Louis esprime il suo senso istintivo del colore nella serie dei Florals, ottenuti con l’uso di un colore carico, non attenuato dalla lavatura finale, in movimento centrifugo verso i bordi della tela.
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Con la serie dei Columns (Colonne) e degli Unfurleds (Spiegature), la ricerca sul colore si spinge verso gli esiti più rigorosi e lirici: il bianco del fondo – solcato al centro da fasce di colore puro, nette, in rapido movimento rettilineo o colate lentamente dai lati – diventa presenza luminosa, vibra di una propria radiosa intensità. Gli ultimi dipinti presenti in mostra, sono “tanto vicini all’essenza del colore – come afferma Dore Ashton – quanto è possibile ad un pittore ottenere: il colore vive, attraverso le sue stesse vibrazioni, nello spazio che esso si crea”.
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PINO PASCALI

a cura di Fabrizio D’Amico, Simonetta Lux
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A quasi vent’anni dalla scomparsa di Pino Pascali, il PAC gli dedica una grande retrospettiva: ironia, paradosso e fantasia sono le parole chiave.
Nella mostra vengono ricostruiti, attraverso la scelta di una ventina di opere – tra cui Decapitazione delle giraffe, 32 metri quadri di mare circa, 9 metri quadri di pozzanghere e Contro pelo – i passaggi esemplari del lavoro di Pascali come dissolutore di un mondo di certezze in favore di uno spettacolo mutante, e spesso geniale, di apparenze. L’iconografia come stereotipo e come svuotamento del senso, l’uso di materiali non storici, prelevati dalla realtà tecnologica e banale, un rapporto con lo spazio, complesso e di grande spessore ambientale, fanno di Pascali l’autentico iniziatore delle pratiche di combined-idiom che si diffondono in Europa, sotto il segno della neo-avanguardia.
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Pascali è stato una delle figure chiave del clima che, negli anni Sessanta, ha portato a maturazione i germi problematici da cui sono scaturite vicende come il Concettuale e l’Arte povera. L’artista espone per la prima volta alla Tartaruga, a Roma, nel 1965: in un triennio folgorante ecco nascere serie straordinarie come i frammenti espansi d’anatomia femminile, le armi, gli animali, il mare.

FAUSTO MELOTTI

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a cura di Mercedes Garberi, Lucia Matino, Elena Pontiggia, Flaminio Gualdoni, Marco Meneguzzo
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A Palazzo Reale di Milano nel 1979 si apre una grande rassegna dedicata a Fausto Melotti, che costituisce un’indagine approfondita ed esauriente della sua personalità espressiva. La mostra è seguita personalmente dall’artista, rispecchiandone compiutamente gli orientamenti e gli ideali estetici.
A pochi mesi dalla sua scomparsa avvenuta a giugno del 1986, il PAC, che ha avuto il privilegio di annoverare Melotti tra gli ispiratori dei suoi programmi critici, non può che riallacciarsi all’immagine di quella esposizione, proponendo un percorso che non ne riporti analiticamente le singole fasi, ma ne sintetizzi la visione lirica e la poesia spaziale.
Acrobata invisibile, sospeso tra presenza e assenza, tra gioco e filosofia, tra rivelazione dell’essere e consapevolezza del nulla, Fausto Melotti ha portato la scultura ai limiti dell’indicibile, lontano dall’eloquenza della materia e del volume, nei luoghi della pura musicalità.
Due sono le sedi messe in campo per questa mostra: il PAC e le sale del Museo d’Arte Contemporanea di Palazzo Reale, che raccolgono uno straordinario gruppo di opere degli anni ’30 donato dall’artista.
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L’OFFICINA DEL POSSIBILE

a cura di Flaminio Gualdoni
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Il PAC ripercorre con installazioni, progetti, plastici, fotografie, l’intero arco di lavoro di Parisi, quasi a coronare un ciclo di mostre che lo ha visto protagonista alla Galleria Nazionale di Roma nel ’79, al Musée d’Ixelles nell’80, in Images Imaginaires al Centre Pompidou nell’84.
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La figura di Ico Parisi è tra le più anomale e significative della ricerca architettonica contemporanea. Comasco, cresciuto alla scuola di Terragni, dalla fine degli anni Trenta Parisi si è impegnato in un’attività multiforme che ha toccato campi come la progettazione, l’architettura di interni, la scenografia, la cinematografia, il nascente design. Attività, tutte, svolte secondo un fertile principio di integrazione tra la propria figura e quella degli artisti, chiamati a collaborare pariteticamente al suo lavoro. Dagli anni Sessanta la sua attenzione si è concentrata non tanto su nuove forme architettoniche, ma sulla configurazione di nuovi modi di vivere lo spazio, dell’abitare. La Casa esistenziale, l’Operazione Arcevia, l’Apocalisse gentile, su su fino a Architettura dopo, sono le tappe di un lavoro di radicale ripercorrimento critico dell’architettura, non mirante – come troppe esperienze attuali – ad accettarne e viverne la perdita di identità, ma a trovare infine quella “officina del possibile” aperta, creativa, sempre mobile, che è l’unica dimensione esistenziale oggi accettabile.
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“PARTITIONS”/OPERE MULTIMEDIA 1984-85

a cura di Lea Vergine
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Gina Pane espone al PAC una serie di opere eseguite negli ultimi due anni. La mostra Gina Pane. Partitions/Opere multimedia 1984-85, a cura di Lea Vergine, è organizzata in collaborazione con il Centre National des Artes Plastiques del Ministero della Cultura francese, il Centre Culturel Français di Milano, la Galerie Isy Brachot e Anne Marchand. Questa esposizione segna il suo passaggio ad un’altra forma espressiva pur nella continuità del lavoro precedente: non vi sono più chiodi, spine, vetri, lamette, ma fotografie di gocce di sangue, piccole fusioni di metalli diversi, giocattoli in plastica, bicchieri rotti, fotografie di sue azioni passate. Nella balconata superiore del PAC sono esposte undici opere di grande formato: “messe in scena” di materiali e segni diversi che coinvolgono lo spettatore attraverso la nozione di “partizione” intesa sia come divisione in più parti di una cosa, sia l’operazione di riunire e mettere in rapporto gli elementi che la costituiscono.
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Le Partitions sono assemblaggi compositi, in genere murali, che ricorrono all’impiego di materie e mezzi diversi – dalla fotografia all’oggetto, talvolta al disegno – restituiti tali e quali o costruiti dall’artista. Spesso riprendono dettagli fotografici o materiali a forte carica simbolica tratti da azioni precedenti: “Prendo le distanze e inizio a mettere in scena la memoria di quelle azioni, rispetto agli oggetti ai materiali, e in particolare ai vetri rotti. Uso il rame, come se fosse carne o sangue”. Allo spettatore l’artista richiede la capacità di creare “il proprio itinerario”, di ricostruire il pezzo a partire da tutti i frammenti per poi “appropriarsene totalmente”.
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ONE WORLD

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a cura di Giuliana Scimé
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One world un solo mondo od il mondo intero quello che René Burri ha percorso in oltre trent’anni di attività con la macchina fotografica.
Ed il viaggio non è stato solo attraverso terre di guerra e luoghi dove regna una pace (momentanea?), piccole notazioni di momenti di vita, paesaggi e città. Il viaggio di Burri è soprattutto nell’uomo, sempre diverso e pur sempre identico a se stesso e delle situazioni ambientali. Gli artisti nei loro studi, i politici alla ribalta, il povero soldato che non sa se sopravvivrà, gli innamorati ed i bambini, gli indifferenti sconosciuti, tutti i loro volti vanno a formare una lunga narrazione di passioni e sentimenti, di esperienze e di speranze. Il racconto di un intero mondo che è esplorato da René Burri con i diversi mezzi dell’arte: fotografia e collage che combina pazientemente ritagliando ed incollando pezzetti di carta. Il collage rappresenta una sorta di riposo dall’urgenza che obbliga l’uso della macchina fotografica, un’estensione meditata su ciò che ha visto e non ha potuto esprimere con la velocità dello scatto. Ed è anche un completamento culturale ed intellettuale.
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René Burri è nato a Zurigo nel 1933. Dal 1949 al 1953 ha frequentato la Scuola d’Arti Applicate di Zurigo. Dal 1956 fa parte della prestigiosa agenzia Magnum Photos di cui è presidente per l’Europa dal 1982. I suoi reportages sono stati pubblicati dalle più importanti riviste del mondo: Life, New York Times, Paris-Match, Epoca, Fortune, Stern, Geo, Schweizer Illustrierte Zeitung…

ARMANDO TESTA

Armando Testa in Italia e all’estero è riconosciuto come il più noto e il più rappresentativo cartellonista italiano. E’ un tipico creativo del nostro tempo che lavora su tutti i media: dai muri alle pagine alla televisione ed in questo si distingue dai maestri che l’hanno preceduto i quali dominavano quasi esclusivamente sull’affisso.
Testa usa ed ha usato indifferentemente la fotografia come il disegno. Nelle sue opere non ha mai voluto distinguersi per uno stile personale, preferendo esplorare tutti i sentieri della comunicazione visiva, ma proprio l’estrema sintesi ed energia dei suoi segni, il suo modo personalissimo di affrontare i giochi di masse, volumi e colori hanno finito per diventare il suo “stile”.
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Il suo primo successo è del 1937 quando vince un concorso per un cartello di un’azienda di inchiostri da stampa, la ICI, con un soggetto astratto, in un’epoca in cui l’astrattismo in Italia era patrimonio di pochissimi. Nel 1960 vince il concorso indetto tra tutti i migliori cartellonisti italiani per il manifesto ufficiale delle Olimpiadi di Roma. Nel 1968 riceve una medaglia d’oro dal Ministero della Pubblica Istruzione per il suo contributo alle arti visive. Nel 1970 ottiene il primo premio alla Biennale Internazionale dell’Affisso di Varsavia e nel 1972 il Museo di Varsavia gli dedica una mostra personale.
Nel 1982 riceve dall’ AAPI (Associazione italiana delle aziende di affissione) il premio quale migliore cartellonista italiano.
Il suo manifesto più famoso, Punt e Mes, è esposto al Museo d’Arte Moderna di New York. Altri suol cartelli sono presenti nelle collezioni del Museo dell’Affisso di Varsavia, dello Stedeljik Museum di Amsterdam, dell’Art Museum di Monaco.
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La pittoricità del suo “segno” emerge di più dai suoi cartelli: infatti nelle grandi tele inedite che Testa espone al PAC, pittura e cartellonistica si fondono in un nuovo linguaggio sintetico e rigoroso.

CARTE VARIABILI

a cura di Arturo Schwartz
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Dicembre 1983. Man ray, carte variabili è in assoluto la prima grande mostra retrospettiva dell’opera su carta di Man Ray.
L’ampia rassegna rivela oltre alla versatilità del suo linguaggio poetico, anche la predilezione per l’uso della carta come primato sia di materia che di pensiero: dalla carta bianca per scrivere, disegnare, dipingere, alle carte colorate per i collage, alle preziose carte a mano, alla cartapesta, alle carte sensibili.
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A seconda dell’indole del visitatore questa mostra può essere vista con l’occhio dell’amante della grafica sensibile alla perfezione del disegno e alla fluidità e libertà del tratto; oppure con quello del fotografo, che si soffermerà sulle straordinarie innovazione e realizzazioni di Man Ray; o ancora con l’occhio dell’esteta, perennemente alla ricerca del pezzo raro e raffinato; o spesso con quello dell’estimatore di nudi femminili, che vi troverà alcune immagini di donna tra le più liriche e sconvolgenti del nostro secolo; o forse con l’occhio dello storico dell’arte, che vedrà qui documentati due dei movimenti artistici più significativi dei tempi moderni: il Dadaismo e il Surrealismo; infine, e sarà probabilmente il caso più frequente, con l’occhio del comune visitatore di mostre, che vuole appagare la sua sete di conoscenza e godersi una raccolta di pezzi scelti con criteri rigorosi.
Arturo Schwarz, da Piccola guida alla mostra, 1983
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La mostra a cura di Arturo Schwarz è divisa in 3 parti: la prima, intitolata L’opera disegnata, comprende i lavori eseguiti sui vari tipi di carta comune o no; il secondo L’opera fotografata presenta tutte quelle su carta sensibile; il terzo Le pubblicazioni mostra tutti i documenti, giornali e opere a stampa che Man Ray ha arricchito con incisioni originali, disegni e fotografie.
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L’IMAGINAIRE D’APRES NATURE

a cura di Giuliana Scimé
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L’imaginaire d’après nature è la più grande antologica che sia mai stata dedicata ad Henri Cartier-Bresson.
Realizzata appositamente per il PAC, la mostra comprende: 70 disegni, 10 tempere, alcuni dipinti a olio e circa 300 fotografie. Moltissime delle opere esposte sono del tutto inedite.
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Henri Cartier-Bresson, una leggenda nella storia della fotografia contemporanea, fin da ragazzo si dedicò allo studio del disegno e della pittura sotto la guida di Cotonet e André Lothe. La scoperta dello strumento fotografico fu per lui del tutto incidentale e come ama dire: “riprendo degli schizzi della realtà con un mezzo meccanico invece che con la matita” ed ancora “la fotografia è l’estensione di un mezzo plastico che si basa sul piacere di osservare e l’abilità di catturare il momento decisivo in una costante lotta contro il tempo.”
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Dalle dichiarazioni di Henri Cartier-Bresson e dall’osservazione diretta delle sue opere eseguite con mezzi espressivi diversi, si intende come la scelta dello strumento dell’arte sia in stretta relazione con le urgenze creative dell’artista.
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Nel caso specifico di Cartier-Bresson bisogna sottolineare che la pratica del disegno è la risposta – indagata dai vari autori e mai trovata – alla straordinarietà delle sue composizioni in fotografia di assoluto rigore geometrico. Infatti, la disciplina a cui si sottopone l’artista nell’organizzare sul foglio di carta bidimensionale i corretti rapporti del soggetto della rappresentazione è divenuta in Cartier-Bresson naturale attitudine anche alla pre-visualizzazione dell’immagine fotografica.
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La mostra antologica al PAC dedicata ad Henri Cartier-Bresson pone in confronto dialettico le reazioni emotive e sensibili dell’artista di fronte alla stessa realtà esterna, restituita e filtrata da diversi strumenti delle arti visive.
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LE TUE PAROLE INCIAMPANO NELLE MIE ESTASI

a cura di Flaminio Gualdoni
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Gastone Novelli (Vienna 1925 – Milano 1968) è una delle personalità più anomale e vitali dell’arte italiana del dopoguerra. Dopo aver preso parte alla Resistenza ed essersi laureato a Firenze nel ’47, soggiorna per molti anni in Brasile, dove opera secondo un’impostazione di tipo neocostruttivo mutuata da Max Bill, con cui è in diretto contatto. Alla fine del ’54 è di nuovo in Italia, a Roma, dove frequenta Prampolini, Burri, Cagli e artisti di Forma 1.
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Nel 1957 fonda, con Achille Perilli, la rivista L’esperienza moderna, che rappresenta uno dei momenti di più consapevole riflessione sulla crisi dell’informale. Contemporaneamente, inizia a frequentare personalità come Beckett, Klossowski, Man Ray, Arp, Bataille.
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Agli inizi degli anni Sessanta, dopo aver partecipato al gruppo Continuità, fonda con Perilli, Giuliani, Manganelli e altri la rivista Grammatica, laboratorio culturale vicino alle posizioni del Gruppo ’63. La sua pittura evolve verso formulazioni più segniche, corsive, in cui elementi pittorici e trascrizioni testuali si intersecano pariteticamente.
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La mostra comprende circa 150 opere su carta, per lo più inedite, che ricostruiscono il suo itinerario e che contemporaneamente rappresentano un corpus unitario all’interno del suo lavoro. Cinque grandi tele fanno da segnali dei vari periodi, ad aprire i capitoli diversi della sua esperienza.

MINALE TATTERSFIELD

Marcello Minale, italiano, Brian Tattersfield, inglese, hanno formato ufficialmente la Minale-Tattersfield & Partners nel 1964 anche se la loro collaborazione era in atto già nel 1963.
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Lo studio conta più di 20 collaboratori e durante i venti anni di esistenza più di cento designers provenienti da tutto il mondo hanno collaborato attingendo nello stesso tempo ispirazione. Fra questi è bene ricordare gli attuali partners Alex Maranzano e Ian Grindle.
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La filosofia dello studio è espressa chiaramente nel 1965 da Edward BoothClibborn, editore e chairman del Designers & Art Directors Association di Londra. “Il successo di Minale-Tattersfield è dovuto al fatto che prima tentano di capire il problema e dopo sviluppano il concetto creativo; questo sembra ovvio ma troppo lavoro grafico oggi è basato soltanto su una moda, uno stile, una tendenza precostituiti. Crediamo che se il culto del Design per se stesso è morto, certamente Minale-Tattersfield l’hanno aiutato a morire.” Questa loro filosofia è chiaramente applicata a tutti i loro lavori sia che sia una semplice carta da lettera o un complicatissimo progetto per l’immagine per la nuova città Milton Keynes comprendente non solo tutta l’informazione ma anche la segnaletica e grafica murale.
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Fra i grandi lavori segnaliamo nel 1967 l’immagine dei grandi magazzini Harrods comprendente ben 450 nuovi imballaggi “Packaging”, la grafica televisiva delle due più grandi stazioni indipendenti Thames TV 1967 e Central TV 1982, la sotterranea all’aeroporto Heathrow con più di 3 Km di grafica murale, l’ammodernamento di 13 stazioni della Metropolitana Londinese, la nuova collezione mobili Cubic Metre, gli uffici di Anversa e Londra della De Beer, la recentissima nuova immagine dei grandi magazzini Heals e la collaborazione ventennale con la Zanotta.
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GABRIELE BASILICO, MILANO RITRATTI DI FABBRICHE

Con questa la mostra fotografica viene esposta per la prima volta in modo esauriente la ricerca fotografica sull’area industriale milanese che Gabriele Basilico ha condotto dal 1978 al 1980, dalla quale è stato realizzato il libro “Milano, Ritratti di Fabbriche” con testi di Carlo Tognoli, Marco Romano, e Carlo Bertelli per la Sugarco Editore.
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Il lavoro di Basilico si caratterizza in due direzioni parallele:
1. Documentaristica, per l’ossessiva ricerca quasi a tappeto sull’intera area urbana, allo scopo di ottenere una “carta di identità” del tessuto industriale milanese.
2. Interpretativa, secondo un metodo di lettura che si avvale di particolari condizioni, fra cui la più importante è la scelta di una luce intensa e brillante che rivela l’architettura, trasformandone l’immagine quotidiana nella sua essenza.
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Le riprese fotografiche sono state realizzate in condizioni atmosferiche ed ambientali sempre omogenee: sole brillante e conseguenti ombre nette, nelle giornate festive senza auto e persone.
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Per la metodologia scelta, se non per la verità di intenti, il lavoro di Basilico può ricordare da una parte la ricerca di Eugene Atget nella Parigi di fine secolo o, come suggerisce Carlo Bertelli nella presentazione del libro Milano Ritratti di Fabbriche, l’esperienza statunitense di Walker Evans nell’ambito della Farm Security Administration e, per alcuni aspetti formali, i fotografi della “Neue Saehlichkeit”.
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Le fotografie esposte sono cento, di formato 30×40 cm. bianconero, scelte tra le oltre duecento presenti nel libro citato.
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DADAMAINO

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a cura di Mercedes Garberi
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Continua il programma Installazioni con una mostra dedicata a Dadamaino e Stanislav Kolìbal. Per la mostra al PAC, Dadamaino presenta un’ampia selezione dei suoi lavori, dai Volumi alla Ricerca del colore, dall’Alfabeto della mente alle ultime Costellazioni.
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…Avevamo fatto una sorta di scelta cromatica, una schermatura, come le note musicali che sono tantissime, ma diventano sette… Abbiamo selezionato ed abbiamo scelto quaranta varianti di colore per realizzare le tavolette che misuravano esattamente venti centimetri per venti. Ho usato i colori dello spettro, sette: rosso, arancio, giallo, verde, celeste, blu, viola ricercando il valore medio tra loro più il bianco, il nero, il blu…
Un’esperienza importante ma poi ho cessato di usare quasi tutti quei colori… si sono fermati in quel lavoro che per me è uno Studio importante…

L. M. Barbero, Dadamaino. Un’intervista tra vita e pensieri…, cit., p.27.
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Dadamaino, cresciuta negli anni della generazione del rinnovamento dell’arte italiana dopo la stagione informale, è, alla fine degli anni Cinquanta, a fianco di Manzoni e Castellani nell’esperienza minimalista di Azimuth, e in seguito, nella pattuglia internazionale che fu definita Nuova Tendenza. La sua figura porta i conflitti della creatività femminile laddove per altri vigono ordine, sicurezze e volontà di egemonia. Persegue la sperimentazione razionale, ma non è razionalista; è scientifica, ma non scientizzante: lavora tra le polarità dell’inconscio e del conscio.
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DESIGN: DIETER RAMS &

Dopo Berlino, Colonia ed Helsinki giunge a Milano al PAC la mostra dedicata alla attività e alla ricerca di uno dei più noti e impegnati designer tedeschi Dieter Rams.
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Il nome Dieter Rams è legato strettamente al design dell’industria Braun AG. Egli infatti ha diretto la sezione design dell’azienda per 25 anni ed ha ispirato i suoi collaboratori soluzioni che hanno ottenuto riconoscimenti in campo internazionale.
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Al fine di dimostrare l’apprezzamento di tali risultati ed al tempo stesso i continui sviluppi del design industriale, l’International Design Zentrum di Berlino ha realizzato nel 1980, in collaborazione con la Braun AG, una mostra itinerante intitolata Design: Dieter Rams &.
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Nella mostra sono evidenziati i risultati ottenuti nel campo del design ed il processo creativo a tutti i livelli, non solo attraverso i prodotti realizzati, ma anche tramite disegni, i modelli di lavoro e gli strumenti di vari prodotti che non sono mai entrati nel programmi di produzione.
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Questa parte della mostra tratta in particolare la vasta gamma di problemi con i quali si confronta un designer industriale, le soluzioni trovate sempre tenendo conto dell’utilità del consumatore, nonché l’importanza delle scelte tecniche e materiali.
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Uno degli obiettivi che la mostra si pone è di chiarire il ruolo magari poco appariscente ma non di meno essenziale del design industriale, e ancora di renderlo familiare al consumatore, al quale è destinata l’accettazione di qualsiasi soluzione di design.
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EDWARD HOPPER: GLI ANNI DELLA FORMAZIONE

a cura di Gail Levin
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Promossa dal Whitney Museum of American Art di New York, una mostra di 197 opere degli anni della formazione di Edward Hopper.
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L’opera giovanile del pittore, grafico e illustratore americano tenuto a battesimo come artista nel 1920 dal Whitney Studio Club, più tardi Whtiney Museum, è documentata con una scelta di quasi 200 opere degli anni che vanno dal 1900 al 1935 circa: oli, acquerelli, acqueforti, puntesecche, disegni preparatori.
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Parallela alla mostra sull’opera più matura, presentata in Europa nei mesi precedenti, la mostra al PAC testimonia il cammino ed il progressivo delinearsi dell’arte di Hooper.
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I lavori esposti rivelano il ricorrere di motivi e soggetti comuni e di organizzazioni compositive simili a partire dai primi interessi ritrattistici del giovane allievo della New York School of Art, alle rappresentazioni realistiche di uffici, treni, alberghi e navi degli anni in cui lavorò come illustratore presso riviste economiche e popolari, all’esperienza parigina europea, fino alla produzione intensamente espressiva dell’età matura, con la sua predilezione per i contrasti drammatici e le rappresentazioni della vita urbana.
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Il catalogo della mostra è edito da Electa.
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ELISEO MATTIACCI

 
a cura di Zeno Birolli
 

Le 4 installazioni di Mattiacci, due delle quali inedite, vengono esposte insieme al PAC per la prima volta. Ad accogliere il visitatore nella prima sala 6 grembiuli da lavoro con altrettanti caschi appesi sopra, un conflitto tra il senso dell’affidamento (grembiuli come simbolo dell’operosità) e lo sgomento che scaturisce dalla presenza della maschera come volto finto. Il tema della maschera come controfigura/stuntman/finzione torna nella seconda sala, dove con una monumentale installazione Mattiacci colloca un motociclista senza volto in equilibrio su una barra di ferro, appoggiata su due colline create con dei mattoni. Sole, luna, volute, sagome ritorte, conchiglie e serpentine occupano la terza sala che riflette le teorie copernicane e la destabilizzazione di un mancato geocentrismo. Chiude la mostra una stanza con strumenti per la misurazione, parti del corpo umano dedite alla ricezione e invio dei messaggi e marchingegni in bilico su 9 tavoli inclinati, che eludono la nozione stessa di tavolo come sostegno.

 

Eliseo è un temperamento operoso, che scatena nebulosi trofei pronti a coronare o inchiodare i gesti inventivi più umili […]. Io non so se Eliseo Mattiacci è un pittore o scultore o che so io o che cos’altro, ma è certo il più scientifico e meticoloso autore; è il più tagliente, il più fondo, acceso e deciso, indovinatore.

Emilio Villa, catalogo della mostra
 

Eliseo Mattiacci è uno dei maggiori artisti che, assieme a Pascali e Kounellis, ha caratterizzato l’area romana dall’inizio degli anni sessanta, cominciando con lavori che chiamavano in causa lo spazio ambientale e orientandosi poi alla realizzazione di opere con una propria fisicità. Esemplare la sala alla Biennale di Venezia del 1972.

 

EXPLODING HOUSE

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a cura di Zeno Birolli.
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Vito Acconci presenta Exploding House al PAC. La mostra è a cura di Zeno Birolli, che all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato il ciclo “Installazioni” – una serie di interventi che prevedono il confronto diretto di opere, per la maggior parte nuove, di artisti scelti in ambiti diversi e tali da opporsi e/o interagire tra loro, con lo spazio e i visitatori – con i lavori Vincenzo Agnetti e Francesco Clemente.
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In questo secondo appuntamento Acconci, cui è affiancato da Eliseo Mattiacci, occupa tutto il parterre del PAC con un lavoro che interessa lo spazio architettonico e le sue tensioni fino a sovrapporsi a esso.
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Lungo la grande vetrata che si affaccia sul Giardino della Villa Reale viene allestita una grande casa nera. Intorno, delle biciclette invitano gli spettatori a pedalare verso la casa. Grazie all’azione del pubblico, la struttura si apre e all’interno della casa compaiono figure di legno, di colore diverso rispetto all’esterno, tra le quali una donna con un boa di struzzo rosa e un’altra figura con delle bandiere cucite insieme.
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A partire da Instant House — esposta nel febbraio 1980 a New York e, a giugno, alla Biennale di Venezia — l’artista progetta opere che richiedono un diretto coinvolgimento dello spettatore. Dalle performance provocatorie degli anni Settanta (dove la sua figura è sempre presente, fisicamente o attraverso il video, la fotografia, le registrazioni della sua voce) il suo linguaggio si evolve già a partire dagli anni Ottanta verso la realizzazione di sculture, strutture smontabili, “mobile architectural unit”, il cui sviluppo, nel 1988, è la fondazione dello studio di progettazione architettonica Acconci Studio.
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LELLA E MASSIMO VIGNELLI DESIGNERS

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Mobili, oggetti d’uso, imballaggi, allestimenti, segnaletica dei trasporti, architettura d’interni, immagine coordinata: è quasi impossibile trovare un ramo del design dove i Vignelli non hanno lasciato il segno, come documenta questa retrospettiva del PAC che è una sorta di bilancio o piuttosto un inventario della loro ventennale attività, prima in Italia e poi negli USA, del loro modo di lavorare e vivere “insieme”.
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Lella e Massimo Vignelli, ambasciatori del design europeo negli USA ed in particolare di una versione “mediterranea” più agile ed elegante della grafica svizzera e tedesca, hanno sapientemente bilanciato e reso complementari nel loro lavoro a due, come in un’alleanza dialettica tra il possibile e il pratico, l’impulso dell’uno e il controllo dell’altro.
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Nel 1960 i Vignelli hanno aperto uno studio di design e architettura a Milano; nel 1965 hanno iniziato a lavorare per la Unimark International Corporation; nel 1971 hanno ripreso l’attività professionale indipendente prima con la Vignelli Associates e poi con la Vignelli Designs (1978).

PIERRE KLOSSOWSKI

In occasione dell’apertura della mostra, il PAC proietta in anteprima il film ROBERTE (1978) tratto dal romanzo di Pierre Klossowski La Révocation de l’Edit de Nantes.
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L’esposizione di un gruppo di disegni che hanno accompagnato la nascita e la realizzazione del film, in mostra al PAC fino al 20 ottobre, è indicativa della personalità di Klossowski – scrittore, saggista e traduttore – che ha lavorato a fianco di Gide, Kojéve, Bataille, Bachelard, Masson, Benjamin, Sartre, Blanchot e Camus.
Figura chiave della letteratura e del pensiero contemporaneo, Klossowski si è dedicato con successo anche alla cinematografia, realizzando con ROBERTE uno tra o più interessanti esperimenti di traduzione di un testo letterario.

SORI YANAGI, DESIGNER. OPERE DAL 1950 AL 1980

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Medaglia d’oro per la sezione del disegno industriale alla Triennale di Mialno nel 1957, Sori Yanagi, oltre che designer, è stato presidente del Mingei-kan, il museo dell’artigianato giapponese fondato da suo padre Soetsu, e nel suo lavoro unisce queste radici popolari con la pratica del disegno industriale.
In particolare un disegno che nasce da quello degli anni ’50 e che da esso si è sviluppato senza soluzione di continuità. Nessuna concessione alle mode.
La precisa posizione e coerenza di Yanagi assume un significato di provocazione che rende stimolante la mostra e ne dà la chiave di lettura.

La mostra presenta molti oggetti, piccole forme d’uso quotidiano, e una serie di progetti, in particolare ponti stradali e arredamenti urbani. In più, 34 pannelli fotografici, con forme simboliche dell’artigianato tradizionale giapponese; ovvero le radici di Yanagi.
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LUIS DOMÈNECH Y MONTANER ARCHITETTO: 1850 – 1923

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a cura di Vittorio Gregotti
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Luis Domènech y Montaner architetto: 1850 – 1923 è una mostra di schizzi e acquerelli originali di uno degli architetti più importanti spagnoli e il più importante insieme a Gaudì nella Barcellona a cavallo tra Ottocento e Novecento.
La mostra presenta molte fotografie in bianco e nero, ma in particolare è centrata su schizzi e acquerelli originali e inediti.
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Luis Domènech y Montaner è un protagonista conosciuto finora solo dagli addetti ai lavori. Un protagonista del modernismo, uno dei due grandi di Barcellona; se Gaudì era l’artista, lui era il razionalista, il rigoroso. La sua attività si inserisce nel “plan Cerdà”, il piano urbanistico di Barcellona, uno dei progetti più interessanti di allora, per metà realizzato nel giro di trent’anni.
Aveva un’idea di razionalità molto legata alla ricerca di uno stile nazionale; grande uso del mattone, per esempio, strutture in ferro, e naturalmente l’interesse per la decorazione, con tutti i simbolismi che ne possono derivare.

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Vittorio Gregotti
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LETTURE PARALLELE IV

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a cura di Germano Celant
 

L’artista Luciano Fabro, protagonista tra i più emblematici del rinnovamento artistico milanese negli anni Sessanta, allestisce al PAC la sua mostra Letture parallele IV creando per la prima volta uno dei suoi Habitat: le sue opere, create per essere esposte fino a quel momento in abitazioni o gallerie, dialogano con lo spazio museale e architettonico per restituire una dimensione più domestica.

 

All’esterno il visitatore veniva accolto dalla scultura Ruota (1964), per poi trovarsi di fronte, nella prima sala, la lunga tavola di Iconografie. Nel percorso delle sale si incontravano le strutture scultoree in acciaio Croce, Squadra e Asta (1965), insieme all’installazione Cielo e la superficie riflettente di Buco (1963).

Grandi teli sospesi sulle teste dei visitatori, sui quali l’artista crea simmetriche macchie di Rorschach, collegano tra loro le diverse sale. E’ al PAC che per la prima volta Fabro crea i suoi Habitat, eredità ma anche superamento degli Ambienti spaziali di Fontana, che diventeranno in seguito la sua via per ripensare il rapporto tra artista, opera e spettatore.

 

Poche settimane più tardi l’apertura della mostra al PAC, Fabro è invitato alla XXXIX Biennale di Venezia e ritenendo che le condizioni espositive non fossero adeguate per la realizzazione di un nuovo Habitat, si limita a scrivere il proprio nome a lettere cubitali con dei tubi al neon e con enormi didascalie alle pareti rimanda polemicamente il pubblico ad andare al PAC.

 

[fonte: catalogo del Museo del Novecento, 2010]

 

DAL COLORE ALL’ARCHITETTURA E RITORNO

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a cura di Germano Celant
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5 colori, centinaia di metri di carta da parati, migliaia di righe verticali larghe 8,7 cm.
Il PAC diventa un’opera d’arte grazie all’intervento di Daniel Buren, uno dei più grandi rappresentanti dell’arte concettuale.
Blu, giallo, marrone, rosso e verde sono i colori scelti a priori dal curatore Germano Celant, ignaro di come sarebbero poi stati utilizzati all’interno dello spazio espositivo.
Buren decide che i colori si sarebbero succeduti in ordine alfabetico, dalla prima all’ultima sala, e in modo crescente, partendo da terra: 1/5 di blu per la prima sala, 2/5 di giallo per la seconda, 3/5 di marrone per la terza, 4/5 di rosso per la quarta e la quinta tutta verde. In fondo ad ogni sala lascia dei riquadri vuoti o colorati, in corrispondenza delle finestre cieche che si trovano sul muro esterno del Padiglione in via Palestro. All’esterno ogni finestra viene ricoperta da una carta rigata di colore uguale a quello della sala interna corrispondente. Il nero invece è utilizzato per sottolineare (o rivelare) le strutture portanti dell’edificio o per ricoprire gli elementi decorativi già esistenti.
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Nel corso della sua carriera Daniel Buren ha creato opere che implicano il rapporto tra l’arte e le strutture che la ospitano. Nel 1965 le strisce verticali larghe 8,7 cm diventano punto di partenza per la sua ricerca su cos’è la pittura, come viene presentata e, più in generale, sull’ambiente fisico e sociale in cui un artista lavora. Tutti i suoi interventi sono site specific: una ricerca meticolosa che a tratti può sembrare ripetitiva, ma che invece viene ridisegnata adattandosi perfettamente al luogo. Pochi anni dopo l’intervento al PAC l’artista partecipa alla 42a Biennale di Venezia (1986) aggiudicandosi il Leone d’Oro per il miglior Padiglione Nazionale. Mostre personali gli sono state dedicate dai più importanti musei internazionali e i suoi interventi hanno interessato musei, gallerie e luoghi pubblici in tutto il mondo, tra i più recenti quello a L’Avana (Cuba, luglio 2018).

 

FRANCESCO LO SAVIO

a cura di Germano Celant
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Dopo un lungo periodo di chiusura per lavori di adeguamento il PAC riapre ripensando il suo ruolo all’interno di una città come Milano, che già si sentiva europea. L’urgenza era chiara: farne un luogo di ricerca, sperimentazione, in dialogo con altre istituzioni internazionali, aperto agli stimoli del contemporaneo e che attraverso la cultura svolgesse a tutti gli effetti la funzione di spazio pubblico. La programmazione viene affidata a Zeno Birolli, Germano Celant e Vittorio Gregotti.

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Ed è proprio Celant a curare per la riapertura, fissata il 2 marzo, una retrospettiva dedicata a Francesco Lo Savio, una delle personalità tra le più problematiche dell’avanguardia postinformale italiana, riconosciuto accanto a Piero Manzoni come uno dei maggiori protagonisti dell’apertura europea dell’arte italiana. Lo Savio era stato un artista in anticipo sui tempi e il suo lavoro fu valorizzato solo dopo la sua morte, avvenuta a 28 anni a Marsiglia dove il giovane artista si tolse la vita gettandosi da un balcone dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier. Alcune sue opere erano state incluse a Documenta IV a Kassel (1968) e alla XXXVI Biennale di Venezia (1972), ma la mostra al PAC fu la prima ad raccogliere tutta la sua produzione tra il 1958 e il 1963: Dipinti, Metalli, Filtri, Articolazioni che segnarono il momento di passaggio dalla pittura logica alla scultura minimale e concettuale, insieme ai progetti architettonici ed urbanistici. Nel percorso anche le sue Articolazioni totali: cubi realizzati con lastre di cemento bianco opaco, aperti su due lati, da cui il visitatore rimaneva come escluso.
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